giovedì 27 dicembre 2012

Recensione: Il cucchiaino scomparso e altre storie della tavola periodica degli elementi

“Il cucchiaino scomparso e altre storie della tavola periodica degli elementi”, titolo originale: “The Disappearing Spoon and Other True Tales of Madness, Love, and the History of the World from the Periodic Table of the Elements”, di Sam Kean, traduzione di Luigi Civalleri, edizioni Adelphi, ISBN: 978-88-459-2735-5.

Non sono né un chimico, né un fisico, eppure ho trovato questo libro affascinante, interessante e bellissimo. L'Autore ci accompagna attraverso un insieme avvincente di storie legate alla materia (e con qualche accenno all’antimateria!) e che hanno come protagonisti i diversi elementi che compongono la tavola periodica (scoperta da Dmitrij Ivanovič Mendeleev e Julius Lothar Meyer). Gli aneddoti che riguardano le caratteristiche e le modalità attraverso le quali furono scoperti i vari componenti della tavola sono narrati con ironia e leggerezza, e ci si immerge in queste racconti con l’entusiasmo fanciullesco di chi ascolta delle belle favole, dalle quali, però, traspare l’ingegno umano, il rigore e la precisione delle scienze, e anche la curiosa, caotica, armonica regolarità dell’universo.

Monti al bivio: fra spinte riformiste e conservatorismo, l'eterno dilemma del liberalismo italiano


Forse bisognerebbe ancora attendere un po’ prima di fare delle valutazioni, eppure, già da quanto si vede in questi giorni, La discesa di Mario Monti in politica non sembra portare dei sostanziali cambiamenti al solito triste copione della politica italiana che, quasi come una dannazione biblica, sembra ripetersi fin dagli albori della Repubblica. Di fronte al prefigurarsi di una vittoria secca del centro sinistra, le forze più moderate e genuinamente laiche, piuttosto che appoggiare e avviare quelle politiche di cambiamento socio culturali ed economiche che l’Italia continua a mancare clamorosamente a ogni elezione, pavidamente si prestano a mantenere lo status quo fornendo il collante e gli strumenti di governo a quella consistente parte della nostra società di vocazione conservatrice che palesemente ci zavorra. Com’è possibile, mi chiedo, che un leader come Mario Monti dopo aver traghettato il Paese attraverso un periodo difficile della nostra storia, tra l’altro, di fronte alla prospettiva di dover consolidare il lavoro svolto fino ad adesso, sia così cieco da voler rischiare di costruire una nuova legislatura intorno alle medesime forze che ci hanno sprofondato nel baratro? Non penso che nessuno, che voglia considerarsi assennato, possa realmente pensare di costruire alcunché affidandosi agli stessi uomini e alle stesse ideologie che hanno condannato il Paese a vent’anni di berlusconismo. Alludo ovviamente a quelle forze cattoliche tradizionaliste sponsorizzate dalla CEI e vincolate ad una visione del mondo e della società totalmente retrogradi e che poco hanno a che vedere, nella sostanza, con la modernità e originalità del messaggio cristiano; a quel milieu piccolo borghese, volgare,  sciattone e ignorante, degno del nostro miglior cine-panettone  che ha prosperato grazie al “Cavaliere” e all’evasione fiscale degradando l’anima e l’immagine del Paese;  per continuare  con le zotiche legioni federal-leghiste, che orfane della loro corte dei miracoli di geometri mancati e fattucchiere, agognano all’ennesima sguaiata jacquerie contro una “Roma ladrona” che si è dimostra comunque non peggio di loro. Si è chiesto Monti dov’era e chi appoggiava tutta questa parte dell’elettorato negli ultimi vent’anni? Pensa egli veramente di rilanciare il Paese con gli scampoli di una classe politica che è rimasta cieca alle collusioni mafiose, alle leggi ad personam, al dilagare delle lobby, al continuo declino economico, all’ostracismo internazionale, per poi indignarsi solo di fronte al bunga-bunga? “Meglio soli che mal accompagnati” dice un vecchio detto e forse, in certi casi, se non si è più nelle condizioni di fare bene e anzi, si rischia di essere di intralcio, bisognerebbe avere il coraggio di ricavare l’esempio da seguire dal nostro lontano passato e ritirarsi fuori dalla mischia come fece a suo tempo  Lucio Quinzio Cincinnato.  

venerdì 14 dicembre 2012

Recensione: Papillon


“Papillon”, di Henri Charrière, edizioni Oscar Mondadori, ISBN: 978-88-04-38194-5.
Siamo nel 1931, Henri Charrière è accusato e condannato per un omicidio per il quale si proclama innocente. Ha venticinque anni ed è inviato a scontare una detenzione a vita nel sistema di bagni penali della Guyana Francese. Una volta condannato penserà solo alla fuga compiendo nove evasioni nell’arco di tredici anni di detenzione e riuscendo infine a fuggire definitivamente dall’Isola del Diavolo, situata al largo della costa della colonia francese (ora facente parte dei “départements d’outre-mer”), per raggiungere il Venezuela, dove prenderà residenza e cittadinanza.

 Il libro, dal quale verrà anche tratto l’omonimo film del 1973, (interpretato da Steve McQueen e Dustin Hoffman) è, secondo l’Autore, completamente autobiografico. Ciò lascia francamente stupiti, viste le peripezie alle quali va incontro il protagonista Papillon, certamente non uno “Stinco di Santo” per sua stessa ammissione, ma assolutamente ammirevole per il suo indomito coraggio, resistenza e tenacia, per la sua inventiva e arguzia, per il suo orgoglio di uomo “libero”, ma anche per la sua stramba ma umanissima etica e lealtà.
L’opera, scritta in un linguaggio semplice e diretto, è veramente scorrevole e avvincente. Essa ha finito per costituire, da una parte un potente atto d’accusa contro il sistema carcerario e, dall’altra, per rappresentare un monumentale elogio all’idea di Libertà, unica Dea che, a questo mondo, forse, valga la pena di adorare.

lunedì 10 dicembre 2012

Un bel regalo di Natale per PD e Cinque Stelle, Berlusconi torna in campo!

Sembra un paradosso, ma la discesa in campo del Cavaliere dovrebbe essere accolta con giubilo da tutte le forze di centro sinistra e dal Movimento Cinque Stelle, infatti, se questo “brocco” è il miglior asset che può calare il centro destra, mi sembra che, per una volta, si possa stare tranquilli! Certo, il Cavaliere ha cento vite, conoscenze, clientele e denari, ma in fondo, spero bene, ormai gli italiani dovrebbero aver capito chi egli sia! Certo, meglio non “Vendere la pelle dell’orso”, potremmo scoprire che il popolo italico è veramente marcio, effettivamente il rischio c’è, ma anche in questo caso, tanto vale saperlo, vorrà dire che per i nostri figli penseremo un futuro all’estero. Mai come questa volta, un elettore serio dovrebbe sapere cosa fare: c’è un PD che appare solido, borghesotto ma pluralista e aperto a sinistra (ci mancherebbe!), un Movimento tutto da scoprire, qualche scampolo di centro destra moderato, grigio, liso, ma democraticamente almeno ai limiti dell’accettabile e, alla fine, c’è pure l’astensionismo che, per quei catto-laico-fascio-federal-cubisti che abbiano ancora un minimo di capacità di intendere potrà ben essere considerata un’alternativa onorevole rispetto all’allinearsi sotto gli stendardi dell’infausto settimo cavalleria berlusconiano (chissà perché mi viene in mente l’armata “Brancaleone”:-)).

I pericoli, rispetto alla discesa in campo di Berlusconi, mi sembrano ben altri, ma pare che l’azione del Presidente Napolitano da una parte, insieme al super ego del Cavaliere dall’altra, siano insieme intervenuti per minimizzarli. Il vero rischio era un movimento di centro destra che si coagulasse intorno ad un nucleo di persone serie e rispettabili, magari proprio Mario Monti, all’ombra del quale troppo si agitavano, per esempio, personaggi come Montezemolo, portatori dell’ennesima versione di brodino di dado moderato pronto a riscaldare gli animi di laici e cattolici orfani del Cavaliere. A oggi Monti sembra bruciato, proprio da quel centro destra che avrebbe dovuto innalzarlo come un’icona. Saggio sarebbe, in campo opposto, chi gli offrisse il braccio per permettergli di servire ancora il Paese.

lunedì 3 dicembre 2012

Recensione: I Prigionieri dei Savoia – La vera storia della congiura di Fenestrelle

“I Prigionieri dei Savoia – La vera storia della congiura di Fenestrelle”, di Alessandro Barbero, edizioni Laterza, ISBN: 978-88-420-9566-8.

Da qualche tempo, in Italia, è in atto un processo di revisione, spesso assai critico, del periodo risorgimentale. Molte delle nuove ricerche hanno permesso una migliore comprensione di questo complesso periodo storico, ridimensionandone magari un po’ l’aspetto eroico e sacrale e facendo emergere quell’insieme di difficoltà d’integrazione di culture, spesso molto diverse, che resero difficoltoso e spesso doloroso e contradditorio il processo di unificazione nazionale. A fianco di queste opere di ricerca necessarie e meritorie, si è però sviluppato un filone di “studi” che si propone una vera e propria opera di mistificazione dell’epopea unitaria e che, invece, tende a rovesciare i fatti e a stravolgere la verità. Quest’opera dell’Autore si scaglia proprio contro questo genere di falsa storiografia e s’incarica di confutare una delle più persuasive e accreditate leggende nere del periodo risorgimentale, quella che cerca di avallare il mito di un genocidio perpetrato dalle autorità piemontesi nei confronti dei soldati borbonici caduti in mano dell’esercito nazionale durante lo sfaldamento del regno delle Due Sicilie.

L’Autore, attraverso una precisa opera di ricerca, annichilisce completamente queste voci e anzi, illustra chiaramente come le intenzioni delle autorità, ma anche la loro messa in pratica, andasse esattamente nel senso opposto. I soldati meridionali non andarono per nulla incontro un destino di morte, deportazioni e maltrattamenti, ma anzi, fin da subito, per essi si prefigurò e si cercò di favorire l’integrazione nell’esercito nazionale. Non ci furono quindi campi di sterminio e neppure di concentramento e, persino le fasi di detenzione iniziali, quelle più disorganizzate e caotiche furono brevi, relativamente indolori e non certo finalizzate alla distruzione fisica e morale degli ex soldati borbonici. L’Autore dimostra come siano assolutamente false le ricostruzioni riguardo alle finalità e all’organizzazione di campi di addestramento come quello di S. Maurizio Canavese e smonta completamente l’immagine famigerata di luogo di assembramento e di sterminio accreditata al forte di Fenestrelle. Barbero, correttamente, non descrive certo un quadro idilliaco, le difficoltà furono molte come anche i disagi patiti, ma nonostante ciò emerge una visione confortante del comportamento e delle finalità della classe politica neo unitaria, dell’apparato amministrativo e di quello militare (sostanzialmente ancora piemontese), che si dimostrarono di un’insospettata efficienza e di una certa magnanimità ispirata dalla genuina volontà d’integrazione, al quale si aggiunse l’applicazione di un puntiglioso garantismo (che oggi spesso ci sogniamo!) da parte della magistratura militare.

Nel tracciare il destino dei prigionieri borbonici, l’Autore si dimostra di una precisione e di una meticolosità che sfiora la pedanteria, si ha quasi l’impressione che nessun nominativo sfugga alla minuziosa ricostruzione del ricercatore. Quest’approccio rende oggettivamente il testo un po’ pesante e ripetitivo in certe parti, ma alla fine si dimostra necessario per fugare ogni ombra di dubbio nella mente del lettore. All’Autore vanno tutti i miei complimenti e il mio ringraziamento, sono, infatti, convinto che, per arrivare a una seria ricostruzione dei fatti storici si dovrebbero scrivere decine di ricerche improntate a questo livello di serietà.

domenica 18 novembre 2012

Recensione: Il Manoscritto ritrovato ad Accra

“Il Manoscritto ritrovato ad Accra”, titolo originale: “Manuscrito encontrado en Accra”, di Paulo Coelho, traduzione di Rita Desti, edizioni Bompiani, ISBN: 978-88-452-7186-1.

L’Autore immagina il ritrovamento di un antico manoscritto del quattordicesimo secolo che riporta il testo di un sermone effettuato da un oscuro (e di fantasia) saggio greco detto “Il Copto”. La pubblica predica, avvenuta nella giornata del 14 luglio 1099 in una Gerusalemme in procinto di ricevere l’assalto delle truppe crociate, si svolge nella piazza che già vide Pilato consegnare Gesù ai suoi carnefici ed è rivolta alla popolazione spaventata. Il Copto, ispirato dalle domande della folla, illustra la sua filosofia di vita incentrata sull’amore, sull’accettazione dell’alternanza della sorte, sull’ineluttabilità della morte.

Non avevo mai letto nulla di quest’Autore, anche se certamente ne conosco la chiara fama, è quindi con un certo rammarico che devo dichiararmi completamente insoddisfatto da questo romanzo. Il libro vorrebbe esprimere concetti profondi, ma è poco di più che un’accozzaglia di frasi fatte retoriche e melense senza un valore reale e, a mio avviso, in alcuni casi, persino in mutua contraddizione (devo ammettere, però, di aver perso rapidamente concentrazione nella lettura!). Il testo risulta senza un filo conduttore e senza spessore, fortunatamente, in questo caso, anche in termini di pagine, il che ha almeno abbreviato il danno causato dal tempo perso per completarne la lettura.

venerdì 16 novembre 2012

Recensione: La Rivolta – Bronte 1860

“La Rivolta – Bronte 1860”, di Lucy Riall, edizioni Laterza, ISBN: 978-88-420-9675-7.

Nell’agosto 1860, l’anno della spedizione dei Mille, a Bronte, in Sicilia, proprio in coincidenza del vuoto di potere venutosi a creare a seguito della caduta del potere politico dei Borbone, occorsero gravi episodi di violenza a causa dei contadini in rivolta che invocavano una più equa distribuzione delle terre. Nell’occasione, la furia popolare causò non poche vittime fra i proprietari e i notabili locali e gravi danni alle proprietà e all’abitato, ma soprattutto, l’opinione pubblica fu colpita dalla particolare efferatezza degli atti di violenza. I rivoltosi torturarono alcune delle vittime, infierirono sui cadaveri e, sull’onda dell’emozione, vennero anche riportate voci di atti di cannibalismo (mai accertati!). Il governo dittatoriale di Garibaldi, su richiesta dell’opinione pubblica, dei proprietari terrieri e delle autorità britanniche, intervenne con risolutezza inviando un corpo di spedizione al comando di uno dei garibaldini più focosi e inflessibili, il generale Nino Bixio, Egli agì con determinazione, proclamò lo stato d’assedio, disarmò la popolazione, arrestò i presunti capi della rivolta e i maggiori responsabili della violenza, cinque dei quali furono rapidamente processati, condannati, in maniera a dir poco arbitraria, e immediatamente fucilati.

L’episodio di Bronte ha assunto un forte valore simbolico e spesso esso è citato quando emerge il tema delle promesse tradite e delle riforme mancate dell’Italia post unitaria. Persino ai giorni nostri, esso fa discutere appassionatamente, contrapponendo i sostenitori dell’epica risorgimentale ai suoi detrattori, i fautori dell’ordine pubblico ai rivoluzionari, i “borghesi” ai “comunisti”.

Con queste premesse, il rischio di dare alle stampe l’ennesimo scritto denso di retorica era davvero altissimo, invece, l’Autore, secondo il mio parere, è riuscito a produrre una ricerca di gran valore, molto curata e sorprendentemente equilibrata nello spiegare i fatti, la loro genesi e la loro evoluzione successiva. Gli eventi sono descritti inserendoli in un contesto che fa emergere le vere ragioni della crisi. Esse, in sostanza, vanno ricercate nell’importanza del ruolo della Ducea di Bronte, feudo di vastissima entità che, dal medioevo, risulta centrale per la vita economica e per le relazioni sociali del territorio circostante. La Ducea, comprensiva di tutte le terre a essa collegate, fu concessa nel 1799 dai Borbone in appannaggio all’ammiraglio Nelson in ringraziamento dei servigi da esso prestati. S’inaugurò così un lungo periodo durante il quale, la proprietà più rilevante della zona, crocevia strategico di buona parte dei rapporti economici locali, rimase in possesso di possidenti stranieri e assenteisti. Essi ne delegarono l’amministrazione a loro rappresentanti inglesi insediatisi localmente, ma che rimasero, perlopiù socialmente isolati dal resto della comunità. Se quindi, da una parte, sulla genesi dell’episodio pesa la storica sperequazione nella distribuzione delle terre, dall’altra, vengono invece giustamente rilevate dall’Autore le cause principali che portarono all’esplodere della violenza. In particolare, furono le lotte per il potere condotte dalle diverse consorterie di nobili e notabili locali, che avevano come obiettivo, per lo più, il controllo del “mercato” delle terre date in affitto dalla Ducea e l'accaparramento delle terre comuni a essa sottratte nelle varie e fallimentari riforme agrarie che si succedettero nel corso del tempo, a provocare costantemente la frustrazione e le esplosioni di rabbia incontrollata della parte più povera della popolazione. L’Autore, giustamente pone l’accento sul fatto che, la tensione e gli episodi di violenza furono una costante del territorio a partire dall’epoca medioevale e, già solo nel corso dell’ottocento, erano avvenuti analoghi e forse più gravi disordini durante le rivoluzioni degli anni venti e del quarantotto. Furono quindi, come spesso succede in Italia, le malversazioni, le lotte di potere, il clientelismo e la strumentalizzazione messe in atto dall’elite locale residente le vere cause che, una volta di più, spalancarono il vaso di Pandora. La situazione politica, invece, com’era già avvenuta nei due procedenti episodi versificatisi nel corso dell’ottocento, fu solo la scintilla, il catalizzatore, che fece precipitare la situazione.

venerdì 9 novembre 2012

Recensione: Il Pestifero e contagioso morbo – Combattere la Peste nell’Italia del Seicento

“Il Pestifero e contagioso morbo – Combattere la Peste nell’Italia del Seicento”, di Carlo M. Cipolla, edizioni Il Mulino, ISBN: 978-88-15-23838-2.

Bellissimo piccolo saggio costituito sostanzialmente da tre parti distinte. La prima parte descrive quella che si può definire come la prima organizzazione internazionale di controllo della sanità. All’epoca il territorio italiano era suddiviso in numerosi Stati e Signorie indipendenti e alcuni di queste organizzazioni statali avevano creato una magistratura incaricata dei controlli sanitari al fine di prevenire le epidemie; si era quindi sviluppata una prassi che prevedeva lo scambio periodico di corrispondenza fra ufficiali e “uffici” sanitari diversi e che aveva lo scopo di individuare le aree soggette a focolai d’infezione per poterle prontamente isolare e interdire ai traffici in modo da contenere la diffusione delle malattie. A partire da questa prassi viene poi descritto un tentativo di accordo più impegnativo che coinvolse il Granducato di Toscana, la Repubblica di Genova, i domini del Papa e quelli partenopei (questi ultimi, all’epoca, soggetti a controllo spagnolo), che aveva lo scopo di creare un protocollo di controlli e un corpo di magistratura congiunto che monitorasse i porti principali di queste aree (Livorno, Genova, Anzio e Napoli). L’accordo, che, tra l’altro, prevedeva l’applicazione di un sistema protocollato di “bandi” e “esclusioni” delle aree colpite dalle epidemie (accordo importantissimo ai fini di evitare l’instaurarsi di vere e proprie “guerre” commerciali), fallì a causa dei diversi e spesso contrastanti interessi commerciali, ma anche per colpa dell’inefficienza della magistratura laziale e partenopea che non era, di fatto, in garantire lo svolgimento di controlli adeguati. Una forma ridotta di quest’accordo rimase comunque in vigore per un certo periodo fra la Toscana e Genova, per poi venire meno intorno alla metà dei Seicento a seguito di una disastrosa pestilenza (1656-1657) che colpì il genovese e che costrinse i toscani a inasprire i controlli nei confronti dei vicini. E’ interessante notare che per rintracciare analoghi tentativi di accordi internazionali riguardanti il controllo sanitario si deve passare direttamente al XIX Secolo quando, nel 1851, spinti dallo spauracchio delle epidemie di colera, si tentò di sviluppare un protocollo d’intesa fra undici paesi. Tale tentativo si risolse comunque in un nulla di fatto.

La seconda parte descrive, con dovizia di fonti e dati, la lotta condotta dalle autorità sanitarie di Pistoia per il controllo dell’epidemia di peste scatenatasi nel biennio 1630-31. Tenendo presente i mezzi a disposizione e le conoscenze scientifiche dell’epoca, ben lungi dall’aver individuato le origini e le cause del male, lo sforzo intrapreso riuscì in qualche modo a contenere i tremendi tassi di contagio e di mortalità caratteristici delle pestilenze e ha lasciato ai posteri del materiale interessante non solo sotto forma di osservazioni “scientifiche”, ma soprattutto, per valutare lo sforzo intrapreso dalla comunità cittadina sul piano organizzativo, logistico e finanziario.

L’ultima parte è invece rappresentata dall’appendice che fornisce un quadro della pericolosità del morbo mostrando una serie di statistiche che si riferiscono alle percentuali di contagio e di mortalità, ma che descrive, soprattutto, lo stato delle conoscenze scientifiche dell’epoca. L’eziologia del male era sconosciuta e poco si sapeva delle modalità attraverso le quali avveniva il contagio. In particolare, non si era riuscito a individuare il veicolo principale attraverso il quale agiva il batterio dell’Yersinia Pestis, cioè la pulce del ratto. Di conseguenza, tutti gli aspetti preventivi e ancor più quelli curativi erano basati sul presupposto che la peste fosse causata dai cosiddetti “miasmi”, cioè dall’aria corrotta, che, secondo le conoscenze d'allora, doveva avere la caratteristica di essere formata da atomi velenosi e particolarmente “vischiosi”. Da questa concezione, che adesso può sembrare strana, ma che all’epoca trovava riscontro in non poche osservazioni “scientifiche”, venivano prese decisioni che alle volte risultavano sensate (ad es. considerare pericolosi i tessuti e i pagliericci per la loro propensione ad attirare le sostanze appiccicose!), inutili (es. profumare gli ambienti) o controproducenti (es. eseguire salassi o somministrare purghe). Attualissimo il richiamo dell’Autore riguardo ai limiti della conoscenza scientifica che, ovviamente, rimane valido tutt’oggi e che deve mettere in guardia gli osservatori dei fenomeni naturali riguardo al nesso fra cause ed effetti; nel momento in cui si rimane all’oscuro delle reali cause di un fenomeno, si può finire per estrapolare dalle nostre osservazioni delle norme apparentemente e logicamente inoppugnabili, ma che in realtà rimangono deboli ed evanescenti come castelli in aria perché semplicemente costruite su presupposti non validi.

mercoledì 7 novembre 2012

Legge elettorale: Nel campo del PD pascola il Porcellum

Ho sempre avuto il sospetto che una consistente parte dei politici del PD, vista la situazione disastrosa dei partiti dell’opposizione, siano tacitamente favorevoli all’attuale sistema elettorale, il “Porcellum” e, avendo annusato la vittoria, in realtà faccia ben poco per cambiare le cose in vista delle prossime elezioni. Tale atteggiamento, evidentemente, è tatticamente comprensibile e, nella testa di questi signori, ha probabilmente il solo limite strategico di far correre al Paese quello che a loro deve sembrare un rischio limitato, cioè quello di consegnare le Camere al Movimento cinque stelle, unico improbabile contendente di una sfida elettorale che si preannuncia vincente, proprio perché incentrata su questo sistema di voto che non si può che definire osceno.
Non mancano certo le ragioni per opporsi a quest’atteggiamento machiavellico e pragmatico ed io ne posso elencare alcune, sia di ordine logico, sia inerenti alla sfera etica e morale:

Partendo dalle prime, farei notare a questi signori che le probabilità di vittoria del Movimento Cinque Stelle, per quanto a oggi possano sembrare esigue, non sono poi così limitate come probabilmente essi pensano. Ci sono, infatti, almeno un paio di ragioni che favorirebbero una possibile affermazione dei “Grillini”. La prima è sotto gli occhi di tutti; con le elezioni in Sicilia essi hanno dimostrato di non essere una forza trascurabile, di fronte ad un quadro incerto riguardo alla percentuale di astenuti, essi ormai si qualificano come un’alternativa sia per l’elettorato di sinistra, deluso dalla propria nomenclatura, sia come l’ultima spiaggia per una parte dell’elettorato di destra, che potrebbe cominciare seriamente a preferire il possibile Armageddon che seguirebbe la vittoria del Movimento rispetto al dominio incontrastato del PD. C’è poi il fattore “Renzi” che potrebbe seriamente spaccare la traballante unità della sinistra moderata che quindi potrebbe perdere il suo carattere monolitico proprio ad un passo delle prossime elezioni, oppure, in caso di sconfitta di quest’ultimo, come minimo, potrebbe portare molti potenziali elettori del PD a disertare a favore dei Cinque Stelle.

Le ragioni etiche e morali che suggeriscono di avviare un dialogo trasparente con l’obiettivo di dare al Paese una legge elettorale onesta sono invece evidenti. Vale però la pena di ricordare che tocca proprio ai leader PD fare quel gesto di maturità della classe politica che da decenni attendiamo. Infatti, è proprio nel momento in cui si è forti che tale vantaggio va sapientemente usato a favore dell’intera collettività. Per anni si è gridato allo scandalo per una legge oggettivamente scritta e voluta da soggetti che non possono che appartenere alla genia dei ladri, dei cinici oppure degli incompetenti, se però si percorre la stessa via, se si ruba una vittoria elettorale imponendo ai cittadini l’ennesimo Parlamento scarsamente rappresentativo, si è forse diversi da loro? E’ non è quindi legittimo chiedersi se è sensato votare per soggetti di tal fatta?

Dall’insieme dei due ordini di considerazioni emerge la ragionevole possibilità che proprio la scelta di seguire la linea di un tatticismo disonesto massimizzi il rischio di precipitare il Paese nel caos. Dall’altro lato, sembra che etica e logica convergano nel suggerire una scelta responsabile che restituisca all’elettorato quella reale possibilità di scelta che negli ultimi lustri gli è stata negata e che se sarà ripristinata, forse consentirà di candidare ed eleggere un Parlamento che sia migliore rispetto a quanto sia più stabile.

venerdì 2 novembre 2012

Recensione: Bambini Affittati – Vaché e Sërvente, un fenomeno sociale nel vecchio Piemonte rurale e montano

“Bambini Affittati – Vaché e Sërvente, un fenomeno sociale nel vecchio Piemonte rurale e montano”, di Aldo Molinengo, edizioni Priuli & Verlucca, ISBN: 978-88-8068-609-5.

Fino al dopoguerra, prima del cosiddetto “boom economico” che cominciò a fare sentire i suoi effetti a partire dagli anni cinquanta del novecento, il Piemonte, come per altro, anche il resto d’Italia, era ancora caratterizzato da un’economia fortemente agricola che occupava ancora una larga parte della popolazione la quale, per altro, viveva spesso in condizioni assai misere. In questo contesto, il lavoro minorile svolto in età precocissima (anche dai quattro/cinque anni) era piuttosto diffuso com’era estesa l’abitudine di affittare i propri figli per intere stagioni di lavoro in cambio del mero mantenimento, al più, integrato da una paga simbolica o da qualche regalo.

L’Autore ritorna su queste situazioni della nostra storia recente e, nel frattempo, ne approfitta per descrivere i ritmi, la vita e le tradizioni della società rurale, il cui insieme costituisce una cultura rimasta intatta per secoli e ormai in gran parte dimenticata nell’arco di meno di due generazioni grazie al benessere e allo sviluppo ottenuto dal nostro paese.

A ben pensare, per quelli della mia generazione questi ricordi non sono ancora spenti, ho ancora fatto in tempo a vivere e vedere alcuni dei riti tradizionali descritti in questo libro e molto mi è stato raccontato sia dai miei genitori sia dai miei nonni. E’ invece al mio bisnonno, che a dodici anni partì da una cascina del Canavese per cercare fortuna in America, che dobbiamo l’inizio della nostra “fortuna” economica, anche il suo nome figura fra i tanti che passarono da Ellis Island in cerca di miglior fortuna (che egli effettivamente trovò!).
In sintesi, il libro non può essere considerato una grande opera di ricerca, esso, infatti, contiene perlopiù ricordi e testimonianze relativi ad un'area ristretta del Piemonte, ma, nonostante ciò, è stato comunque interessante rileggere di un mondo che è ormai quasi scomparso seppure appena dietro l’angolo ma che è facile ritrovare nel paesaggio e nei ricordi.

Aggiungo una curiosità. L’Autore parla molto del Saluzzese e, in particolare della Valle Po, luoghi che conosco abbastanza bene. Fra i posti citati vi è anche Balma Boves, una località situata in prossimità del paese di Rifreddo. Questo complesso abitativo, sapientemente restaurato, è diventato una sorta di museo all’aperto ed è un luogo straordinario, incorniciato in un contesto che ha veramente qualcosa di magico e che vale una deviazione qualora foste da quelle parti.



Spunti di riflessione

Questo scritto mi è capitato in mano per caso, di fronte ad esso, per adesso, mi segno semplicemente un promemoria in modo da non perderlo troppo di vista. Esso infatti merita una riflessione perché si tratta, a mio avviso, di un brano straordinario sia riguardo al contenuto sia per ciò che concerne l'intensità, che inducono nel lettore un profondo impatto emotivo. Ho trovato che ci fosse qualcosa di quasi "faustiano" in esso ... oppure, al contrario, che nascondesse un'illuminazione, la visione fugace di una Terra di confine il cui orizzonte si staglia fra luce e ombra. Ci tornero su!


Dal libro della Sapienza


Pregai e mi fu elargita la prudenza,
implorai e venne in me lo spirito di sapienza.
La preferii a scettri e a troni,
stimai un nulla la ricchezza al suo confronto,
non la paragonai neppure a una gemma inestimabile,
perché tutto l’oro al suo confronto è come un po’ di sabbia
e come fango sarà valutato di fronte a lei l’argento.
L’ho amata più della salute e della bellezza,
ho preferito avere lei piuttosto che la luce,
perché lo splendore che viene da lei non tramonta.
Insieme a lei mi sono venuti tutti i beni;
nelle sue mani è una ricchezza incalcolabile

lunedì 29 ottobre 2012

H 312 – L’handicap del sistema Italia: Sintesi di uno studio de La Stampa in collaborazione con la fondazione David Hume relativo alla produttività delle imprese italiane.

Oggi su La Stampa è stata pubblicata la sintesi di un’indagine che aveva come oggetto uno studio sulla produttività delle imprese italiane.


http://www.lastampa.it/2012/10/29/economia/l-handicap-dell-impresa-italia-YyANHjgzpqFIEyybfxjgcO/pagina.html

Tale studio è stato riassunto dall’esposizione dell’indice “H” (come “handicap”) che vorrebbe provare a misurare quanto sarebbe l’utile netto di un’impresa italiana se, conservando lo stesso tipo di organizzazione, al posto di operare sul territorio nazionale, essa fosse dislocata in un altro paese europeo. Andando subito al risultato, supponendo un utile netto pari a “100” ottenuto in Italia, l’indice “H” inteso come valore medio varrebbe nel resto d’Europa “312”. Vale a dire che la stessa impresa all’estero guadagnerebbe circa il triplo. L’indagine evidenzia anche che, se si guarda a una minoranza di singoli paesi (Germania, Belgio, Svezia e Danimarca), la nostra impresa guadagnerebbe meno di “100” (rispettivamente: 89, 51, 39 e addirittura registrerebbe una perdita in Danimarca, -36), ma, al contrario, nel resto d’Europa i risultati sarebbero molto migliori, con un vantaggio che va, dai “110” se si operasse in Francia, che passa a “214” nel Regno Unito e a “295” in Spagna, per finire con gli stellari “703” dell’Estonia! Personalmente, però, rimango colpito dai punteggi di: Slovenia (390), Polonia (595), Repubblica Ceca (609), Slovacchia (618) che non a caso sono state terreno di accoglienza nel recente passato di massicce delocalizzazioni d’imprese italiane. Manca purtroppo una comparazione con la Romania, per la quale mi aspetterei, anche in questo caso, di vedere apparire i numeri più alti della forchetta.

L’aspetto assolutamente interessante che emerge dall’indagine riguarda il costo del lavoro che è chiaramente scagionato come principale responsabile delle relativamente cattive performance del “Bel Paese”. A questo proposito, quindi, sarebbe utile cercare di capire il perché se ne parla tanto, posto che, se da una parte viene riconosciuto un problema riguardante il “cuneo fiscale” (delta fra il costo del lavoro e la retribuzione netta), dall’altra é anche detto chiaramente che le retribuzioni sono comunque oggettivamente più basse di quanto potrebbero essere in riferimento al resto dell’Europa. L’Italia, comunque, dal punto di vista delle retribuzioni nette si colloca esattamente all’interno della media, mentre pesa semmai il costo di tutti gli altri beni e servizi diversi dal lavoro che interessano la produzione. In questo caso, solo operando in Danimarca un’azienda italiana sarebbe danneggiata peggiorando i costi del 4,8%, nel resto d’Europa invece si otterrebbero benefici consistenti, ad esempio, operando in Francia o Germania si conseguirebbe una riduzione dei costi intorno al 7,5%.

Dai dettagli dello studio (apparso in otto puntate sul quotidiano) emergono invece i veri fattori che zavorrano le imprese italiane. L’analisi ne pone in evidenza alcuni che sono i “soliti noti”: Alto costo dell’energia e pessima qualità delle infrastrutture, inefficienza del sistema del credito sia sul lato dell’erogazione sia riguardo ai tempi d’incasso (e che tra l’altro vede primeggiare proprio la pubblica amministrazione fra i debitori meno virtuosi!), l’alto livello di tassazione che grava sulle imprese, le inefficienze burocratiche e i relativi extra-costi, il cuneo fiscale delle retribuzioni.

Se ne trae quindi un quadro a tinte fosche, ma che, a ben vedere, può anche essere visto come un’opportunità e indurre a un cauto ottimismo, perché traccia una possibile scaletta di interventi che potrebbero essere posti in essere dimostrando dove e come sia possibile ottenere significativi aumenti di produttività a seguito di scelte percorribili. Molto dipende dall’attuazione di scelte politiche ed è comunque consolante sapere che l’opera di razionalizzazione rientra nelle possibilità di una leadership realmente intenzionata a percorrere un sentiero di riforme che diano efficienza al nostro sistema paese allontanando lo spettro del declino.

domenica 28 ottobre 2012

Recensione: A Morte il Tiranno – Anarchia e violenza da Crispi a Mussolini

“A Morte il Tiranno – Anarchia e violenza da Crispi a Mussolini”, di Erika Diemoz, edizioni Einaudi, ISBN: 978-88-06-20691-8.

Fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del novecento, gli anarchici italiani furono considerati fra le più pericolose minacce terroristiche del momento. Attivi nella propaganda a difesa degli oppressi, presunti mandanti ed esecutori di attentati efferati che colpirono direttamente teste coronate e personaggi politici di spicco, essi impressionarono, affascinarono e terrorizzarono l’opinione pubblica con le loro gesta spregiudicate degne dei più fanatici degli accoliti, finendo per circonfondere la comunità anarchica internazionale di una profonda aura di mistero. Per decenni le polizie di mezza Europa tentarono di dipanare le “trame” anarchiche e andarono alla caccia della “Cupola” di quest’organizzazione che si voleva potente e impenetrabile come i vertici di una setta misterica. Le indagini, infine, non riuscirono a scoprire nulla di sostanziale, anche perché, effettivamente, non esistevano né vertice né struttura segreta. Esisteva invece un’inquieta, dinamica, variopinta e solidale collettività anarchica internazionale in mezzo alla quale, insieme a molto individualismo, ricorrevano alcuni carismatici esponenti di spicco. Attraverso questa comunità le idee libertarie circolavano le iniziative si moltiplicavano e i singoli “fatti” (così erano chiamati gli atti di protesta e gli attentati) venivano esaltati, perpetrati e spesso imitati.

L’Autore attraverso una mole notevole di documenti tratti dagli archivi della polizia, dagli atti processuali, da articoli di giornale e dalla corrispondenza privata, ci guida attraverso questo mondo illustrando efficacemente il clima socio-economico dell’epoca e raccontando la vita degli attentatori, spesso singoli disperati, e degli altri protagonisti, sia di parte anarchica sia di parte istituzionale.
Ho trovato personalmente interessante costatare in alcuni processi contro gli attentatori anarchici, il ruolo riservato alla scienza, allora incentrata sulle teorie lombrosiane, e mi ha colpito la sagacia di non pochi politici e studiosi all’epoca contemporanesi dei fatti che, correttamente, facevano risalire la violenza anarchica alle difficili condizioni di vita dei ceti popolari che caratterizzavano la penisola italiana e la congiuntura europea del periodo.

Per me, quindi, il libro è risultato curioso e interessante e, curiosamente, trovo che finisca per dimostrare, a onta dei mezzi a disposizione dei protagonisti e nel bene come nel male, la grande potenza, dedizione e spirito di rivalsa che sa ispirare l’ideale della libertà.

martedì 23 ottobre 2012

Recensione: Amerigo – La vita avventurosa dell’uomo che ha dato il nome all’America

“Amerigo – La vita avventurosa dell’uomo che ha dato il nome all’America”, titolo originale: “Amerigo, The Man Who Gave His Name to America”, di Felipe Fernàndez-Armesto, traduzione di Ester Borgese, edizioni Bruno Mondadori, ISBN: 978-88-61-59274-2.

Fernàndez-Armesto è uno storico che riesce sempre a stupire proponendo spesso punti di vista fuori dal comune eppur straordinariamente convincenti. Anche questa biografia, che sicuramente non è all’altezza di altre opere dello stesso Autore, ha comunque dietro una grande opera di ricerca e soprattutto uno stile narrativo sconcertante che, apparentemente, vuole produrre un risultato eccezionale, quasi una burla. Fernàndez-Armesto sembra volerci mettere in guardia proprio contro le insidie della ricerca biografica che, nel bene o nel male, contribuisce per definizione a creare e perpetuare il mito intorno al soggetto trattato. Le biografie, infatti, spesso ripercorrono la vita e le gesta di personaggi che la storia o l’opinione comune ha riconosciuto come eccezionali, di conseguenza, il lettore si aspetta che nella vita di questi personaggi emerga qualcosa di speciale, persino in quei casi in cui l’affresco sia fatto a tinte fosche. Si rimane quindi comprensibilmente spaesati ad apprendere che il grande navigatore che ha legato il proprio nome al Nuovo continente in realtà non fosse eccezionale per nulla: faccendiere, ex mago, mercante di non eccelsa attitudine e di mediocre successo e infine neanche troppo valente né come navigatore né come osservatore e neppure come cosmografo. Secondo la ricostruzione dell’Autore, Amerigo non era né un eroe né un anti eroe e anzi, esso assomigliava “straordinariamente” sia nelle qualità personali sia nel bilancio della sua carriera a una persona assolutamente normale. E come finì il suo nome sulle carte geografiche allora? Banalmente, fu una commistione di errori altrui e di fortuna sfacciata, niente di più normale! Per sapere i dettagli, però, conviene veramente leggere il libro, perché è proprio vero che la realtà supera spesso anche la più fervida fantasia.

domenica 21 ottobre 2012

Uomini con il coltello in tasca

Sono sempre più colpito dalla lettura di molti fatti di cronaca. Il copione sembra sempre lo stesso anche se cambiano leggermente i contesti; un insulto, una manovra sbagliata, un urto accidentale, un’occhiata troppo intensa, un rifiuto, un amore respinto ed ecco che salta fuori una lama e finisce a coltellate, spesso non una, decine. Poi la solita lagna:”ho perso la testa!”. Questo è appena successo a un ragazzo che ha ferito gravemente la sua giovane ex fidanzata e ucciso la sorella che cercava di difenderla. Io mi chiedo però: ”Ma come? Come puoi dire di aver perso la testa? Non può succedere così!”. Certo può accadere che un litigio finisca in tragedia, in fondo, riconosco questa possibilità, sono, infatti, imprevedibili i frutti dell’ira. Semmai sono allibito riguardo al fatto che ci si accanisca su un soggetto fragile, un anziano oppure, appunto, una donna, ma a parte ciò, si sa che l’insidia si nasconde dietro una spinta avventata che provoca una brutta caduta, l’urto accidentale di uno spigolo, uno schiaffo istintivo, un pugno violento che sfonda il torace o il setto nasale … persino un’arma impropria raccolta per strada o nella cucina di casa, anche quello ci può stare, quella è fatalità! Seppur magari scatenata anch’essa da un eccesso malato, quello è “perdere la testa”, andare oltre a quanto ci si era proposti di fare.
Invece una coltellata no! Li c’è un’arma di mezzo e, dietro la scelta di girare armati c’è un intero sistema di pensieri, un universo sbagliato e un abisso di debolezza che non può essere scusato così facilmente. Nel momento in cui uno si mette in tasca un’arma, si accompagna al gesto il proposito di usarla. La testa quindi la si perde lì, nel momento in cui si sceglie di vivere da vili.



martedì 16 ottobre 2012

Una parabola "Celeste"

Sembra proprio la ridanciana testa del “Celeste” quella che appare infissa alla staccionata del palazzo della Regione Lombardia. Forse, a Dio piacendo, l’oscura giungla di Conrad ha finalmente richiamato a se l’ennesimo dei suoi “cuori di tenebra”! ... Anche se, aggiungerei, neanche nella caduta il personaggio regge comunque degnamente il paragone.

venerdì 12 ottobre 2012

Recensione: Vergogna – Metamorfosi di un’emozione

“Vergogna – Metamorfosi di un’emozione”, di Gabriella Turnaturi, edizioni Feltrinelli, ISBN: 978-88-07-10484-8.


Il libro cerca di analizzare in chiave moderna il sentimento della vergogna, cercando di capire come esso si sia adattato e differenziato all’interno della società moderna.

In passato il sentimento della vergogna era fortemente legato al concetto di onore, a sua volta, parte integrante di un certo ruolo e status sociale. Il tessuto sociale tendeva a essere più coeso e maggiormente orientato verso un sistema condiviso di valori, pertanto, spesso la vergogna segnalava uno stato per il quale un soggetto veniva meno agli obblighi formali legati a una certa carica e ruolo. Nella società moderna, molto più segmentata rispetto al passato, se non improntata decisamente verso l’individualismo, ma anche caratterizzata dall’assottigliamento delle differenze fra aspetti personali e privati e immagine pubblica, la vergogna sembra aver perso l’importanza originale ed è spesso relativizzata rispetto ai valori di riferimento di un qualche individuo o sottogruppo diventando personalizzata, quasi “fai da te”. Spesso la ragione dello svergognamento non è più fondata sul timore di un giudizio morale dato dall’intera collettività, ma dipende più dalla mortificazione originata dal mancato conseguimento di obiettivi personali, dalla mancata risposta a modelli estetici o di consumo veicolatici dai media, da un fallimento in termini di prestazioni o dalla condanna di un ristretto gruppo di riferimento e di appartenenza con il quale si condividono obiettivi e valori non di rado differenti rispetto a quelli che caratterizzano l’insieme della società. In un sistema incentrato sul narcisismo, sulla spettacolarizzazione, malato di performance e incantato dal mito della felicità, la vergogna e il disagio a essa collegato sono spesso relegati a semplici fastidi, a disagi da curare, riparare e superare rapidamente per poter “ripartire” e le cadute di ordine morale finiscono per essere banalizzate, relegate a semplici episodi sfortunati, scivoloni occasionali di una rappresentazione, di una mascherata fatta a beneficio di un pubblico che, seguendo la logica del “così fan tutti”, s’immagina ugualmente intimamente compromesso.

In una parte successiva del saggio è invece analizzata l’emozione della vergogna in funzione del controllo sociale. In questo caso, la possibilità di istillare vergogna, di bollare come “vergognoso” il comportamento di singoli o gruppi è stato in passato, ed è ancora adesso uno degli strumenti a disposizione dei leader per far convergere il consenso e per reprimere il dissenso.

Vi è poi un’altra sfaccettatura di questa emozione che emerge quando il sentimento insorge non relativamente al soggetto ma al contesto entro il quale egli si riconosce. Questo succede quando ci si vergogna di qualcuno o di qualcosa fatta da altri, quando si sente di patire un danno d’immagine a seguito dell’operato di altri. Questo coinvolgimento può riguardare sia la cerchia ristretta degli affetti per allargarsi a tutti quegli insiemi ai quali si sente di appartenere: la famiglia allargata, la propria squadra, il proprio gruppo di lavoro, la propria azienda, i propri correligionari, i compagni di partito, la patria fino all’intero genere umano.

La reazione alla vergogna ha forti conseguenze, sia nel caso in cui essa sia provata nei confronti dei propri atti, sia quando è provata nei confronti di altri e può dare origine a stati e comportamenti negativi, attraverso il senso di colpa, l’isolamento, l’alienazione e la depressione, ma più spesso positivi, aventi la finalità di superare lo stato vergognoso che s’intende comunque transitorio. Interessante è la parte del libro relativa al legame fra vergogna provata per altri e il senso d’indignazione, che finisce per essere rilevante per i cambiamenti politici e per quelli sociali finendo per creare quei “movimenti d’opinione” fondamentali ai fini dell’alternanza politica e al rinnovamento e all’evoluzione della società.

Il tema è dunque interessante, ma il libro, seppur ben scritto, non è riuscito a essere coinvolgente. Non penso che ciò dipenda dallo stile dell’Autore che è chiaro e scorrevole, quanto dal fatto che l’argomento è stato trattato solo in chiave sociologica, e non anche antropologica, fisiologica ed evolutiva. Vi sono poi delle argomentazioni che mi sono apparse ripetitive e alla fine la lettura risulta fin troppo distaccata rispetto a un argomento che tanto dipende dalle correnti sotterranee delle nostre umane passioni.

mercoledì 10 ottobre 2012

Legge di stabilità, IMU sugli immobili della Chiesa, Tobin Tax: Tre buone iniziative del Governo Monti

Sono stupito e piacevolmente sorpreso dalle ultime iniziative del Governo Monti. Non mi aspettavo, infatti, che ci fosse una vera intenzione di tagliare le aliquote IRPEF, e questo nonostante che, guardando le cose con il senno di poi, qualche voce riguardo a questa possibilità fosse filtrata nei giorni scorsi. Sicuramente qualcuno starà già pensando a qualche astuta manovra preelettorale, ma per quanto mi riguarda, ciò che emerge dalla nuova legge di stabilità mi sembra un buon compromesso fra rigore e compensazioni. Oso anche pensare che questo provvedimento lasci intravvedere un nuovo approccio verso la soluzione della crisi che passi da una logica incentrata solo su tagli e sacrifici un po’ troppo indiscriminati a una politica basata maggiormente sul riequilibrio dei redditi.


Si potrebbe pensare che, almeno sul fronte dell’immagine si potesse fare di più, a questo proposito, la ciliegina sulla torta forse sarebbe stata l’introduzione di una super aliquota per i redditi “altissimi” (es. maggiori di 300.000 euro), allineandosi così all’iniziativa del francese Hollande. Io però sono dell’opinione che non fosse il momento per un provvedimento del genere che in realtà, in termini di gettito, si sa più psicologico o demagogico che di sostanza. Una mossa del genere avrebbe chiaramente indicato un cambio di rotta verso politiche maggiormente ispirate a un qualche “New Deal”, ma forse avrebbe agitato inutilmente le acque in cambio di poca sostanza.
Invece, uno scambio fra sgravi IRPEF e aumento dell’IVA sembra un compromesso accettabile, anche perché, nella sostanza, immunizza i contribuenti virtuosi (solo nel caso di redditi correnti confrontati alle spese correnti però!) mentre colpisce indirettamente gli evasori.

Buone notizie anche sul fronte del versamento dell’IMU, dove il Governo mantiene il suo impegno nel cercare di assoggettare all’imposta anche quegli immobili ecclesiastici dove è svolta un’attività produttiva di reddito e ottima l’intenzione di allinearsi alle iniziative di Francia e Germania riguardo all’applicazione della Tobin Tax sulle transazioni finanziarie.

lunedì 8 ottobre 2012

Etica e azione – Una riflessione sul mito del Superuomo ispirata da “Delitto e Castigo” di F. Dostoevski

Il capolavoro di Dostoevski non lascia indifferenti, molti rimangono colpiti da qualcuno dei temi trattati nel romanzo o dalla figura di qualche personaggio e questo è quanto, è successo anche a me. Prima di leggerlo, avevo l’impressione che l’interesse dei più s’incentrasse sul ruolo salvifico della religione, probabilmente ciò è vero, ma adesso mi rendo conto che questo elemento costituisce al più uno degli assi, non necessariamente il principale, intorno al quale ruota la vicenda.
 Il libro è caleidoscopico e tocca moltissimi temi, personalmente, quello che mi ha attratto di più è quello incentrato sui rischi del nichilismo e sulla figura del protagonista Rodion Romanovič Raskolnikov. Durante il romanzo emergono le ragioni profonde che guidano la mano assassina del giovane studente, esse sono inizialmente confuse, ma infine appaiono nitidamente. L’omicidio, apparentemente compiuto a scopo di rapina trova una prima giustificazione nella disastrata situazione economica di Raskolnikov; i soldi sottratti alla vecchia usuraia dovrebbero servire al protagonista per rimettersi sui binari, trovare ampie risorse per continuare gli studi e per impostare una vita di successo, ma anche per affrancare la madre e la giovane sorella dall’obbligo del suo mantenimento. Già a proposito di quest’ultimo punto però, emerge l’ambiguità di Raskolnikov perché la sua volontà d’indipendenza non mi appare genuinamente motivata dall'intenzione di non gravare sui famigliari, quanto da un incontenibile e mal indirizzato senso di orgoglio che lo spinge a un tentativo infruttuoso di affrancarsi prima del tempo. Lui poi avrebbe la soluzione al problema, basterebbe impegnarsi sopportando lo stato d’indigenza, adattarsi a qualche modesta fonte di guadagno imitando il comportamento del suo amico Dmitrij Prokofevič Vrazumichin (Razumichin ) per il quale, sembra provare sì ammirazione, ma anche molta invidia.
 Raskolnikov, a mio avviso, è innanzi tutto un pigro, vuole immediatamente indipendenza e agi e non è (più) disposto a soffrire per migliorare la sua condizione, non vuole faticare nella sua scalata al successo e come molti deboli e inetti si culla nell’illusione della svolta ottenuta con un colpo di teatro. Sotto questa luce, tutta la sua preoccupazione verso i famigliari appare come una semplice scusa, una giustificazione morale elaborata a priori per addormentare la propria coscienza. Poi però emergono le vere ragioni nascoste che guidano l’azione del protagonista, svelando l’effetto corrosivo dell’approccio nichilista. Egli, oggettivamente un fallito, si sente invece un Napoleone (non è raro in personaggi di tal fatta!), un uomo del destino che deve mettersi alla prova e ha la necessità di dimostrare a se stesso la sua capacità e volontà di saltare lo steccato morale che dovrebbe rendere evidenti le sue qualità di superuomo. Compiendo il delitto, eliminando consapevolmente una semplice “piattola” (così egli definisce la vittima prima e dopo l’omicidio) egli, nelle sue intenzioni deliranti, si rende padrone della propria morale e spiana il proprio destino. Secondo me, proprio in questo punto avviene un tipico cortocircuito che caratterizza il pensiero nichilista. L’aspetto che sfugge a ogni logica è quello di pretendere di autoproclamarsi “superiore” grazie ad un clamoroso atto d’indipendenza compiuto contro l’etica condivisa. Seguendo questa china non si oltrepassano i propri limiti in termini positivi, non si ascende, ma anzi si precipita regredendo al ruolo patetico di “super infame”. L’errore grossolano è quello di pensare che il Superuomo, posto che abbia senso questo termine, si possa incoronare da sé, quando invece è il proprio destino, la propria storia, o nei casi fortunati, quella ufficiale a farlo, ma sempre a posteriori. Non ci si candida a essere “eccezionali”, forse infine si scopre semplicemente di esserlo, o almeno di essere visti come tali. Tutto ciò però avviene, posto che effettivamente succeda, (perché non è detto che il proprio operato sarà rilevato) attraverso il giudizio di altri. Neanche la rivisitazione del passato, del percorso che si è compiuto, è soggettivamente rilevante perché l’eventuale scoperta matura esternamente, non è mai del soggetto che, invece, guarda al proprio passato solo per trarre esperienza e per misurare i propri progressi. Nella realtà, comunque, non esiste nessun Superuomo, ma solo un semplice uomo in formazione, alla continua ricerca del proprio compimento in relazione ai modelli che lo ispirano. Se per gli altri egli finisce per essere un eroe, un personaggio eccezionale, egli non si vedrà mai così, egli, infatti, fa le cose per sé e poiché necessarie al proprio completamento e le sue opere, magari straordinarie, intimamente si danno come atti dovuti e necessari, doveri ai quali egli non si può sottrarre.
Ecco l’errore tragico di Raskolnikov, non si diventa Superuomo in virtù di una prova singola, a un rito d’iniziazione; e poi, l’ho già detto, il Superuomo non esiste, è un concetto illusorio. Si può però divenire padroni del proprio destino, qualsiasi esso sia, e questo avviene solo quando si accetta di seguire la via del perfezionamento, sapendo che tale percorso non conduce necessariamente al successo e alla gloria terrena. Il premio è la pace, l’accettazione di sé, la consapevolezza di essere e di agire nel giusto. Il processo però, necessita per forza tempi lunghi e non può implicare una rottura con la morale del momento. Si deve lavorare per la giustizia, ma la percezione di ciò che è giusto si sviluppa lentamente grazie ad un incessante lavoro di studio e di miglioramento. E’ la cultura, lo spirito di analisi e la capacità di osservazione che deve guidare l’azione. in ogni caso, mai ci si separa completamente dall’etica contemporanea verso la quale non si ricerca mai una rottura, semmai si scruta il futuro cercando di vederne o promuoverne l’evoluzione. Anche il legame verso la tradizione deve rimanere saldo, incentrato su quei principi basilari che si sanno fondamentali, come la “regola aurea” oppure il generico rispetto della vita, per quanto possibile. Per l’uomo la vita è importante in tutte le sue forme, non esistono “piattole”. Levare la vita può essere un atto necessario o anche solo utile o comunque dettato dal contesto oggettivo, al modo in cui funzionano le cose, ma non deve mai essere banalizzato, relegato nell’irrilevanza, pena la perdita dell’umanità, dello status di uomo, del senso di giustizia. Per questi motivi, la via del perfezionamento non prevede rivoluzioni ma riforme graduali, un progresso che ci si augura incruento legato al maturare dei tempi, alla ricerca del senso e dell’armonia di gesti, parole e azioni e non può ridursi a un unico eclatante atto volitivo.

martedì 2 ottobre 2012

Recensione: Delitto e Castigo

“Delitto e Castigo”, titolo originale: “Prestuplénie i nakazànie”, di Fëdor M. Dostoevski, traduzione di Cesare G. De Michelis, edizioni La Biblioteca di Repubblica, ISBN: 88-89145-03-X.

 Per quanto mi riguarda il libro, ha pienamente confermato la sua fama di capolavoro. Certo, sono passati circa cento cinquant’anni dalla sua pubblicazione (uscì nel 1866) e, a parer mio, il romanzo accusa un po’ l’età per quanto concerne lo stile della narrazione e i dialoghi che, oggigiorno, appaiono un po’ irrealistici e troppo teatrali. Per certi versi poi, almeno per buona parte del romanzo, la trama sembra procedere lentamente, appesantita da una fitta presenza di dialoghi, spesso introspettivi, e inframmezzata di personaggi che, a prima vista, ma erroneamente, appaiono superflui. Eppure, a poco a poco, la storia conquista e cattura la piena attenzione del lettore in un crescendo di pathos veramente drammatico e innegabilmente appassionante che, almeno per ciò che mi riguarda, … inaspettatamente non arriva al finale che immaginavo!

 - Ma come? Ho pensato, eppure la trama è nota a tutti nei suoi termini generici! … L'operato di Dostoevskij e, in particolare, questo libro sono stati analizzati, spiegati, rigirati da legioni di studiosi e intellettuali, eppure, in modo inatteso, e forse è proprio questa caratteristica che fa di questo romanzo un capolavoro di successo anche ai nostri giorni, la narrazione lascia ancora al lettore la possibilità di dare un suo giudizio personale sulla vicenda. Nelle pieghe della trama la percezione delle diverse ragioni, delle motivazioni, delle cause e degli effetti sono in qualche modo variabili e, come in una buona ricetta, questi elementi possono, entro certi limiti, essere calibrati e mescolati in modo personale, traendone così un caleidoscopio d’insegnamenti diversi e adattabili. Qui, forse, sta Il bello di questa storia che, seppur incorniciata in un contesto definito, ognuno può leggere a suo modo cogliendone gli aspetti che più hanno colpito la propria fantasia. Ma torniamo alla vicenda …

 Siamo a Pietroburgo, dove un giovane, ex studente squattrinato, Rodion Romanovič Raskolnikov, pianifica e compie un omicidio a scopo di rapina uccidendo una vecchia usuraia. Il delitto, accuratamente meditato e preparato, nella pratica si volge in un disastro. L’assassino è costretto a sopprimere una vittima innocente, Lizaveta Ivanovna, mite sorella dell’usuraia e la rapina, sostanzialmente, fallisce a causa del panico e della fretta che s’impossessano dello sprovveduto artefice che, perduto completamente il suo sangue freddo, riesce a stento a dileguarsi con un bottino inconsistente. Segue per lo studente un profondo periodo di angoscia, rimorso e paranoia che finisce per gettare il protagonista in un completo stato di prostrazione fisica e psicologica. Lentamente egli giunge alla consapevolezza della sua incapacità di gestire le conseguenze del suo gesto, della sua impossibilità di “andare oltre”, del completo collasso della sua sicumera e della propria personale e amorale versione del “Superuomo”. Perseguitato dai sospetti reali o immaginari che cominciano a insinuarsi in chi conduce le indagini e nei suoi stessi amici e famigliari e che, egli stesso contribuisce ad alimentare con la sua goffaggine e con una completa assenza di autocontrollo, egli finisce per trovare esempio e consolazione nella persona di Sof'ja Semënovna Marmeladova, giovane figlia di un ubriacone conosciuto per caso, costretta alla prostituzione per necessità, eppure straordinariamente buona e virtuosa, grazie anche alla sua profonda fede religiosa. A lei Raskolnikov confessa la sua la colpa, ed essa contribuisce a convincerlo a costituirsi, finendo poi per seguirlo nel suo esilio in Siberia dove continuerà ad accudirlo durante la detenzione venendo infine (ma proprio alla fine!) ricambiata da Raskolnikov per il suo amore e dedizione disinteressati.

 Quest’opera e dunque un contenitore pieno di elementi sui quali riflettere, a cominciare dal titolo che in realtà sarebbe “Il Delitto e la Pena” (pare che il titolo in Italiano derivi da una non corretta traduzione del testo dal francese!) e che riecheggia volutamente l’opera di Cesare Beccaria “Dei Diritti e delle Pene”, pietra miliare nel campo della cultura giuridica. Sullo sfondo, però, sono proposti esplicitamente o appena accennati moltissimi altri temi complessi. In primo luogo emerge quello religioso, posto non solo in antitesi alla visione nichilista del “Superuomo”, nuovo demiurgo fortificato dalla “morte di Dio”, artefice del proprio destino e della propria morale (e qui dimostratosi terribilmente fallace!); ma che si sviluppa anche affrontando altri argomenti come quello della fede nella Provvidenza e nella Giustizia divina, della salvezza (o redenzione) ottenuta tramite il sacrificio, della carità. Appaiono poi sullo sfondo le idee socialiste: la comune come luogo antitetico al capitalismo, l’ideale di una società più giusta basata su un maggior livello di cultura, le contrapposizioni fra lo spirito libertario e l’ordine sociale, la sua influenza sull’idea tradizionale di famiglia, il tutto condito dalle umane pulsioni, la gelosia, l’adulterio collegati al tema della libertà sessuale e di scelta della donna. Insomma! Una vera cornucopia dalla quale è facile trarre spunti e ispirazioni.

giovedì 27 settembre 2012

Carcere per Sallusti: Una giusta ingiustizia? Viaggio allucinante a difesa della libertà di stampa

E’ con una certa iniziale soddisfazione che apprendo della sentenza presa dalla Cassazione che condanna il giornalista Alessandro Sallusti a quattordici mesi di reclusione per diffamazione. Non posso negare, infatti, come personalmente consideri Sallusti, insieme al suo sodale Feltri, le anime nere del giornalismo italiano, “degni” e volenterosi meccanismi asserviti alla produzione e alla distribuzione di quella macchina del fango che spesso ha schiacciato personalità e cittadini inermi con fiumi di menzogne. Istintivamente, mi viene da pensare che, per soggetti di tale fatta, la galera, comunque meritata, sia “cosa buona e giusta” e non nascondo la speranza che, un tale tipo di condanna contribuisca ad aprire gli occhi ai lettori di Libero e del Giornale, categoria che comunque, in linea generale, tendo a non comprendere e verso la quale non riesco spesso a nascondere un certo qual disprezzo. Detto ciò, una volta acquietato l’istinto, non posso evitare di riflettere sull’opportunità che mi viene fornita di valutare oggettivamente il provvedimento e le norme che lo hanno motivato. Infatti, sono convinto che è proprio nel momento in cui una sentenza colpisce soggetti a noi sgraditi che si acquisisce la capacità oggettiva di valutarne la portata in termini di opportunità e di giustizia. Alla fine, a malincuore in questo caso, la mia opinione va contro la sentenza della Cassazione. Il Direttore di un giornale (seppure di “quel” giornale!) non può andare in galera a seguito della pubblicazione di un articolo firmato con uno pseudonimo (l’anonimato è un classico in questi casi!) e apparso sulla sua testata. Certo, l’azienda, il giornale deve essere condannato e magari esso sarà chiamato come soggetto giuridico a rispondere con smentite, ammende e risarcimenti. Dopo di ciò, magari, il direttore sarà punito dalla proprietà, dall’azienda, per la scarsa perizia dimostrata nello svolgimento delle proprie funzioni di controllo, per il danno economico e di immagine arrecato alla testata (mi viene da ridere in questo caso!), ma la galera no! Sennò addio libertà di stampa!

venerdì 14 settembre 2012

Recensione: Il trono dei Moghul – La saga dei grandi imperatori dell’India

“Il trono dei Moghul – La saga dei grandi imperatori dell’India”, titolo originale “Emperors of the Peacock Throne”, di Abraham Eraly, traduzione di Maria Eugenia Morini, edizioni Il Saggiatore, ISBN: 978-884281527-3.

L’Autore traccia la storia dei Moghul, probabilmente la più importante dinastia imperiale islamica del subcontinente indiano. L’impero Moghul vide la nascita nel 1526 per opera del conquistatore di origini centroasiatiche (Uzbekistan) Babur, lontano discendente di Tamerlano. L’apogeo viene di norma fissato intorno alla fine del diciassettesimo secolo sotto il regno di Aurangzeb, momento in cui l’impero dominava politicamente l’intero subcontinente indiano. Alla morte di costui (1707), anche a seguito della politica d’intolleranza religiosa da questi instaurata, si avviò un processo di frammentazione che durò più di un centinaio di anni e che vide alla fine prevalere il dominio del Raj britannico.

La lettura del libro è abbastanza gradevole e scorrevole, ma lo stile è sostanzialmente improntato alla cronaca cronologica delle vite degli imperatori. L’Autore non fa una vera analisi delle figure citate, della situazione socioeconomica e culturale e della sua evoluzione. L’impressione è quasi quella di trovarsi di fronte un testo scolastico delle superiori. Per quanto mi riguarda poi, il libro ha un difetto che ha pesato molto sulla godibilità della lettura; in tutta l’opera, infatti, non sono presenti nessuna foto, disegno o immagine e, soprattutto, neppure una cartina che descrivesse la geografia del subcontinente e l’evoluzione della situazione territoriale dell’impero Moghul. Ho trovato quindi molto difficile e un po’ noioso ritrovare autonomamente queste informazioni.

venerdì 7 settembre 2012

Banca Centrale Europea, finalmente un po' di politica monetaria

Finalmente Mario Draghi, presidente della BCE ha trovato l’accordo con il resto dei membri del board della Banca. La BCE ha dunque deliberato la possibilità di effettuare acquisti illimitati di titoli di Stato con scadenza fino a tre anni in funzione del contenimento degli spread. Non è un fatto da poco, da oggi l’Europa riacquisisce alcuni importanti strumenti per gestire gli interventi sull’economia anche attraverso le leve monetarie, riattivando una serie di opzioni macroeconomiche che i singoli Stati dell’Unione avevano perduto a seguito della perdita di centralità degli istituti di emissione nazionali conseguente all’introduzione dell’euro.
Personalmente, forse con troppo ottimismo, leggo nella decisione della BCE, certamente supportata dalla maggioranza dei governi europei, la volontà di riprendere in mano tutte le leve disponibili, comprese quelle legate al monetarismo, da sempre inviso ai “falchi” del liberismo e invece chiave di volta di politiche se non proprio di indirizzo keynesiano, almeno chiaramente indirizzate a colpire la speculazione. Da oggi scommettere sull’allargamento degli spread potrebbe cominciare a costare caro e di conseguenza è possibile che cominci a crearsi un’atmosfera più positiva che alleggerisca il costo delle nuove emissioni riducendo il futuro onere per interessi che grava come un macigno su stati come l’Italia. Conseguentemente, potrebbe instaurarsi un circolo virtuoso che faciliti l'abbattimento del debito pubblico e il percorso di recupero del disavanzo.

martedì 4 settembre 2012

Produttività: visioni confuse e ideologie distorte - qualche riflessione sul problema della bassa produttività italiana

Colpisce la discussione sulla scarsa produttività dell’Italia perché sembra che i soggetti chiamati a esprimersi sul problema abbiano opinioni abbastanza diverse e in contraddizione fra loro. Ieri il sottosegretario all’Economia Gianfranco Polillo in un’intervista apparsa su La Stampa di Torino (“In italia si deve lavorare di più – Aumentando la produttività si crea nuova occupazione” – La Stampa 03/09/2012), sostanzialmente addossa la responsabilità ad una normativa sul lavoro che prevede troppe ferie e permessi e che ci penalizza rispetto alla media europea, di conseguenza, invita a lavorare quantitativamente di più.
Le sue affermazioni non appaiono per nulla convincenti e, a mio avviso, egli dimostra una visone miope se non volutamente distorta delle cause della scarsa produttività del “Bel Paese”.
Per altro,almeno per quanto riguarda il confronto con il resto d’Europa, mi sembra che le sue affermazioni categoriche vengano smentite o quantomeno mitigate dall’articolo apparso oggi sempre su La Stampa:

http://www3.lastampa.it/economia/sezioni/articolo/lstp/467347/ “Si lavora tanto, ma si lavora male”
di Raffaello Masci, La Stampa 04/09/2012.

Nell’articolo viene fatto un confronto fra l’orario giornaliero contrattuale, quello reale e vengono paragonati i giorni di ferie e permessi fra i vari paesi UE.
Dalla comparazione emerge un quadro, quanto meno contradditorio dove però, almeno secondo il mio giudizio, risulta abbastanza chiaro che le differenze di produttività non dipendono in maniera preponderante da fattori quantitative ma da quelli qualitativi del sistema produttivo e burocratico presente nei vari paesi.

Tali argomentazioni sono anche presenti nell’intervista al Presidente dell’Istat Enrico Giovannini (apparsa anch’essa su La Stampa del 03/09/2012):

http://www3.lastampa.it/economia/sezioni/articolo/lstp/467204/
“Imprese troppo piccole non sappiamo innovare”,intervista di Paolo Garoni al Presidente dell’Istat Enrico Giovannini. La Stampa 03/9/2012.

Dove viene riportato chiaramente che i problemi legati alla produttività vanno ricercati in ambiti ben diversi dai soliti citati: estensione dell’orario di lavoro e flessibilità degli impieghi.
Anzi, nel corso dell’intervista al Presidente dell’Istat sembra emergere una critica neanche troppo velata al mondo imprenditoriale perché fra le cause principali vengono citate:
1) Le dimensioni relativamente ridotte del le nostre imprese.
2) La sottocapitalizzazione dovuta alla scarsa pressione sul costo del lavoro!!!
3) Inefficienza dovuta alle mancate liberalizzazioni.
4) L’evasione fiscale del sommerso.
5) La mancata rivoluzione informatica.

Più chiaro di così!

domenica 2 settembre 2012

Recensione: Elementi di Politica

“Elementi di Politica”, di Norberto Bobbio, a cura di Pietro Polito, edizioni Einaudi, ISBN 978-88-06-20280-4.

In quest’antologia sono raggruppate alcune delle riflessioni del filosofo Norberto Bobbio riguardo alla politica e alla democrazia insieme a qualche altro argomento che è messo in relazione con il modello democratico: l’idea di pace e il pacifismo, i diritti sociali, i poteri invisibili, la pena di morte e il principio di tolleranza.

Nella prima parte dell’antologia si parla della politica come strumento di potere, del suo fine, dei suoi mezzi, dei suoi rapporti con il potere economico e con quello ideologico e religioso, nonché con la morale e il diritto. In un passo successivo, invece, il filosofo si sofferma sui legami fra etica e politica individuando idealmente una serie d’interpretazioni che vanno da un estremo all’altro. Egli parte da una concezione che definisce di “monismo rigido” che prevede un legame in qualche modo subordinato fra etica e politica (Erasmo da Rotterdam, Kant, Hobbes), per poi giungere a esaminare, passando attraverso i vari casi intermedi, la teoria opposta, cioè il “dualismo reale” (Machiavelli) che prevede la completa indipendenza del pensiero e dell’agire politico dalla morale.

Un’altra parte dell’antologia si occupa invece di quella specifica forma di rappresentanza politica che è la Democrazia. Innanzi tutto l’Autore analizza le differenti forme e i gradi di democrazia distinguendo soprattutto fra quella diretta e quella rappresentativa. In seguito, viene analizzata la contrapposizione iniziale e la successiva compenetrazione fra principi liberali, democratici e socialisti; mentre un capitolo a parte e dedicato a un bilancio e al futuro della democrazia.

La seconda parte del libro tratta invece di temi che sono strettamente legati sia alla forma democratica sia alla sfera della politica. Come ho già ricordato si tratta di: pacifismo, di diritti sociali (diritto allo studio, al lavoro e alla salute), i poteri invisibili, la pena di morte e il principio di tolleranza.

Vista la levatura dell’Autore è forse superfluo aggiungere che l’antologia fornisce spunti molto interessanti e attuali. Personalmente ho trovato molto interesse nelle riflessioni fra etica e politica e molto centrate le analisi sulla crisi e riguardo alle promesse mancate dei regimi democratici. Mi sono anche parse illuminanti le argomentazioni riguardo alla necessità di favorire un ruolo politico attivo dei cittadini e quelle contro i gruppi di potere e le lobby. Infine, mi ha fatto particolarmente piacere sapere che Norberto Bobbio si era opposto già nel lontano 1953 a un disegno di legge elettorale incentrato sul maggioritario, la cosiddetta “Legge Truffa” (148/1953) poi abrogata nel 1954. In tempi di leggi elettorali che non si annunciano certamente buoni, la considero almeno una consolazione.

sabato 1 settembre 2012

Recensione: Il Vile Agguato: Chi ha ucciso Paolo Borsellino – una storia di orrore e menzogna

“Il Vile Agguato: Chi ha ucciso Paolo Borsellino – una storia di orrore e menzogna”, di Enrico Deaglio, edizioni Feltrinelli, ISBN 978-88-07-17237-3.

Il libro ricostruisce, per quanto possibile, il quadro dell’attentato di via d’Amelio avvenuto il 19 luglio 1992 e costato la vita al magistrato Paolo Borsellino, alfiere della lotta alla mafia. A distanza di vent’anni dalla strage vi sono ancora tantissimi elementi da chiarire e, in particolare, non sono ancora stati chiaramente individuati dalle autorità giudiziarie i mandanti e le precise motivazioni del vile agguato. In ogni caso, come per molti “misteri” italiani, benché non sia stato possibile e, forse, nemmeno si sia voluto individuare i veri colpevoli e assicurarli alla giustizia, rimangono fortissimi indizi e un quadro convincente a suggerire quali furono i soggetti politici, del mondo imprenditoriale e delle forze dell’ordine coinvolti o almeno fortemente beneficiati dalla morte del magistrato.

Nel 1992, nel mezzo di una tempesta perfetta che vedeva il vecchio sistema politico messo in crisi dalle inchieste di “Mani Pulite” e quello mafioso insidiato dalle rivelazioni del pentito Buscetta, Stato e mafia, il volto legale del potere e quello oscuro, cercarono un accordo per un nuovo equilibrio duraturo, spezzando le vite di coloro che avrebbero potuto interferire.

Un libro bellissimo che vale la pena leggere correndo il rischio, a ogni pagina, di gettarlo dalla finestra.

giovedì 30 agosto 2012

Recensione: Delfini

“Delfini”, di Banana Yoshimoto, edizioni Feltrinelli, ISBN 978-88-07-72261-5.

Kimiko, scrittrice dal carattere molto indipendente, ha una relazione con Goro, un uomo che vive anch’egli un po’ fuori dagli schemi tradizionali (almeno in relazione ai rigidi standard dettati dalla società nipponica). Essi non sono ancora sposati nonostante lei sia nel mezzo della “trentina” (è quindi sia oltre il termine massimo secondo gli standard giapponesi!), mentre lui è molto legato a Yukiko, una donna assai più anziana di lui, con la quale intrattiene un rapporto molto aperto ma profondo. Kimiko non ritiene che la storia con Goro abbia un futuro e pertanto decide di rilassare il legame recandosi ad aiutare un’amica presso un tempio buddista che accoglie donne in difficoltà. Al tempio Kimiko si occupa della cucina e, entrando per forza in contatto che alcune delle ospiti, comincia a interessarsi alle loro storie personali, ad apprezzare la propria attività di volontaria e la vita comunitaria che si svolge all’interno del tempio. Li, soprattutto, conosce Mami, una ragazza dotata di una sensibilità al limite del paranormale, alla quale si lega. Kimiko sente una certa riluttanza a tornare a Tokyo e pertanto, dovendo riprendere a lavorare, accoglie la proposta di un amico che le concede l’uso di una casa situata nella campagna nei dintorni del tempio. Qui però Kimiko si trova male e comincia a fare sogni inquietanti. Grazie all’intervento di Mami scopre sia la ragione che turba l’atmosfera del luogo, alla quale le due donne pongono rimedio, sia una novità imprevista che cambierà radicalmente la sua vita; Kimiko, infatti, si scopre incinta di Goro! Superata la prima fase di stupore Kimiko, decide di tenere quella che, secondo Mami, sarà una bambina e con ciò il romanzo si avvia a un finale che vedrà nuovamente coinvolti tutti i protagonisti della storia.

Si tratta di un racconto sulle donne scritto da una donna che per di più ha come tema centrale la maternità circonfusa da tutti i suoi istinti e dai suoi profondi misteri femminili. Secondo il punto di vista delle figlie di Eva, questo tema per un uomo è incomprensibile e, parafrasando W. Churchill si tratta di: ” … un rebus avvolto in un mistero che sta dentro un enigma …” (lui però parlava della Russia sovietica.:-)). Può darsi che sia vero, ma comunque tutto ciò non ha per nulla tolto interesse a un libro che a me è piaciuto molto. Forse mi tentano i misteri e, sicuramente, non mi piacciono gli enigmi irrisolti, ma soprattutto, non mi dispiace gettare uno sguardo in altri universi (e quello femminile è effettivamente interessante). Comunque, la bellezza del libro non sta tutta li, almeno per me che non avevo letto in precedenza altre opere di quest’Autore. Ho trovato curiosa l’atmosfera onirica e i vaghi riferimenti, forse involontari, allo “spirito” dei luoghi, a quella corrente sotterranea che istintivamente distende o mette i sensi in allerta e ci fa decretare che un posto è “buono” oppure è “cattivo”. Ci sono poi alcune scene e situazioni che a me sembrano veramente peculiari e che mi confermano alcune specificità della cultura giapponese. Devo aggiungere infine, che, per pura coincidenza, alcuni luoghi del romanzo mi sono apparsi straordinariamente famigliari! Ad esempio, parlando del tempio nel quale si rifugia Kimiko; nei dintorni di Tokyo si trova Kamakura, una cittadina che ospita alcuni di questi edifici religiosi, uno di questi, il Tōkei-Ji, guarda caso (ma magari ce ne sono migliaia così!) è un monastero femminile che dava rifugio alle donne che fuggivano o volevano divorziare dai loro mariti. Il tempio è piccolo e raccolto e gli spazi verdi sono limitati e ben curati, un po’ come i famosi “campi” dei quali parla l’Autore. Chissà che la Yoshimoto non avesse in testa proprio quel luogo!

domenica 19 agosto 2012

Recensione: La Scienza del Male – L’empatia e le Origini della Crudeltà

“La Scienza del Male – L’empatia e le Origini della Crudeltà”, titolo originale: “The Science of Evil”, di Simon Baron-Cohen, traduzione di Gianbruno Guerrerio, edizioni Raffaello Cortina, ISBN 978-88-6030-469-8.

Che cos’è e da dove viene la malvagità? E’ possibile evitare di fare ricorso a cause metafisiche e a spiegazioni religiose fornendo una definizione scientifica di Male riguardo all’agire degli esseri umani?
Ricorrendo al concetto di empatia l’Autore, insegnante di psicopatologia e psicologia e specialista nello studio dell’autismo, propone una tesi molto promettente per venire a capo del problema. L’empatia è un concetto che può essere definito come la “Capacità di un individuo di comprendere in modo immediato i pensieri e gli stati d'animo di un'altra persona”. Baron-Cohen fornisce una definizione analoga ma più incentrata sugli studi medici e psicologici: “C’è empatia quando smettiamo di focalizzare la nostra attenzione in modo univoco (single-minded), per adottare invece un tipo di attenzione “doppia” (double-minded) ”, in sintesi, questo avviene quando si smette di considerare esclusivamente il proprio punto di vista e interesse per sforzarsi di immedesimarsi in quello degli altri. Al contrario, la mancanza di empatia s’individua nella tendenza a considerare gli altri soggetti (umani e non!) con i quali si entra in relazione come semplici oggetti “inanimati” e, proprio attraverso questo processo di spersonalizzazione, diventa più facile infliggere il dolore, manipolare e usare le altre persone.
Da cosa dipende però il livello d’empatia di ogni essere umano? In quali aree cerebrali risiede la maggiore o minore capacità empatica? L’Autore affronta entrambi gli interrogativi spiegando che il livello medio di empatia di ogni essere umano e le sue fluttuazioni dipendono da una complessa combinazione di fattori genetici e ambientali che tendono a influenzare permanentemente o episodicamente il livello di funzionamento di un’estesa zona cerebrale che costituisce il “circuito dell’empatia”. Le esperienze fatte fin dalla fase neonatale, i traumi e gli abusi subiti possono essere importanti ai fini dello sviluppo di tali aree cerebrali; i soggetti “affetti” da un livello zero-negativo di empatia (i potenziali “malvagi”), fra i quali lo studioso colloca: narcisisti, psicopatici e borderline, sono spesso caratterizzati dal sottosviluppo o dal sottoutilizzo di alcune di queste aree. Anche i fattori genetici, però, appaiono rilevanti com’è dimostrato dagli studi effettuati su quelle categorie di soggetti che l’Autore colloca fra i cosiddetti “zero-positivi” (sindrome di Asperger e autistici comuni) per i quali, seppur in sostanziale assenza di capacità empatiche non si sviluppa la propensione a danneggiare gli altri. Tra l’altro, per me curiosamente, ma, a ben pensare molto logicamente, pare che i soggetti zero-positivi tendano a essere “immunizzati” contro la malvagità, grazie alla loro naturale attitudine, spiccatamente matematica, a “sistematizzare”, cioè a ricercare un rigoroso ordine naturale nell’ambiente che li circonda.
Eppure, nota lo stesso l’Autore, tutte queste spiegazioni non sono ancora sufficienti, infatti, gli individui che sono biologicamente collocabili ai livelli inferiori della curva dell’empatia, sono percentualmente una minoranza rispetto alla maggioranza della popolazione che, per definizione, si colloca invece su livelli medi. Pertanto, bassi livelli fisiologici di empatia possono contribuire a spiegare singoli casi di disadattamento o di violenza e trovano effettiva conferma nell’analisi dei casi di suicidio o nelle statistiche delle caratteristiche della popolazione carceraria, ma non riescono a spiegare il fenomeno della malvagità di massa. Per fare luce su tali fenomeni bisogna introdurre altri elementi, ad esempio, la tendenza al “Conformismo” come dimostrato dagli esperimenti di Solomon Asch (dove le persone affermavano che una linea era più lunga di un’altra andando clamorosamente contro l’evidenza dei sensi solo per adeguarsi al giudizio generale), oppure l’”ubbidienza all’autorità” come evidenziato nei noti casi dell’esperimento di Philip Zimbardo della “prigione di Stanford” (dove un gruppo di studenti fu suddiviso fra “guardie” e “ladri” facendo scattare l’istinto di prevaricazione dei primi sui secondi), oppure ancora l’esperimento di Stanley Milgram (dove i partecipanti erano indotti a credere di punire, anche in caso di errori banali, altri soggetti infliggendogli scosse elettriche progressivamente sempre più potenti), fino alle riflessioni sulla “banalità del Male” fatte da Hannah Arendt a seguito del processo al noto criminale nazista Adolf Eichmann. Riguardo a queste problematiche, probabilmente l’empatia di base non basta a spiegare tutto, mentre entrano in gioco moltissimi altri aspetti e variabili e, dal punto di vista dei soggetti implicati, anche la volontà o l’incapacità di valutare le conseguenze delle proprie azioni in modo più profondo. A questo proposito nel libro di Baron-Cohen è citata una catena di eventi indicativa che vale la pena di riportare:
- Persona A: Nel mio municipio avevo semplicemente l’elenco degli ebrei. Non feci delle retate di ebrei, ma passai l’elenco quando mi fu richiesto.
- Persona B: Mi fu chiesto di andare a quegli indirizzi, arrestare quelle persone e portarle alla stazione dei treni. Questo è tutto quello che feci.
- Persona C: Il mio lavoro era quello di aprire le porte dei treni, solo quello.
- Persona D: Il mio lavoro era far salire i prigionieri sul treno.
- Persona E: Il mio lavoro consisteva nel chiudere le porte dei treni, non nel chiedere dove il treno era diretto e perché.
- Persona F: il mio lavoro consisteva semplicemente nel guidare il treno.
- …
- Persona Z: il mio lavoro consisteva semplicemente nell’aprire i rubinetti delle docce da cui veniva emesso il gas.

Verosimilmente, ognuno dei singoli passaggi evidenziati non furono compiuti da soggetti patologicamente afflitti da un grado insolitamente basso di empatia, al contrario, l’esempio vuole mettere tutti in guardia rispetto alla capacità di ognuno di noi di compiere singole azioni non empatiche le cui conseguenze possono portare lontano in termini di malvagità.

venerdì 17 agosto 2012

Alcune considerazioni sull'ultimo libro dell'economista Paul Krugman: “Fuori da questa crisi, adesso!”

“Fuori da questa crisi, adesso!” del nobel dell’economia Paul Krugman, ha il pregio di andare direttamente e senza mezzi termini al nocciolo della questione: ha senso affrontare una crisi economica di questo tipo, che ha più di un’affinità con la Grande Depressione attuando manovre di austerità? L’Autore ricorda che Il modello classico keynesiano prevedrebbe in questo caso una politica di spesa espansiva da parte dei governi e fa notare come, proprio questo genere d’intereventi possa senza dubbio spiegare la ripresa americana avvenuta nel corso della Seconda Guerra Mondiale e poi proseguita lungamente nel corso del dopoguerra. Dall’altra parte, nonostante che il nobel dell’economia tenda a minimizzare gli effetti pratici e psicologici dell’aumento dei disavanzi statali, si contrappone uno scenario politico, finanziario ed economico che sembra impedire de facto il proseguimento di tali interventi almeno per quei paesi che appartengono all’area dell’euro e che non hanno più, singolarmente, il completo controllo della loro politica monetaria. Il problema sembra dunque avvitarsi in un tipico circolo vizioso; seguendo un approccio onesto alle teorie economiche, la crescita della spesa pubblica sarebbe la soluzione logica alla crisi per sopperire alla mancanza di spesa del settore privato ma, sostanzialmente, tale intervento appare improponibile perché un’ulteriore crescita dei disavanzi è vista come inaccettabile dai mercati finanziari la cui approvazione è necessaria per la sottoscrizione del debito in scadenza, nello stesso tempo le banche centrali europee (e, indirettamente, i governi) che controllano le autorità monetarie dell’unione (in questo caso la BCE) non sono ancora riuscite a mettersi d’accordo riguardo a un programma di sottoscrizione di debito pubblico di quei paesi che sono maggiormente in difficoltà. In conclusione, proprio la necessità di rendere le proprie emissioni “attraenti” costringe i singoli Stati a una politica di austerità incentrata sul rigore. Nel frattempo, prendendo spunto dalla crisi e approfittando della disoccupazione crescente, parte dell’elite economica, politica e finanziaria spinge a riformare in senso restrittivo tutto il sistema di previdenza e di contrattualistica del mercato del lavoro. Alla fine, dietro i problemi economici fanno capolino quelli politici e direi persino culturali. Krugman invoca riforme che richiamano le cure messe in atto durante la Grande Depressione, ma si dimentica che né in Italia né negli altri paesi occidentali sembrano profilarsi figure di politici carismatici quali furono Herbert Hoover (che pure essendo repubblicano aumento le imposte sulle imprese e le aliquote fiscali massime dal 25% al 63%) e soprattutto Franklin D. Roosevelt. Questi personaggi ricordiamolo, imposero delle ricette inedite seguendo una loro visione delle cose, andando spesso contro il parere dei sedicenti esperti e, soprattutto, opponendosi (e non favorendo) le principali elite finanziarie ed economiche del paese (che spesso tacciarono Roosevelt, i suoi esperti e i programmi federali di “Comunismo”), lo fecero grazie ad un largo seguito popolare, ma con una certa “prepotenza” (e più di una scorrettezza) che spesso si confuse con l’autoritarismo (per altro allora dilagante in forme molto più perverse anche in Europa e in Russia). Per quanto ci riguarda, non mi sembra che, guardando al panorama italiano, siano disponibili soggetti di tale fatta, al più sembra che si possa contare su alcuni soggetti indubbiamente competenti (come il nostro attuale premier Monti) ma sicuramente legati alle visioni tradizionali dell’economia, quando non proprio in conflitto fra i propri interessi di ceto e quelli della maggior parte della popolazione. Nel nostro caso poi, a parer mio, l’esecutivo è tutt’altro che “amato” e supportato dalle camere (che sono ancora l’espressione della nostra classe politica precedente) che al più lo sopportano in attesa che tolga loro quelle castagne dal fuoco che loro non saprebbero cavare per incompetenza (hanno avuto vent'anni per provarci!), per la scarsa considerazione che ha di loro la comunità finanziaria, o che, soprattutto, (qualora si continui a seguire le ricette tradizionali) implicherebbero da loro scelte che sarebbero invise all’elettorato. Forse, neppure l’opinione pubblica sembra considerare l’attuale Governo molto più che un male necessario che produrrà il solito "lacrime e sangue". Non penso quindi che, in questa situazione, ci si possa permettere soluzioni che escano dal seminato di ciò che è considerato possibile e auspicabile da quei “Very serious people” che Krugman stigmatizza con ironia. Dunque, a meno di improvvise illuminazioni dei nostri VSP che possano cambiare le possibili opzioni economiche a disposizione, ci tocca sperare in un miracolo da parte della politica. Forse una nuova legge elettorale che sia meno indecente di quella attuale ci regalerà il prossimo “uomo del destino”?

martedì 14 agosto 2012

Recensioni: Storia delle Eresie Libertarie – Dai testi sacri al Novecento

“Storia delle Eresie Libertarie – Dai testi sacri al Novecento”, di Valerio Pignatta, edizioni Odoya, ISBN 978-88-6288-129-6.

Ho trovato questo libro sorprendente fin dall’introduzione, pensavo, infatti, che l’opera fosse incentrata sulla descrizione dei rispettivi quadri storici che fecero da terreno di coltura ai vari movimenti eretici sviluppatisi a partire dal medioevo fino alla Rivoluzione industriale e, non mi aspettavo invece che l’Autore tracciasse un filo conduttore fra essi e che, soprattutto, lo riannodasse con quello dei movimenti anarchici che si distinsero a partire dal diciottesimo secolo. Secondo l’Autore, è proprio dalle caratteristiche delle Sacre Scritture che trova origine la corrente di egualitarismo, di promozione dell’interesse collettivo e di avversione dell’autoritarismo che caratterizzerà i movimenti eretici. La Bibbia, infatti, non fa che seguire una consolidata tradizione ebraica che è fatta risalire alla struttura sociale originaria imperniata sulle (dodici) tribù e sulla naturale propensione delle strutture tribali a perseguire nei confronti dei propri membri forme di cooperazione, di eguaglianza politica ed economica e di avversione verso forme evidenti di sperequazione e accentramento del potere. Nel corso dell’opera si pone l’accento e si enfatizza l’ideologia “anarchica” dei Vangeli e della predicazione di Gesù come delle prime comunità cristiane, incentrate su un egualitarismo evidente, la comunione dei beni, il rifiuto di ogni violenza e il non riconoscimento delle autorità civili e religiose (appena mitigato dall’evangelico “… Date a Cesare ciò che è di Cesare …”). Quest’atteggiamento porterà i primi cristiani a negare la fondatezza di ogni differenza sociale e di casta e a rifiutare ogni forma d’omaggio alle autorità (a cominciare dalla figura dell’imperatore), accompagnandolo al divieto di occupare cariche politiche e di magistratura e al rifiuto di prestare il servizio militare e, spesso, alla condanna della proprietà privata.
Andando alla ricerca del concetto originario di “Ecclesia”, vista come collettività di uguali, e posta alla base del cristianesimo delle origini, le sette e i movimenti eretici si rivolteranno anche e soprattutto contro le chiese istituzionali (quella cattolica come quelle riformate) che saranno considerate alla stregua di traditrici del messaggio originale del Cristo e puntello di un iniquo sistema di sfruttamento dei pochi a carico dei molti. Secondo l’Autore, questa corrente sotterranea che già può farsi risalire ai primissimi anni del cristianesimo (ad es., nel testo è citato Tertulliano [fra il 155 e il 230 d.C.]), troverà sfogo impetuoso nei movimenti eretici medioevali come quello dei Catari, dei Valdesi, dei seguaci di Fra Dolcino e di altri d’ispirazione gioachinista (cioè ispirati all’opera di Gioachino da Fiore [1130 -1203 d.C.]), ma sarà anche d’ispirazione all’ordine dei Francescani (che a loro volta, però, daranno origine ad alcuni movimenti eretici!). Tale corrente continuerà a scorrere impetuosa durante il periodo della Riforma (in particolare l’Autore parla degli Anabattisti, degli Hussiti e dei Fratelli del Libero Spirito) per poi continuare a emergere durante tutto l’arco della storia moderna, (ad esempio durante la guerra civile in Inghilterra attraverso l’esperienza di Levellers, Diggers e Ranters), in epoca vittoriana (es. Quaccheri), per confluire nella visione del filone pacifista dell’anarchismo ottocentesco, che l’Autore approfondisce soprattutto attraverso l’opera di Tolstoj e Kropotkin e di coloro che a essi s’ispirarono.

mercoledì 8 agosto 2012

Recensione: Fuori da questa crisi, adesso!

“Fuori da questa crisi, adesso!”, titolo originale: “End This Depression Now!”, Paul Krugman, traduzione di Roberto Merlini, edizioni Garzanti, ISBN 978-88-11-68670-5.

Paul Krugman, premio nobel per l’economia, d’inclinazioni liberal e dichiaratamente neokeynesiano, prova con quest’opera a dare una spiegazione della crisi e, soprattutto, propone senza mezzi termini e descrivendola con estrema chiarezza, una soluzione per uscirne. Tale proposta si accorda con la tradizione e l’esperienza di una delle grandi “scuole” macroeconomiche, quella che, sostanzialmente, si basa sui concetti già esaminati da John Maynard Keynes a partire dagli anni venti del novecento e imperniati sull’intervento dello Stato a sostegno dell’economia attraverso il meccanismo della crescita del disavanzo pubblico.
Vista l’enfasi che viene posta oggigiorno nello stigmatizzare i disavanzi “Eccessivi”. Il Libro si presenta come originale e interessante fin dalle premesse, infatti, le opinioni dell’Autore appaiono in contrapposizione frontale con le indicazioni di soluzione della crisi fornite da coloro che vengono sarcasticamente definiti nell’opera come “Very serious people”, e che, attualmente sembrano aver imposto la loro visione di liberalizzazioni, tagli e sacrifici, ai governi e all’opinione pubblica. Il Libro induce veramente a profonde riflessioni perché l’Autore, a volte fra le righe, a volte esplicitamente, insinua che la visione rigorista ora in corso d’applicazione sia in America come in Europa, non sia solo frutto di una visione errata e dogmatica della situazione, ma che sia anche, almeno in parte, dovuta alla necessità di tutelare l’interesse di pochi a scapito dei molti che invece patiscono le conseguenze della crisi.
Personalmente ho trovato questo Libro chiaro, autorevole e scorrevole e ne raccomando la lettura a tutti quelli che vogliono acquisire una maggiore consapevolezza riguardo a questi temi ormai di dominio e d’interesse pubblico.

Termino ponendo l’accento su alcuni aspetti critici che sono i seguenti:
1) Secondo la mia opinione, le soluzioni prospettate da Krugman sembrano più tagliate per il caso degli Stati Uniti, rispetto a quanto invece siano immediatamente applicabili in Europa. In questo caso, come giustamente ricorda l’Autore, esiste anche un problema di disomogeneità e di localismo della politica che rende più difficoltosa l’applicazione di politiche espansive basate sulla crescita del disavanzo.
2) Rimango poi scettico su alcuni aspetti dell’opera, non tanto riguardo al quadro teorico, che personalmente condivido, ma rispetto alla sua applicabilità politica. Pensando al caso Italiano, infatti, mi assillano i dubbi sull’effettiva opportunità di fare gestire questo genere d’interventi (posto che effettivamente ci sia la possibilità di metterli in atto!) alla nostra attuale classe politica, chiaramente incapace di gestire efficientemente e diligentemente uno strumento come il disavanzo che per sua natura, implica responsabilità e rispetto per le generazioni a venire.

martedì 31 luglio 2012

Recensione: Il Sé viene alla mente – La costruzione del cervello cosciente

“Il Sé viene alla mente – La costruzione del cervello cosciente”, titolo originale: “Self Comes to Mind – Constructing the Conscious Brain”, di Antonio Damasio, traduzione di Isabella C. Blum, edizioni Adelphi, ISBN 978-88-459-2671-6.

Nel corso dell’opera, l’Autore, professore di neuroscienze, psicologia e neurologia ci porta alla scoperta della mente umana cercando di elaborare una tesi scientifica riguardo alla natura della “Coscienza”. Essa viene intesa, in primo luogo come “consapevolezza di sé”, del proprio corpo e della propria esistenza, ma in rapide escursioni viene anche presa in considerazione la sua accezione più elevata di faro etico e morale del nostro modo di agire.

Il Libro, veramente molto bello, per quanto oggettivamente impegnativo in termini di attenzione richiesta al lettore, cerca di dare delle risposte ad alcuni dei temi scientifici e filosofici più affascinanti che possano impegnare le nostre meditazioni: Da dove viene la coscienza? Come si è formata? In quale area del corpo o del cervello risiede? Quanto è enucleabile, contrapponibile o inscindibile dalla mente razionale? Perché ci siamo evoluti così?
Seguendo un filo logico rigorosamente razionale e portando a supporto delle proprie tesi tutti gli indizi scientifici accumulati in anni di ricerche, l’Autore ci guida attraverso un viaggio fra le varie aree nevralgiche del cervello e del sistema nervoso, spiegandone per quanto è noto le rispettive funzioni e relazioni. Parallelamente è portata avanti una tesi che, attraverso il concetto di ”Omeostasi” (termine che spiega la naturale tendenza degli organismi viventi ad autoregolare a livelli ottimali le proprie funzioni vitali), traccia una linea della tendenza evolutiva che dagli organismi “Organizzati” più semplici e basati sulla nostra singola cellula citoplasmatica (che comprende anche i neuroni!) porta alla formazione di esseri sempre più complessi. Secondo l’Autore, la “Mente” sarebbe uno dei risultati messi a punto dall’evoluzione e funzionale all’obiettivo di esprimere e dirigere la volontà delle innumerevoli cellule specializzate costituenti un corpo, ai fini di perseguire la ricerca e il mantenimento dell’omeostasi delle singole componenti e dell’intero organismo. La mente cosciente, capace di memoria storica, di empatia emozionale e di capacità di previsione e astrazione, sarebbe un’ulteriore evoluzione, frutto della capacità degli esseri complessi di valutare secondo una più profonda scala temporale un sistema di ricompense che sfugge al concetto stesso di materialità e, entro certi limiti, anche a quello di percezione strettamente sensoriale. Meravigliosa è veramente la mente umana, che fornisce a noi la possibilità di provare emozioni ricavandole dalle nostre esperienze, dalle nostre aspettative, ma anche da astrazioni pure e semplici e che ci consente di avvicinarci alla conoscenza delle altrui sensazioni mimandole attraverso le nostre capacità empatiche.

Un ulteriore aspetto rende veramente interessante questo Libro, ed è quello dello studio delle conseguenze delle malformazioni e delle degenerazioni cerebrali. La perdita permanente della coscienza è condizione veramente terribile; peggiori però, a mio avviso, sono quelle condizioni in cui essa permane imprigionata in un corpo che non può più agire liberamente come avviene nei cosiddetti casi di sindrome locked-in. Tali situazioni impongono serie riflessioni etiche e di natura giuridica sui concetti di responsabilità, di bene, di male e di esistenza.

mercoledì 25 luglio 2012

Recensione: Shantaram

“Shantaram”, di Gregory David Roberts, traduzione di Vincenzo Mingiardi, edizioni Neri Pozza, ISBN 978-88-545-0057-0.

Il protagonista del libro, giovane studente di filosofia e attivista politico, eroinomane e separato dalla moglie, nel 1978 viene condannato per una serie di rapine a mano armata. Nel 1980 fugge da un carcere di massima sicurezza australiano e si unisce a una banda di bykers, anch’essi rapinatori, poi, consigliato da un suo vecchio insegnante, decide di smettere la vita del bandito di strada e ripara in India a Mumbay. Qui la sua vita cambierà, mettendo in piena evidenza quel carattere di profonda umanità che le negative esperienze precedenti avevano offuscato e che gli farà guadagnare il nome di Shantaram, in marathi: “Uomo della pace di Dio”. Greg, ribattezzato Lin dall’amico indiano Prabaker, s’integrerà completamente nella società multietnica della città e nella cultura indiana; imparerà a parlare fluentemente l’hindi e il marathi, vivrà in un villaggio della provincia agricola e negli slum, dove si farà conoscere e amare aiutando la gente e approntando uno studio di pronto soccorso, trafficherà con i turisti e con la piccola delinquenza e infine si affilierà a una famiglia mafiosa della città. Qui, sotto la tutela di Abdel Khader Khan, capo della famiglia, ma anche carismatica figura di guru e filosofo, Lin svolgerà un ruolo di rilevo nel campo della falsificazione dei documenti e del contrabbando, proverà le galere indiane e parteciperà al conflitto afghano rimanendo ferito; soprattutto però sarà profondamente influenzato e cambiato dall’etica e dalla filosofia mistica del suo mentore e padrino.
Il libro è un’opera di fantasia che s’ispira alle vere esperienze dell’Autore, Gregory David Roberts che, nella realtà ha effettivamente vissuto gli episodi essenziali raccontati nella trama del romanzo. L’opera appare impegnativa, essendo di più di mille pagine, eppure personalmente ho trovato che sia scorsa veloce e senza annoiare mai. La raccomando volentieri per la lettura.
A titolo di curiosità. Avevo sentito parlare di questo romanzo fin dal 2008, quando, per coincidenza ho avuto una breve esperienza di lavoro proprio a Mumbay. Anche se ovviamente il contesto della mia breve permanenza non è assolutamente paragonabile con quanto, viene narrato nel libro, a lettura ultimata devo convenire con l’Autore riguardo ai molti aspetti positivi degli indiani e riguardo allo strano fascino che esercita questa metropoli piena di contrasti che convivono, apparentemente pacificamente, a stretto contatto. E poi,… ma quanto sono incredibili le piogge monsoniche in una città di tale fatta!?