martedì 28 febbraio 2012

IMU alla Chiesa: Il governo salva le scuole cattoliche - Un compromesso accettabile

Il governo ha deciso di escludere dall'IMU le scuole parificate e le istituzioni "Concretamente no profit", fissando alcuni criteri per la determinazione di ciò che viene ricompreso in tali categorie. Parlando delle scuole, ad esempio:
1)bisogna che esse seguano i programmi ministeriali:
2)ai professori deve essere applicato il contratto nazionale;
3)esse devono avere effettiva rilevanza sociale;
4)non discriminino all'atto dell'iscrizione;
5)abbiano un bilancio effettivamente "Non lucrativo"e pertanto, che destinino l'eventuale avanzo di bilancio alle attività didattiche.

Personalmente ritengo un accordo di questo tipo un compromesso accettabile. Certo, viene sacrificato qualche aspetto che andrebbe a favore di un'interpretazione più rigorosa del concetto di imposta patrimoniale, ma in compenso, verrebbe comunque introdotto un principio importante di equiparazione fiscale senza con questo pregiudicare quelle situazioni gestionali che sarebbero state messe in crisi da un'applicazione immediata e "Piena" dell'imposta. Un piccolo passo avanti e, qualche cosa in più di una mezza vittoria, quindi. Andasse sempre così!

lunedì 27 febbraio 2012

IMU sugli immobili della Chiesa: Qualche osservazione

Questi sono alcuni degli articoli recenti apparsi su La Stampa domenica 26/02/2012:
"Le scuole cattoliche all'offensiva anti IMU"

http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/444046/

e
"Assurdo considerare attività commerciali i nidi parrocchiali"

http://vaticaninsider.lastampa.it/homepage/news/dettaglio-articolo/articolo/scuola-italia-chiesa-13002/


La volontà del Governo di applicare l’IMU alle scuole parificate e comunque a tutti gli edifici religiosi o meno che non siano adibiti a svolgere attività di culto ha, come prevedibile, scatenato un putiferio in tutto il mondo politico e non solo di quello che, tradizionalmente, ha legami con la Chiesa. Anche buona parte della sinistra che orbita intorno al mondo delle cooperative e del “No profit”, forse con meno clamore, ma con una certa efficacia, si sta adoperando per impedire, eliminare, correggere e deviare ogni intendimento che vada in questo senso. Per quanto mi riguarda, mi sbilancio subito dicendo che lo spirito dell’iniziativa legislativa, a parer mio, va nella direzione giusta. Fra le motivazioni che rendono auspicabile tale riordino, cito le seguenti:
1) Innanzi tutto ricordo che, comunque, qualsiasi attività che non sia contraria alla legge, alla morale, agli usi e che non violi le norme d’igiene e sicurezza va considerata benefica poiché produttiva di reddito e ricchezza e pertanto assume anche una sua valenza “Sociale” chiaramente sancita dal nostro ordinamento. Non per questo comunque essa può sottrarsi alle normali regole di tassazione previste per quel genere di esercizio che la caratterizza. A rigor di logica, comunque, va considerata come economica (a prescindere dai più o meno alti meriti sociali) qualsiasi attività che implica la corresponsione, da parte degli utilizzatori di un pagamento, un contributo o dazione, oppure che costituisca una forma di rendita.
2) Vi sono, ovviamente, attività come: scuole, ospedali, oratori, mense, ricoveri, collegi universitari, ecc., per i quali, effettivamente, la valenza sociale è più chiaramente percepibile in quanto, in effetti, spesso suppliscono a delle mancanze di servizi da parte del settore pubblico. Anche in questo caso però, sarebbe difficile affermare che esse siano svolte ai soli fini sociali e senza alcuna volontà di lucro e non basta l’etichetta “No profit” o il “pareggio di bilancio” per escluderle dalla base imponibile. In conformità a tale ragionamento, infatti, anche le altre “normalissime” attività economiche che siano in pareggio o in peggio, in perdita, dovrebbero essere escluse dal pagamento dell’IMU, la quale per altro, è per sua natura una tassa sul patrimonio e non sui redditi. In pratica, l’attività sociale è lodevole, ma continua a configurarsi come scelta imprenditoriale e attività economica perché presuppone la richiesta di pagamenti agli utenti/fruitori in contropartita dei servizi forniti: Anche la forma cooperativa o mutualista e neppure una clausola di devoluzione degli utili ne cambiano la natura di attività imprenditoriale tassabile.
3) Vi è poi un fattore di chiarezza e omogeneità fiscale, l’IMU è un’imposta patrimoniale a carattere locale e pertanto, ha poco a che fare con le attività svolte da un certo edificio. In realtà, salvo casi particolari (come per gli edifici di culto) che dovrebbero essere considerate alla stregua di ristrettissime eccezioni, sono i veri e propri “Muri” in quanto tali che sono tassati e, se vogliamo, ciò avviene a prescindere dalle attività più o meno economiche o comunque lucrative che siano svolte al loro interno.
4) Vi sono poi da fare ulteriori considerazioni che riguardano, da una parte le norme di libera concorrenza e di equità e dall’altra normali regole di efficienza. Ad esempio, trovo abbastanza fuorviante il ragionamento che pretende di esentare alcuni immobili perché troppo vasti e inefficienti (affermazione di Maurizio Lupi _ La Stampa 26022012: “Assurdo considerare attività commerciale i nidi parrocchiali”); da quando in qua, infatti, l’inefficienza conclamata va premiata? La funzione di una tassa patrimoniale ben strutturata, infatti, non dovrebbe essere solamente quello di essere uno strumento vessatorio nei confronti del contribuente, ma dovrebbe invece servire proprio ai fini della razionalizzazione dei catasti e della proprietà immobiliare, spingendo i proprietari a riconvertire, oppure ad alienare il patrimonio inefficientemente allocato o improduttivo. La logica, per altro è quella che già si segue quando si distingue fra aliquote diverse per gli immobili in locazione e quelli “tenuti a disposizione” per i quali, di norma si applicano aliquote più alte.

Detto tutto ciò, però, bisognerebbe invece analizzare qualcuna delle ragioni della parte avversa all’imposizione dell’IMU sugli edifici addetti alla fornitura di servizi di pubblica utilità. Nel medesimo articolo citato al punto 4) si afferma che le scuole parificate non solo sopperiscano a un’esigenza del cittadino/utilizzatore del servizio, ma che in più lo facciano a costi sensibilmente inferiori rispetto a quanto lo fanno analoghe strutture pubbliche che siano a esse paragonabili. Tale dichiarazione, che sembra oggettivamente facilmente riscontrabile, trova tra l’altro conferma anche in altri ambiti come ad esempio a proposito delle strutture sanitarie convenzionate. A questo proposito quindi viene introdotto un tema interessante e che mette effettivamente in crisi i nostalgici di un modello che prevede l’erogazione di servizi essenziali come esclusiva prerogativa del “Pubblico”. Risulta, infatti, evidente come, in certi settori, l’iniziativa privata possa sopperire alla necessità di servizi dei cittadini a costi inferiori e qualità almeno paragonabile. Questo tema però, a mio avviso non è veramente correlato con l’attuale dibattito riguardo all’IMU, invece solleva una serie d’interrogativi diversi dai quali possono scaturire misure e forme d’incentivo che, pur non avendo nulla a che fare con le misure fiscali, potrebbero dar corso a dei processi d’incentivazione verso queste forme d’imprenditorialità privata. L’importante in sintesi è non mescolare i concetti, gli obiettivi e gli strumenti diversi, affrontando il problema con razionalità e non con spirito partigiano a difesa dei propri interessi privati e di bandiera.

giovedì 16 febbraio 2012

Governo Monti: ICI sui beni della Chiesa e lotta all'evasione, qualcosa "eppur si muove"

In questi giorni, a mio avviso e almeno nelle intenzioni, il Governo Monti si sta muovendo nella giusta direzione in materia fiscale. A prova della buona fede dell'esecutivo mi sembra che si possa ascrivere l'emendamento che propone di introdurre l'ICI sugli immobili eclesiastici quando questi siano adibiti, almeno in parte, ad attività commerciale. Tale provvedimento non andrebbe solo a sanare una ingiusta sperequazione fra attività commerciali esercitate dalla Chiesa e quelle esercitate da altri soggeti (es. scuole ed ospedali), ma costituirebbe una risposta presumibilmente adeguata ai rilievi ed alle perplessità della UE riguardo a questa disparità di trattamento lesiva dei principi di parità della concorrenza e di equità fiscale. L'intervento risulta poi particolamente opportuno visti i tempi particolarmente calamitosi per tutti i contribuenti i quali, ormai mordono il freno di fronte all'aumentare dell'imposizione in permanenza di aree di fiscalità privilegiata sempre meno giustificabili.
Non a caso, anche la Chiesa, almeno a livello di pubbliche relazioni, ha mantenuto un atteggiamento estremamente aperto e moderato di fronte alla possibile attenuazione dei propri privilegi in queto campo.
Un altro aspetto positivo risulta essere la campagna di controlli fiscali e di monitoraggio delle attività commerciali. I bliz della finanza, molto reclamizzati dai mass media, pagano si un certo tributo alla spettacolarizzazione del fenomeno ingenerando forse qualche eccesso, ma hanno anche una serie di ricadute estremamente positive. Non solo, infatti, producono effetti immediati, anche se presumibilmente transitori, sul fatturato dichiarato, ma sono anche molto utili a modificare quel clima culturale diffuso che, fino a poco fa, tendeva a giustificare o, quanto meno, ignorare l'evasione relegandola a mero fatto privato.

martedì 14 febbraio 2012

Grecia: Commesse militari a Francia e Germania in cambio di una moratoria sul debito

Ieri, sul Corriere Della Sera è apparso un articolo di Marco Nese con il seguente titolo:
"PRIMO PIANO: Spese militari- il bilancio della difesa ellenico a livello record - Fregate, sottomarini e caccia. Quelle pressioni di Merkel e Sarkò per ottenere commesse militari."

L'articolo è reperibile in rete attraverso il link seguente:

http://archiviostorico.corriere.it/2012/febbraio/13/Fregate_sottomarini_caccia_Quelle_pressioni_co_8_120213025.shtml

Quanto esposto nell'articolo è semplicemente scandaloso. Senza mezzi termini, viene detto che Francia e Germania ricattano la Grecia (e pare anche il Portogallo!) imponendo massicci acquisti di armi in cambio degli aiuti finanziari (nell'articolo vengono citati come fonti sia il Wall Street Journal che la non ben precisata "Stampa tedesca"). Secondo l'autore, le spese per la difesa lieviteranno quest'anno di più del 18% e risulteranno pari a circa il 3% del PIL (più del doppio della situazione italiana). Ma l'aspetto forse più paradossale è che, almeno al momento, la Grecia non sembra esposta a nessuna seria minaccia internazionale, Turchia compresa. La situazione della Grecia è nota a tutti; il Governo ellenico si prepara ad ulteriori inasprimenti della politica di tagli al bilancio, dilagano gli scontri di piazza e quotidiani come La Stampa hanno appena pubblicato degli articoli dove vengono evidenziati alcune carenze nella disponibilità di medicinali e di beni di prima necessità presso i presidi sanitari e i pronto soccorso. In un costesto del genere verrebbe naturale pensare ad una diminuzione delle spese militari e non certo ad un incremento. Questo, per altro, sembrerebbe anche il pensiero del Governo ellenico, il quale però si trova a dover subire pressioni proprio da quei soggetti che, da una parte tengono in mano i cordoni della borsa, dall'altra predicano le virtù di una spesa statale sotto controllo. Al di là di tutte queste considerazioni, bisognerebbe comunque chiedersi cosa dovrebbe farnene l'esercito greco di 170 Leopard 2?! Intende forse ripetere le gesta di Alessandro Magno?

domenica 12 febbraio 2012

Recensione: Elogio del Dubbio – Come avere convenzioni senza diventare fanatici

“Elogio del Dubbio – Come avere convenzioni senza diventare fanatici”, di Peter Berger e Anton Zijderveld, titolo originale: “In Praise of Doubt. How to Have Convinctions Without becoming a Fanatic”, editore Il Mulino, Traduzione di Giordano Vintaloro, iSBN 978-88-15-23311-0.
Com’è ricordato nell’introduzione, l’idea di questo libro è nata da un progetto dell’Istituto di cultura, religione e affari internazionali dell’Università di Boston, intitolato “Tra relativismo e fondamentalismo” e che aveva lo scopo di ricercare una posizione intermedia fra i due estremi tenendo soprattutto presente le tradizioni cristiane ed ebraiche. A detta degli stessi Autori, originariamente il progetto voleva tenere presente i soli aspetti religiosi insiti nella dicotomia relativismo/fondamentalismo, ma molto presto sono emerse le fortissime e inestricabili implicazioni di questi temi con la morale e con la politica. La sintesi del lavoro svolto ha portato all’ammissione che la fede religiosa può ammettere il dubbio, ma ciò non impedisce al soggetto di produrre dei giudizi morali, etici e politici permeati da un forte senso di “certezza”.
Attraverso uno stile divulgativo semplice e scorrevole gli Autori ci guidano attraverso una dissertazione che ha lo scopo di dimostrare le virtù del “Dubbio”, visto come strumento pratico e flessibile, mezzo di comprensione della realtà, motore di una personale crescita culturale e morale, utile accessorio al dialogo interculturale, indispensabile strumento di moderazione ed anche elemento fondante e di rafforzamento della democrazia liberale. Viene nel frattempo negato l’effetto necessariamente relativizzante della dinamica dell’incertezza. L'attitudine all’esercizio del dubbio implica capacità di analisi e d’immedesimazione, apertura mentale e moderazione, ma anche un’interiorizzazione e un consolidamento dei propri valori e della propria cultura e tradizione. Questo processo mentale non conduce né all’indecisione, né alla stasi e neppure al disordine sociale, al relativismo e neppure al cinismo; nello stesso tempo, costituisce invece un valido strumento per l’applicazione di quella che Weber definisce “Etica della responsabilità”, da contrapporre a quell’”Etica dei principi”, che tanto spesso può condurre a forme di fondamentalismo religioso, politico, ideologico e culturale.
Forse è inutile aggiungere a questo punto che il libro mi è piaciuto moltissimo, anche perché, lo ammetto, sembra rispecchiare in pieno quello che spero divenga sempre più il mio modo di pensare, e perché risulta in accordo con i miei obiettivi in termini di pensiero civile e sociale. A livello di curiosità personale, tra l’altro, ho trovato particolarmente sorprendente il fatto che gli Autori abbiano esplicitamente citato l’”Empatia”, forma d'interazione a me particolarmente cara, fra gli strumenti indispensabili al dialogo e al mutuo riconoscimento. Pertanto, ne raccomando caldamente la lettura e magari, per i più volenterosi, l’attiva diffusione nei confronti di parenti, amici conoscenti e, soprattutto, verso quegli antagonisti zelanti e zeloti di ogni credo che, è nostro interesse e, se vogliamo, nostro dovere ricondurre a maggior moderazione.

domenica 5 febbraio 2012

Un Nuovo Mondo è possile? Fra passato e futuro, riflessioni sul tema della stabilità e mobilità lavorativa

Da La Stampa 30 gennaio 2012 Intervista a Muhammad Yunus : “Il capitalismo è un’auto vecchia. Va cambiato”.

http://www.ftcoop.it/portal/tabid/151/mid/786/newsid786/1471/dnnprintmode/true/Default.aspx?SkinSrc=%5BG%5DSkins%2F_default%2FNo+Skin&ContainerSrc=%5BG%5DContainers%2F_default%2FNo+Container

Da La Stampa 02 febbraio 2012 Mario Monti: “Il posto fisso? Che noia i giovani si abituino”

http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/440845/

Ho trovato interessante rilevare come i due sovra citati articoli, apparsi su La Stampa a distanza di pochi giorni, parlino in qualche modo del medesimo tema, la "Stabilità", vedendolo però a partire da punti di vista apparentemente diversi e forse persino antitetici. Yunus, dal vertice di Davos invita ad un superamento del modello capitalistico, la provocazione sembra forte, ma cosa dice in sintesi? Leggendo l’intervista si ha l’impressione che l’economista non sia in grado di fornire nessuna indicazione precisa riguardo alle modalità attraverso le quali si può giungere ad un aggiornamento/superamento del sistema capitalista, egli però, ad un certo punto propone una riflessione interessante sul ruolo sociale dell’impresa e sul mestiere dell’imprenditore. Questi, secondo Yunus, non può essere solo ridotto a figura tesa unicamente a far soldi ed interessato all’unico obiettivo della massimizzazione del profitto. Sicuramente infatti, fra le motivazioni che spingono a fare impresa c’è spazio anche per altri temi personali, come la realizzazione di se e delle proprie idee, la ricerca dell’eccellenza del prodotto e la coscienza della sua rilevanza sociale. Ci sono poi ampie possibilità anche per appagare aspirazioni più altruistiche che possono spingere a desiderare il perseguimento di obiettivi di miglioramento delle condizioni locali e del livello di sicurezza e di benessere della propria comunità di appartenenza, a partire, magari da quella dei propri dipendenti. Tale commistione di obiettivi, tra l’altro, non fa parte dell’etereo mondo delle idee, ma è chiaramente riscontrabile in numerosissime esperienze sia del nostro passato che del nostro presente industriale. Basti pensare, anche solo limitandosi ad alcune realtà piemontesi, alle realizzazioni di Leumann a Collegno (To), degli Olivetti ad Ivrea (To), dei Miroglio e dei Ferrero ad Alba (Cn) e di tanti altri imprenditori che nel passato strutturarono o, ancora adesso pensano, le loro realtà aziendali tenendo presente obiettivi più lungimiranti rispetto ai soli fini produttivi; per quale motivo, ad esempio, si dovrebbe promuovere l’apertura di un asilo nido presso le proprie strutture? Per massimizzare i profitti? Io penso che il motivo alla base non sia questo, ma che vada ricercato nel semplice piacere di vedere e creare intorno a se il “benessere”. In sintesi, penso che Yunus lasci intendere che la via per superare alcune contraddizioni della nostra società possa passare attraverso un cambiamento culturale che promuova, aiuti e stimoli quegli istinti positivi ed originari che già tendono ad emergere sporadicamente nel mondo imprenditoriale.
Ma cosa c’entra tutto ciò con le affermazioni di Mario Monti, il quale stigmatizza la propensione dei giovani verso il posto fisso? Se da una parte il capo del Governo ha ragione quando constata la sempre maggiore difficoltà a trovare un impiego definitivo ed invita pertanto a non illudersi in questo senso, dall’altra, a mio avviso, sbaglia quando sottostima le conseguenze sociali che comporta un’eccessiva dinamica e mobilità lavorativa e territoriale. E’ ben diverso quindi il prendere atto di un certo tipo di situazione rispetto all’affermare che questa sia auspicabile. In primo luogo, cambiare lavoro è bello quando presuppone un miglioramento, non lo è invece nel momento in cui implica un ripiegamento economico, una necessità di risposta ad una situazione di crisi oppure un indesiderato sradicamento dalla propria realtà sociale, famigliare e territoriale. Per ciò che riguarda la noia poi, spesso questa è il rovescio della medaglia di un compromesso che è implicito all’esigenza dei singoli e dei nuclei famigliari di addivenire ad una certa stabilizzazione, ad esempio: la famiglia, la casa, i figli, le scelte educative, le relazioni sociali, ecc. sono tutte scelte che implicano un certo grado di radicamento almeno nel medio termine. Queste scelte implicano l'implementazione di routine, forse anche "noiose", ma in un certo senso funzionali allo scopo, può sembrare lapalissiano, ma questa è la vita!
Un altro aspetto che poi dovrebbe indurre a scoraggiare e non ad incoraggiare l’eccessiva mobilità e che, dall’altra parte dovrebbe portare ad una rivitalizzazione del concetto di carriera interna è di fidelizzazione del dipendente è proprio riconducibile alle tematiche svolte precedentemente e legate al concetto, forse superato, ma comunque accattivante di “azienda-famiglia”, vista come volano economico, sociale e culturale di un certo territorio. Bisognerebbe infatti cominciare ad ammettere onestamente che, spesso, la mobilità ha compromesso pesantemente il legame di fedeltà fra dipendenti ed aziende diminuendo le mutue aspettative e la produttività, in più, il continuo turnover ha contribuito pesantemente ad impoverire il know how all’interno di molte realtà aziendali, mentre, dall’altro lato, il ricorso a management di provenienza esogena ha spesso prodotto situazioni di “scollamento” con il personale alle dipendenze nonché frustrazione e demotivazione e, non di rado, ha esposto i vertici delle strutture a situazioni di clamorosa incompetenza, appena lenite da quella che potremmo definire “la tirannia della consulenza”, genia che si occupa sempre più spesso di sopperire alle carenze di competenze interne e a quelle manageriali e culturali di tutti quei soggetti che non hanno maturato la necessaria conoscenza del proprio ramo di attività. Per concludere, bisognerebbe dunque riconoscere che la stabilità va di nuovo posta all’ordine del giorno come condizione da ricercare per i propri cittadini, mentre solo la genuina curiosità del nuovo e la tensione verso il miglioramento e non il darwinismo sociale, devono essere riconosciute come condizioni auspicabili del cambiamento.

sabato 4 febbraio 2012

Recensione: I Dimenticati – Storia degli Americani che credettero in Stalin

“I Dimenticati – Storia degli Americani che credettero in Stalin”, titolo originale: ”The Forsaken”, di Tim Tzouliadis, editrice Longanesi, traduzione di Corrado Piazzetta, iSBN 978-88-304-2662-7.
Non siamo abituati a pensare che l’ex Unione Sovietica fosse, nei suoi primi decenni di vita, meta di un significativo flusso migratorio dall’estero. Furono quindi accolti, non solo i molti intellettuali simpatizzanti dell’ideale comunista, ma anche un non trascurabile numero di lavoratori, accompagnati dalle loro famiglie che credevano realmente nella capacità del nuovo sistema di offrire migliori possibilità di progresso economico e sociale rispetto a quanto fosse possibile nei rispettivi luoghi di origine. Anche dagli USA, durante la fase più acuta della Grande Depressione partirono molte migliaia di cittadini americani in cerca di fortuna; in parte lo fecero per motivi ideologici, ma i più lo fecero perché delusi dal fallimento del “sogno americano”, nella genuina speranza di sfuggire alla miseria e alla disoccupazione e attratti dalle lusinghe di un regime che prometteva lavoro, progresso sociale e prosperità. I destini di questi uomini e delle loro famiglie finirono per accomunarsi con quello degli altri cittadini sovietici che, a milioni, finirono stritolati dal “Terrore” staliniano.
L’Autore ricorda la storia e le incredibili e tragiche traversie di alcuni di loro in un libro che, personalmente, ho trovato bellissimo, spaventoso, coinvolgente e sconvolgente e che riesce a ricostruire efficacemente le immagini, le violenze fisiche e psicologiche, il contesto storico, i personaggi coinvolti, le enormi responsabilità e le complicità che permisero di portare a termine, avallare ed anche a passare sotto silenzio le purghe staliniane, uno dei peggiori eventi criminosi del ventesimo secolo, fino alla morte del dittatore Joseph Vissarionovich Dzhugashvili Stalin. Non si parla evidentemente dei soli protagonisti sovietici, ma anche di tutti quegli americani (e non solo) più o meno potenti che sapevano o sospettavano ma che si rifiutarono di intervenire persino in quei casi in cui le purghe coinvolsero i propri connazionali. La galleria del cinismo, dell’ignoranza ed anche solo della stupidità e della superficialità è lunghissima nonché davvero inquietante perché coinvolge non solo centinaia di figure più o meno di spicco fra i politici, gli addetti ai servizi di sicurezza, gli intellettuali, i giornalisti, i sindacalisti e gli artisti, ma arriva fino ai vertici del potere a partire dal presidente Franklin D. Roosevelt, dal suo successore Harry Truman, dal vice-presidente Henry Wallace, dal segretario del Tesoro in carica durante il New Deal Henry Morgenthau, includendo l’allora ambasciatore a Mosca Joseph Davies, insieme ad industriali del calibro di Henry Ford e icone del giornalismo come Walter Duranty. Fra i personaggi famosi pochissimi dei nomi citati ne escono con la testa alta o almeno con ampie attenuanti, fra questi, ho avuto il piacere di vedere citato lo scrittore John Steinbeck che, seppur inizialmente simpatizzante dell’esperimento comunista, ebbe il coraggio di ricredersi di fronte ai crimini dello stalinismo; anche Winston Churchill, in fondo riesce a non sfigurare, il vecchio, cinico, pragmatico, caustico politico inglese, di fronte a Stalin, e contrariamente a Roosevelt, mai si illuderà di aver di fronte di più che un miserabile, rozzo assassino.

mercoledì 1 febbraio 2012

Mercato del lavoro: Una proposta per la flessibilità e di revisione dell’art.18

Il Governo Monti sembra voler prendere seriamente in considerazione il tema della riforma del mercato del lavoro ricercando un difficile equilibrio fra le richieste di flessibilità e rinnovamento che proviene dal mondo imprenditoriale e l’evidente necessità di ridurre la disoccupazione, il precariato, il lavoro nero e tenendo presente, possibilmente, i vantaggi economici, sociali e psicologici che provengono dall’aver una certa sicurezza riguardo alla stabilità del posto e dell’orario di lavoro. Sembra che i vari rappresentanti delle parti sociali, si siano impegnati in un confronto che non prevede necessariamente né tempi stretti né diktat e che parte anche dal presupposto di superare alcuni atteggiamenti dogmatici, lasciando intendere che l’intenzione sia quella di aggiornare allo spirito dei tempi la disciplina che regola il rapporto di lavoro più di quanto si persegua l’obiettivo di eliminare semplicemente alcune garanzie. Uno degli aspetti dibattuti riguarda la possibilità di avvalersi con maggiore flessibilità dello strumento del licenziamento. A questo tema si ricollega direttamente anche la discussione riguardante il possibile superamento o la modifica delle tutele fornite dall’art.18 dello Statuto dei Lavoratori, contro i licenziamenti privi dei requisiti della giusta causa o del giustificato motivo. Innanzi tutto, bisogna premettere che uno degli aspetti problematici legati a questa norma e che ne mina sostanzialmente lo spirito, scontentando parimenti il mondo imprenditoriale e i tutelati, non riguarda tanto la bontà del principio quanto la sua applicabilità; i tempi dei procedimenti giudiziari sono lunghi e, pare, in passato si sia manifestata anche una certa e non sempre giustificata prevalenza giurisprudenziale a favore di certe categorie di lavoratori. Queste circostanze, estranee al principio e persino contro di esso, minano l’efficacia dello strumento di tutela che, per sua natura, dovrebbe prevedere tempi rapidissimi per dirimere le vertenze. Riguardo a quest’aspetto, pare che il Governo si stia muovendo nella giusta direzione quando sostiene di voler creare una struttura separata e privilegiata che si occupi delle cause legate al mondo del lavoro e dell’impresa. Per tornare al tema del licenziamento, legato eventualmente a problemi di crisi o di ristrutturazioni produttive, o a più o meno “giuste cause” e, pensando anche al ruolo della cassa integrazione, forse la soluzione per superare tutti questi problemi potrebbe consistere nel permettere di licenziare in maniera insindacabile e immediata, ma al costo di erogare al lavoratore una sostanziosa indennità che lo metta al riparo per un orizzonte temporale accettabile dal disagio e dal danno morale e materiale causatogli e, nel contempo, fornendogli quel respiro economico e sicurezza indispensabili per supportarlo nella ricerca di un nuovo posto di lavoro. Indicativamente, mi sembra che tale indennizzo non dovrebbe essere inferiore a tre annualità dell’ultimo stipendio erogato. In questo modo, sarebbe semplicemente possibile smettere di distinguere fra licenziamenti per giusta causa o meno e non sarebbe neanche necessario applicare norme diverse alle imprese con meno o più di quindici dipendenti, non sarebbe necessario alcun ricorso in giudizio perché la volontà del datore di lavoro sarebbe insindacabile e sarebbe forse possibile eliminare la cassa integrazione e lo strumento della mobilità, nel frattempo però, il costo del licenziamento dovrebbe essere sufficientemente elevato per limitare l’arbitrio del datore di lavoro, limitando il ricorso a questo provvedimento estremo ai soli casi di estrema necessità.