domenica 24 maggio 2015

Recensione: L'ordine politico delle Comunità


“L’ordine politico delle Comunità”, di Adriano Olivetti, edizioni di Comunità, ISBN: 978-88-98220-12-0.
Innanzitutto è opportuno premettere che il libro nasce nella prima metà degli anni quaranta del novecento, quando ormai cominciava a profilarsi per l’Italia un cambio di regime e, soprattutto, in vista del nuovo progetto costituzionale che stabilì nel dopoguerra il nuovo assetto politico della nazione. Dunque, solo dunque se si tiene conto di questo contesto storico si può cogliere pianamente la novità e modernità del messaggio politico e sociale proposto dall’Autore. Tale ideologia troverà espressione concreta nell’attività sociale e culturale del gruppo industriale Olivetti con sede a Ivrea (prov. TO), che intraprese un’azione fortemente progressista nei confronti delle maestranze e del territorio realizzando programmi culturali, politiche sociali e del lavoro che furono assolutamente all’avanguardia. Anche sul piano strettamente politico, Adriano Olivetti continuò ad impegnarsi per la finalizzazione dei concetti espressi ne “L’ordine politico delle Comunità”; nel 1948 (fonte wikipedia) fondò il movimento politico “Movimento Comunità” e, nel 1958 fu eletto deputato nelle fila del movimento che, nel frattempo, aveva assunto una certa rilevanza politica nell’ambito territoriale del Canavese (Prov.TO). Fu solo la sua morte prematura (1960) a mettere definitivamente in crisi la proposta politica della quale egli era il principale referente.
Il concetto centrale intorno al quale ruota il progetto umanistico proposto da Olivetti è quello di “Comunità”, raggruppamento territoriale in qualche modo intermedio fra Comune e Regione e paragonabile al concetto del “Cantone” svizzero. La Comunità avrebbe il compito di occuparsi dei principali aspetti economici e sociali legati al proprio ambiente di riferimento. Il modello descritto e auspicato dall’Autore si ispira sia all’ideologia cristiana sia a forme di socialismo “reale” e si spinge a prefigurare la cogestione dei mezzi di produzione da parte degli imprenditori, dei rappresentanti dei lavoratori e di organi politici espressi dalla comunità stessa (a questo proposito, per esempio, Olivetti cita il caso delle industrie Zeiss la cui proprietà venne trasferita dai fondatori ad una fondazione che aveva lo scopo di promuovere la ricerca scientifica e il benessere delle maestranze!). Le diverse comunità entrerebbero poi a far parte di stati regionali appartenenti, a loro volta, ad un’entità federale, i cui poteri però, risulterebbero abbastanza limitati, se paragonati alle prerogative e alle funzioni che invece sottendono all’opzione centralista che fu quella scelta per l’Italia del dopoguerra. L’idea di Olivetti, quindi era certamente molto moderna e, in termini di autonomia e federalismo, si poneva su una posizione anche più radicale di quelle proposte dai successivi movimenti autonomisti.
Venendo allo stile del libro, nonostante che l’Autore abbia fatto un certo sforzo per evitare di redigere un supporto tecnico che fosse valido unicamente per esperti di diritto pubblico e costituzionale, non ha potuto evitare di elencare minuziosamente le caratteristiche degli organi, delle funzioni e delle cariche politiche preposte al funzionamento della “federazione comunitaria”; di conseguenza, la lettura finisce per risultare piuttosto pesante e più adatta a un pubblico di giuristi rispetto a quanto risulti indicata a dei lettori generici.

lunedì 11 maggio 2015

Quote migranti, una proposta ragionevole


La proposta (se non erro, almeno all’origine, “tedesca”!) di suddividere i profughi o, secondo una visione più allargata, i migranti fra i vari paesi europei in funzione di quote proporzionali ad una serie di parametri mi sembra l’unico approccio ragionevole in questa fase. Semmai, nel momento in cui tale principio venisse accettato, sarà necessario affrontare il tema della definizione di tali parametri con serietà e con la flessibilità necessaria per valutare aggiustamenti nel corso del tempo; posto che, il fenomeno dell’immigrazione, è certamente dinamico e, pertanto, non si potrebbe pensare di affrontare tale tema attraverso una griglia di formule rigide e statiche.
L’immigrazione resta comunque un problema sociale complicato e certamente, l’approccio delle quote, non permetterebbe di risolverebbe le questioni alla base, cioè quelle riguardanti: l’opportunità di accogliere i migranti, i limiti eventuali posti al numero degli ingressi, le modalità per regolarli e le eventuali azioni da porre in atto per “disfarsi” della quota in eccesso o degli elementi sgraditi. Almeno, però, la definizione di tali ammontari permetterebbe di risolvere il problema di cosa farsene delle persone che, nel bene o nel male, sono riuscite a giungere a destinazione e renderebbero quindi inutili molte delle diatribe, “furberie” e i tanti tatticismi finalizzati allo “scarica barile” posti in atto dai diversi paesi europei e chiaramente originati dalla distinzione fra quelli che si trovano sui confini dell’Unione e che, pertanto, sono destinati ad essere i paesi interessati dal primo contatto ( e che, in qualche modo non sono riusciti ad “evitare”!), dagli altri che potrebbero essere quelli di destinazione finale ma che, con l’eccezione di Germania e Svezia, tendono a non volersi occupare del problema se non attraverso il finanziamento di missioni di sorveglianza e contenimento.

domenica 3 maggio 2015

Recensioni: Diciassette contraddizioni e la fine del capitalismo


“Diciassette contraddizioni e la fine del capitalismo”, titolo originale: “Seventeen contradictions and the end of capitalism”, di David Harvey, traduzione di Virginio B. Sala, edizioni Feltrinelli, ISBN: 978-88-07-10509-8.
Dopo “L’enigma del capitale e il costo della sua sopravvivenza”, l’Autore si avventura in un’analisi delle contraddizioni che sussistono, a parer suo, nel sistema capitalistico, caratteristiche che, se proprio non sono necessariamente destinate a farlo soccombere, certamente costituiscono punti di debolezza intrinsechi al sistema e capaci di metterlo in crisi creando più o meno ampi cortocircuiti. Harvey individua diciassette di queste contraddizioni che possono intrecciarsi fra loro accentuando le rispettive tendenze distorsive.
Alcune derivano dalla stessa natura del sistema, senza di esse, secondo l’Autore il capitalismo non potrebbe sopravvivere o, non sarebbe tale, ma un’altra “Cosa”. Fra queste troviamo le tipiche dicotomia fra “Valore d’uso” e “Valore di scambio”, le diverse accezioni e definizioni del “Lavoro”, la sua necessaria “Mercificazione”, l’enfasi posta sulla “proprietà privata” e la necessità che esista uno “Stato capitalista” che l’incentivi e la protegga; ma anche la contrapposizione fra “Capitale” e “Lavoro” o, persino all’interno del primo, l’analisi della sua duplice natura che ne fa, da un lato un “Processo” di investimento, produzione e di progressiva svalutazione e dall’altro lo qualifica come una merce in sé, una “Cosa”, veicolo di accumulo di beni, denaro e ricchezza. Questi aspetti contraddittori finiscono per intrecciarsi e amplificarsi, forgiano e plasmano le nostre società ma tendono a accentuare le differenze e a creare momenti contraddittori: l’accentramento della ricchezza o la sempre più marcata efficienza produttiva, ad esempio, tendono a ridurre anziché ampliare la capacità di consumo; la concorrenza esasperata e l’abbattimento delle barriere geografiche si ritorcono contro quella parte di capitale che tende a rimanere immobilizzata e quindi intrappolata in luoghi precisi, oppure deprime i salari (e di conseguenza i consumi) più di quanto riesca a comprimere i costi; l’organizzazione e la sempre maggiore specializzazione del lavoro tende a creare forma di monopolismo professionale insieme, all’altro capo, a gravi forme di alienazione e incapacità a riqualificarsi; le cosiddette “Esternalità” minano gravemente l’equilibrio ambiente e tendono a dissolvere la coesione sociale …
C’è molto delle teorie marxiste nell’opera di Harvey ed egli, non cerca certo di mascherarlo ma semmai di recuperarne e sottolinearne gli aspetti innovativi. Marx, per molti, ha ancora una brutta fama e odora forse ancora troppo di “Cortina di ferro”, però, passato lo spauracchio del comunismo, forse varrebbe la pena di soffermarsi maggiormente per valutare un po’ più a mente fredda alcuni aspetti della sua opera d’analisi che, effettivamente, per aspetti consistenti continua a dimostrarsi attuale. Questo, in fondo, mi sembra l’obiettivo più o meno esplicito di alcuni economisti moderni (ad esempio T. Piketty ne “Il Capitale nel XXI° secolo) e non solo, perché in quest’opera di revisione forse troverebbero spazio anche riflessioni riguardo a affermazioni e previsioni che vengono dal passato e che dobbiamo ad icone del calibro di John Maynard Keynes e non certo a qualche circolo anarchico rivoluzionario. Cosa voleva dirci, infatti, il grande economista inglese quando scrisse e parlò delle “Economic Possibilities for our Grandchildren”?
 
Un difetto per quest’opera di Harvey? … Al di là dei contenuti senza dubbio interessanti, non ho trovato che la prosa si sia dimostrata “Appassionante”; detto in altre parole, un bel “Mattoncino” in molti suoi punti! … Anche su questi aspetti Marx fa capolino. J