venerdì 26 agosto 2011

Crisi economica e proposte di soluzione: Privatizzazioni e alienazioni patrimoniali.

Uno degli strumenti che spesso viene proposto per “far cassa” e pertanto contribuire a ridurre debito e disavanzo pubblico è quella di dismettere e dunque privatizzare asset patrimoniali di proprietà dello Stato, di Enti pubblici, o del demanio. Spesso quindi si parla di mettere in vendita società sottoposte a controllo pubblico, immobili e persino parti del territorio (ad esempio le isole). E’ chiaro che di fronte all’emergenza, anche vendere i “gioielli di famiglia” può essere una soluzione, normalmente però, si tratta di quel genere di sacrifici che si dovrebbero fare mal volentieri e solo nel momento in cui si siano esaurite altre possibilità. Strano poi che mediamente si tenti di far passare queste operazioni come virtuose in sé, anche al solo scopo di ridurre la presenza pubblica nell’economia. Un’inclinazione di questo senso, a mio avviso, va semplicemente contro ogni comune indicazione del buon senso; da quando, infatti, svendere il proprio patrimonio è considerata come una scelta auspicabile? Noto che tale modo di pensare persiste perché sembra ancora piuttosto diffuso il dogma che presuppone a priori che la gestione di aziende e patrimoni da parte dei privati sia sempre ed in ogni caso più efficiente e comunque auspicabile rispetto a quello pubblico. Non dico che questo, in alcuni casi non sia vero, sostengo però che tali affermazioni nella pratica non risultano sempre valide e nego che comunque il vantaggio sia sempre chiaramente dimostrabile. Anzi, sarebbe auspicabile che queste affermazioni fossero attentamente verificate ex-post in conformità a dati oggettivi e magari non limitandosi alle sole considerazioni economiche. L’implementazione di controlli efficaci e la ricerca dell’efficienza sono, infatti, più legate alla volontà piuttosto che alla natura del soggetto controllante, a dimostrazione di ciò, ed è una cosa nota a tutti, si può facilmente verificare che, fra le maggiori società quotate presso la borsa valori vi siano non poche realtà a controllo pubblico e che molte delle quali non sfigurano per niente in termini di risultati economici e patrimoniali conseguiti. Ovviamente non è dato sapere se queste aziende avrebbero prodotto risultati ancora migliori sotto controllo privato, ma intanto è certo che il loro costante e cospicuo flusso di dividendi giova non poco al Tesoro, alla Cassa Deposito e Prestiti e ai Comuni che le controllano, ed è nel contempo altamente probabile che ci siano file di potenziali acquirenti pronti a mettere le mani a prezzi scontati su tali galline dalle uova d’oro. Nel frattempo, tanto per fare un esempio di opposta natura, non risulta che ci sia la fila per strada per assumere il controllo di realtà dissestate come la Tirrenia, dove invece il privato avrebbe ampie possibilità di mostrare tutto il suo superiore virtuosismo in fatto di management. Per dirla in chiare parole quindi, le privatizzazioni finiscono spesso per configurarsi come una semplice distrazione di ricchezza pubblica a vantaggio di soggetti privati, che grazie alle proprie entrature, derubano la collettività. Esse sono pertanto da evitare in tutti quei casi in cui non appaiono come la soluzione più razionale per valorizzare, salvare e risanare quegli elementi patrimoniali che sennò andrebbero definitivamente perduti.
.

lunedì 22 agosto 2011

Crisi economica, riforma fiscale e lotta all’evasione

Ultimamente mi sono permesso, da non addetto ai lavori, di muovere alcune critiche alle soluzioni che sono sul tavolo per ricercare nuove risorse al fine di fronteggiare la crisi finanziaria. Come è noto, il problema non facile da risolvere che devono affrontare i nostri governanti, è quello di reperire nuovi fondi per rilanciare lo sviluppo o almeno, per evitare di far lievitare ulteriormente il disavanzo ed il debito pubblico fugando l’allarmismo dei mercati finanziari. In linea di massima questo obbiettivo può essere perseguito attraverso: la razionalizzazione e/o i tagli della spesa pubblica, un’ulteriore riduzione della spesa pensionistica, dismissioni del patrimonio pubblico, oppure intervenendo sulla sfera fiscale. Ovviamente si può e forse si dovrebbe operare agendo su tutte le leve disponibili, a me però piace pensare che la leva fiscale sia quella foriera di portare i benefici più significativi; e che questi possano essere per di più strutturali e (relativamente) immediati. In Italia, forse un po’ paradossalmente, mi sembra che i migliori risultati potrebbero venire dalla lotta all’evasione, alla quale potrebbe affiancarsi una equilibrata riforma della tassazione patrimoniale. Limitandosi alla sola lotta all’evasione, a me sembra che la soluzione per fare emergere quote significative di “nero” sia abbastanza semplice, così immediata da farmi persino dubitare della bontà della proposta e da indurmi a sospettare che, dietro alla sua eventuale applicazione, ci sia nascosta qualche controindicazione che personalmente evidentemente non riesco a percepire. La soluzione proposta infatti si baserebbe semplicemente sull’introduzione di una significativa detraibilità su certi particolari tipi di spesa.

Caratteristica base della proposta:
- L’aliquota di detrazione proposta dovrebbe essere significativa (almeno intorno al 40%-50%) in modo da incentivare da parte del consumatore la richiesta di fatture e scontrini.
- Lo scontrino o la fattura dovrebbe essere “tracciabile”, pertanto, per ottenere la detrazione il contribuente dovrebbe sempre indicare il codice fiscale/partita iva dell’emittente. In questo modo sarebbe possibile incrociare i dati con le dichiarazione di questi ultimi e costruire degli archivi per monitorarne i redditi anche negli esercizi successivi.
- Si potrebbero escludere dalla detraibilità gli acquisti effettuati tramite le grandi catene di supermercati (che normalmente emettono scontrino!).
- Le categorie di spese detraibili, qualora fosse necessario al fine di non deprimere troppo le entrate fiscali, potrebbero cambiare ogni anno e magari ripresentarsi a rotazione dopo un certo numero di periodi di imposta. Così ad esempio, per un anno (o per più periodi di imposta!), dandone previamente pubblicità (è indispensabile che i contribuenti ne abbiano notizia a partire dalla fine dell’esercizio fiscale precedente!) si potrebbe decidere di rendere detraibili le spese legali o legate al lusso (anche i gioiellieri per intenderci!) o riguardanti l’igiene personale e la cura della persona (parrucchieri, centri sportivi, centri estetici, centri benessere e massaggi), oppure ancora spese mediche e dentistiche. L’anno seguente le spese di acquisto presso categorie mirate di esercizi commerciali (vestiario, macellerie, bar, ristoranti, ecc.) e l’anno dopo ancora, le spese di assistenza e cura della casa (badanti e lavoro domestico, ecc.).
In sintesi, ritengo che la consistente possibilità di detrazione, contestualmente al dovere di indicare la provenienza della spesa attraverso il meccanismo della tracciabilità permetterebbe all’Agenzia delle Entrate di predisporre rapidamente dei database aggiornati riguardanti i redditi del cosiddetto lavoro autonomo. Questi archivi sarebbero utili anche nel caso di rotazione delle categorie deducibili in quanto difficilmente, una volta emerso un certo fatturato, si potrebbe diminuire sostanzialmente l’imponibile senza incorrere nel rischio di un controllo fiscale. Ulteriore benefici dovrebbero poi venire dalla spinta alla regolarizzazione di alcuni tipi di rapporto di lavoro, come per esempio quello legato all’assistenza ed al lavoro domestico, oppure ancora dall’incentivo alla spesa che andrebbe ad influenzare i beneficiari delle detrazioni, i quali, grazie al meccanismo dell’abbattimento, potrebbero essere incentivati ad incrementare certi tipi di beni di consumo o servizi.

venerdì 19 agosto 2011

Recensione: La restituzione

“La restituzione _ Perché si è rotto il patto tra le generazioni”, di Francesco Stoppa, edizione Feltrinelli, ISBN 978-88-07-10471-8.
Di fronte ad una generazione giovanile in apparenza svogliata, priva di ideali, egocentrica e consumista, l’Autore si domanda cosa abbia mandato in tilt il meccanismo della “restituzione”, il processo di trasmissione di impegni, doveri e valori condivisi che suggella il patto fra le generazioni. La colpa ovviamente è da attribuire alla generazione adulta, quella dei genitori, che si sono sottratti al loro compito di instradare i figli lungo un percorso di sviluppo che li portasse verso una maggiore consapevolezza delle proprie possibilità e che li rendesse realmente indipendenti, ma anche capaci di contendere loro il dominio (futuro) sulla società. Una generazione di genitori iperprotettiva e onnipresente ha circondato la propria discendenza di una rete protettiva ipertrofica che gli ha impedito un vero confronto, seppur traumatico con il mondo reale. L’eccesso di consumismo contestualmente alla facilità di comunicazione, movimento e di accesso ad ogni sorta di servizio e contatto sociale hanno ulteriormente contribuito a de-traumatizzare ogni tipo di esigenza, rendendo anche troppo facile l’esaudirsi di ogni desiderio, ma creando anche una serie di dipendenze che hanno accentuato l’incapacità di mettersi alla prova, di accettarsi per quello che si è, di essere soli, di auto-referenziarsi. I cambiamenti sociali e le immagini trasmesse dai mass media hanno poi contribuito a livellare (apparentemente) le distanze fra le generazioni, imponendo la necessità di apparire sempre giovani, dinamici ed enfatizzando il concetto del “qui” e “adesso” , di fatto mettendo in crisi il concetto di autorità, senza però che essa fosse effettivamente messa in discussione e sfidata seriamente. Contestualmente ne è risultata sminuita l’importanza della tradizione e della storia, il che ha contribuito a svilire tutto quanto fosse legato al concetto di invecchiamento, ma anche a procrastinare ogni reale intenzione che implicasse il trapasso e la trasmissione del potere. Sicuramente un bel libro! …. Un po’ difficoltoso in alcune parti per quelli come me che non hanno famigliarità con la terminologia e gli studi psicoanalitici.

giovedì 18 agosto 2011

Crisi economica e proposte di soluzione: Feste Nazionali – Eliminazione della festività infrasettimanali

Fra le tante proposte per far fronte alla crisi economica e per promuovere la crescita del nostro PIL asfittico, ve è una che, a mio avviso, rasenterebbe il comico e il farsesco, ma che spicca soprattutto per il cattivo gusto! Si tratta della proposta che vuole accorpare le principali festività laiche nazionali, 2 giugno, 25 aprile e 1 maggio alla domenica successiva qualora la festività cada in un giorno infrasettimanale e pertanto preveda un "ponte" che prolunghi l’astensione dal lavoro. Secondo il mio punto di vista, vi sono varie ragioni per ritenere un tale provvedimento probabilmente inefficace se non persino dannoso dal punto di vista economico, chi l’ha proposto infatti non ha evidentemente presente che anche il “tempo libero” pesa significativamente sul PIL, soprattutto in un paese che tanto profitto trae dalle voci legate al turismo. Sempre rimanendo sul terreno dell’economia bisognerebbe poi approfondire il discorso riguardo al modo in cui viene calcolato il nostro ormai totemico PIL; se infatti continueremo a pensare in termini di PIL assoluto e non in termini di prodotto giornaliero e quindi di produttività giornaliera (o meglio oraria!) anziché di produzione annuale assoluta, continueremo a nascondere a noi stessi il vero problema del nostro Paese che soffre di una cronica mancanza di efficienza e di scarsa produttività oraria e giornaliera, problemi che non vengono certo risolti, ma anzi nascosti allungando tout court l’orario di lavoro e che invece andrebbero affrontati facendo massicci investimenti sulla ricerca, sull’ambiente di lavoro, sulla formazione e sulle infrastrutture, a cominciare dalle reti di comunicazione.
Ma torniamo alla nostra proposta “risolutiva” e lasciamo il campo economico per entrare in quello morale e sociale. Domandiamoci ad esempio se e perché gli americani rinuncerebbero al loro 4 luglio, oppure i francesi al loro 14? Quale Paese serio accetterebbe di eliminare proprio quelle feste che ritualizzano e ricordano il lungo e spesso doloroso processo che ha portato all’unità nazionale e alla collaborazione economica le varie compagini sociali? E quali altri feste si presentano come altrettanto universali (nel senso nazionale del termine!) e cementanti rispetto ad un tessuto sociale che si presenta sempre più frammentato e multietnico? Le nostre mille feste patronali? ….. Che per altro sono di intralcio a chi deve gestire più unità produttive sparse sul territorio nazionale? Sono molto dubbioso! Senza voler però tirare in ballo inesistenti antagonismi fra feste laiche e religiose, oppure fra feste nazionali e locali, tornerei al problema centrale, che è quello economico e che ho provato ad evidenziare più sopra. Pensare di risolvere i nostri problemi di PIL allungando solamente l’orario di lavoro non può portare a nulla di buono! Anche solo per il fatto che, chi lavora non spende! Peraltro, a questa conclusione…… c'era già arrivato Henry Ford.

Crisi economica e proposte di soluzione: Vincolo costituzionale di pareggio del bilancio

Una delle soluzioni delle quali si discute per porre rimedio alla difficile congiuntura finanziaria europea di quest’estate riguarda la possibilità di introdurre una norma costituzionale che imponga il vincolo di pareggio di bilancio statale. Sinceramente non ho mai sentito nulla di più futile ed insensato! E mi sembra persino incredibile che tali proposte non siano frutto della smania di protagonismo di qualche “peones” parlamentare, ma che giungano persino da blasonati primi ministri di alcuni fra i principali Paesi della UE!
Sollevando questa critica non voglio ovviamente dire che, vista la situazione, non sia necessario che ogni governo europeo affronti la crisi con il necessario rigore; intendo però far rilevare come non sia la carta costituzionale lo strumento idoneo per sottolineare la doverosa incombenza di porre ordine ai conti degli stati. Di più, ritengo persino pericoloso che vincoli di questo genere vengano inseriti a livello costituzionale irrigidendo in questo modo la capacità di agire dei governi in carica che devono poter agire con tutte le leve consentitegli dalla politica monetaria e che in certi casi (Keynes insegna!), possano persino avere il “dovere” di indebitarsi in quei casi in cui il ricorso all’indebitamento sia lo strumento più idoneo e praticabile per accelerare lo sviluppo economico o per evitare gli effetti più deleteri di una crisi economica o di un’emergenza, quale ad esempio: una catastrofe naturale o una guerra.
Per altro, siamo probabilmente tutti consapevoli che oggigiorno non sia effettivamente praticabile una politica governativa che porti alla crescita del debito pubblico, è chiaro infatti che il mercato finanziario non sarebbe in grado di sopportare tale tipo di scelta politica ed economica; in ogni caso però la scelta di come gestire il bilancio ed anche la decisione riguardo a se produrre un avanzo, un pareggio, oppure un peggioramento del deficit deve rimanere prerogativa, diritto e soprattutto dovere del governo in carica, che deve assumersi pienamente la responsabilità delle proprie scelte davanti agli elettori e davanti alla comunità internazionale senza che ci sia la possibilità di invocare la carta costituzionale per supportare l’eventuale ricorso al rigore e trovando così un modo ingenuamente furbesco per allontanare da se la responsabilità di scelte potenzialmente impopolari.

mercoledì 17 agosto 2011

Recensione: Lo Sterco del Diavolo – Il denaro nel Medioevo

“Lo Sterco del Diavolo – Il denaro nel Medioevo”, titolo originale”Le Moyen age et l’argent”, di Jaques Le Goff, edizioni Laterza, ISBN 978-88-420-9364-0.
Il libro di Le Goff è sintetico, scorrevole, interessante e moderno; ci ricorda che Il denaro inteso nell’accezione attuale e pertanto visto come strumento di certificazione legale (in forma metallica o cartacea) di un valore predefinito, come mezzo di pagamento e di scambio, fonte di accumulo nonché indice distintivo di ricchezza e potere non ha sempre avuto la stessa centralità di oggigiorno. Durante buona parte del Medioevo, non solo il denaro non era così strettamente necessario agli scambi, i quali spesso avvenivano in forma limitata o ricorrendo a forme di baratto anche per il commercio all’ingrosso, marittimo o via terre sulle lunghe distanze, ma non era neanche particolarmente indicativo dello status sociale né dell’effettiva influenza dei ceti dominanti che anzi, cercavano di evitare che la propria immagine fosse associata con il possesso e soprattutto con il maneggio di moneta che, in effetti da sempre legata con il concetto e con l’evoluzione del “credito”, era gravata dall’immagine negativa che la religione attribuiva all’usura, termine che secondo un’interpretazione letterale del Vecchio e del Nuovo Testamento contraddistingueva ogni forma di prestito ad interesse. Da qui nasce l’avversione e la stigmatizzazione in epoca medioevale di tutte quelle professioni ed attività che implicavano il maneggio di consistenti somme di denaro. L’uso della moneta e degli strumenti di credito si diffonde lentamente ed è per lo più funzionale ad un mutamento storico legato all’espansione delle città, delle fiere, delle attività manifatturiere e dei commerci, nonché al progressivo rafforzamento di centri di potere quali le signorie o il potere regio, che solo gradualmente riescono a avocare a se il monopolio del conio monetario ed a costruire una stabile organizzazione di tesoreria e un sistema fiscale via via sempre più efficiente. Nel frattempo anche gli aspetti culturali mutano lentamente, gradualmente s’indeboliscono e si aggirano le norme e i precetti religiosi che penalizzano l’immagine di chi detiene il denaro, nascono nuove interpretazioni morali e filosofiche che lo rendono accettabile e funzionale non solo in ambito commerciale ed economico, ma anche in quello morale e religioso grazie all’affermarsi di nuovi strumenti, o all’emergere di nuove necessità ed opportunità legate alla circolazione del denaro. Si pensi ad esempio all’evoluzione del concetto di elemosina in denaro, legata alla diffusione degli ordini mendicanti, oppure alle esigenze di drenaggio e gestione della “liquidità” resosi necessario al fine di razionalizzare la gestione di grandi progetti, quali ad esempio la costruzione di edifici religiosi (le cattedrali, ma anche i grandi palazzi come quello papale ad Avignone) o la partecipazione alle crociate, oppure ancora la giustificazione di balzelli e strumenti fiscali quali la decima e la vendita delle indulgenze. Sullo sfondo un mondo in mutamento che lentamente, grazie anche all’uso del credito e del denaro si “modernizza”, portando con sé tutto il suo carico di innovazioni e di opportunità, ma anche di contraddizioni, crisi e sperequazioni, in linea con uno strumento che rimane intrinsecamente legato ad un oggetto, la moneta, che presenta sempre due facce!

venerdì 12 agosto 2011

Recensione: La fine della Grande Ungheria – fra rivoluzione e reazione 1918-1920

“La fine della Grande Ungheria – fra rivoluzione e reazione 1918-1920” di Alberto Basciani e Roberto Ruspanti, edizioni BEIT Studi, ISBN 978-88-95324-17-3.
Il libro parla del periodo storico, immediatamente successivo alla fine della prima guerra mondiale, che vide lo smembramento dell’impero austroungarico e in particolare dell’antico regno di Ungheria, ratificato dal trattato di Trianon, firmato a Versailles il 4 giugno 1920. All’epoca, il regno danubiano comprendeva un insieme multietnico che raggruppava oltre all’attuale Ungheria, la Galizia, parte dell’Istria, della Croazia, della Serbia, della Romania, la Slovacchia, l’attuale Repubblica Ceca e alcune parti dell’attuale territorio austriaco. Le ipotesi di spartizione, le tensioni nazionalistiche e le conseguenze sociali ed economiche della sconfitta subita nella Grande Guerra furono la causa di una serie di rivolgimenti politici che portarono alla caduta della monarchia asburgica, alla rivoluzione “delle rose d’autunno”, nell’ottobre del 1918, che instaurò in Ungheria una repubblica democratica sotto la guida del conte Mihàly Kàrolyi, seguita dalla “Repubblica dei Consigli” (Marzo – Agosto 1919) sotto la guida del socialdemocratico Sàndor Garbai, ma pesantemente influenzata dal suo ministro degli esteri, il comunista Béla Kun. La Repubblica dei Consigli costituì un esempio significativo di repubblica socialista di tipo bolscevico. L’esperimento comunista finì a seguito della sconfitta militare subita dagli ungheresi ad opera dell’esercito rumeno che occupò Budapest in Agosto per esserne poi ricacciato dalle truppe guidate da Miklòs Horthy, ex ammiraglio della flotta asburgica e ministro della guerra del governo ungherese anticomunista di Seghedino, il quale, dopo un breve tentativo di restaurazione asburgica guiderà con piglio dittatoriale l’Ungheria fino alla sua destituzione del 1944 ad opera dei nazisti. Sarà proprio Horthy a firmare il trattato di Trianon, sancendo la fine della Grande Ungheria. Come si può notare il periodo storico è convulso ed interessante, il libro però si presenta come estremamente frammentario, presentando una serie di saggi che alternano l’analisi del momento storico a lavori dedicati ad una serie di intellettuali ungheresi che, per quanto mi riguarda, rimangono per lo più sconosciuti (i poeti Endre Ady e Jòzsef Kiss, il pittore Lajos Kàssak, il rivoluzionario Màrai). L’insieme di lavori di varia origine comprende anche un saggio, che personalmente ho trovato interessante, riguardante lo sviluppo della rete ferroviaria Ungherese nel corso dell’ottocento-novecento e delle ripercussioni che su di essa hanno avuto le varie mutilazioni territoriali seguite al trattato di Trianon. Il libro quindi, per quanto mi riguarda non si è rivelato all’altezza delle aspettative, ma ha avuto il pregio di stimolare il mio interesse riguardo al periodo storico e all’area geografica in oggetto.

giovedì 4 agosto 2011

Qualche riflessione sull’intervento italiano in Libia

Sono passati quasi cinque mesi dai primi attacchi della coalizione internazionale a seguito della risoluzione ONU n°1973 del 17 marzo 2011 e la situazione in Libia sembra ben lungi dal trovare quella rapida soluzione che era stata troppo ottimisticamente prospettata. Intanto le nostre forze armate rimangono impantanate nell’ennesimo conflitto/intervento sovranazionale che, come i precedenti (per esempio; La Somalia, L’Afghanistan, l’Iraq, il Libano, ecc.), avrebbe dovuto essere rapido e chirurgico ed invece continua a trascinarsi e anzi rischia, come già è avvenuto nei casi precedenti, di trasformarsi in un impegno a lungo termine con il possibile impiego di truppe di terra e pertanto con il conseguente rischio di vittime fra i nostri militari. Nel frattempo comunque stiamo bombardando il territorio libico e difficilmente possiamo escludere totalmente che i nostri interventi non vadano a far aumentare le vittime civili di questo ennesimo conflitto. Forse dunque bisognerebbe cominciare a chiedersi quanto sia etico, opportuno e lecito questo nostro modo di agire che è diventato ricorrente. Premetto che tutti i conflitti citati si presentano ognuno con caratteristiche differenti rispetto agli altri e pertanto non sarebbe serio fare di “ogni erba un fascio”. Per molti di essi però, almeno ex-post e nonostante il fatto che qualcuno sia ancora ben lontano dalla conclusione, si potrebbero levare parecchie critiche riguardo all’opportunità e soprattutto rispetto all’efficacia del nostro intervento. Tra l’altro poi, nel fare un bilancio effettivo secondo il nostro personale punto di vista (ovvero quello di noi italiani), bisognerebbe distinguere fra l’effettiva liceità e/o opportunità di un intervento internazionale in sé, rispetto a quanto fosse invece necessario un nostro impegno militare diretto, non siamo forse una Nazione che ripudia la guerra come modo di soluzione dei conflitti? Al di là dei richiami costituzionali e tralasciando persino i ragionamenti che possano basarsi sui cosiddetti interessi economici e strategici in gioco, eticamente come la mettiamo? Nel caso della Libia, per esempio è abbastanza arduo sostenere che il nostro si tratti semplicemente di un appoggio ad un moto popolare spontaneo di natura democratica! Certo nessuno dubita che Gheddafi sia un dittatore brutale e forse, per molti libici, anche impopolare, viene però spontaneo pensare, almeno a chi conosce un minimo del substrato culturale della Libia, che non fosse amato neanche prima e che la sua struttura di potere fosse più dovuto ad una serie di accordi fra le varie cabile (le varie famiglie/tribù libiche), che a un vero e proprio afflato di approvazione da parte dei singoli cittadini. L’attuale situazione di instabilità sembra quindi più dovuta alla rottura di consolidati equilibri politici ed economici interni che ormai si sono logorati, rispetto a quanto sia un vero segno di maturazione democratica del popolo libico. Per farla breve, se sostanzialmente le cose stessero così, noi non siamo entrati in campo per aprire la strada alla democrazia, ma stiamo semplicemente appoggiando una fazione contro un’altra. Se questo non ci preoccupa eticamente dovrebbe almeno allarmarci pragmaticamente, nessuno molla il potere volontariamente e quando il potere è conquistato da un’altra elite in maniera violenta, nascono subito altre tensioni. Noi siamo pronti ad una guerra lunga? E soprattutto, .......... ci siamo almeno scelti gli “amici” giusti?

mercoledì 3 agosto 2011

Recensione: Neuroshopping – Come e perché acquistiamo

“Neuroshopping – Come e perché acquistiamo”, di Giampiero Lugli, edizioni Apogeo, ISBN 978-88-503-3014-0.
Un lavoro interessante e, almeno per me, innovativo. Il libro, attraverso una serie di esempi pratici e studi sperimentali cerca di spiegare le possibilità di applicazione delle neuroscienze al marketing. In sintesi lo scopo è di valutare e porre in evidenza quanto alcune tipologie di metodologie diagnostiche già da qualche tempo usate in medicina, quali ad esempio la PET (Positron emitted tomography), la magneto-encefalografia o la risonanza magnetica funzionale, ecc., possano essere adattate e impiegate per sviluppare protocolli d’indagine da applicare a campioni di potenziali acquirenti. Ciò al fine di valutare oggettivamente mediante una serie di indicatori biologici (attività elettrica ed immagini cerebrale, battito cardiaco, conduttanza cutanea, ecc.) le loro risposte ad una certa tipologia di stimolazione sensoriale (visiva, olfattiva, ecc.). Le neuroscienze dunque, seppure non ne vadano esagerate le potenzialità, possono essere usate a fini sperimentali per valutare, ad esempio, l’effettiva incidenza delle valutazioni razionali rispetto a quelle emotive riguardo alle decisioni di acquisto, oppure per ottenere informazioni utili riguardo alle risposte della clientela riguardo alla calibrature di alcune delle leve fondamentali del marketing mix, quali ad esempio: la valutazione delle risposte al variare del prezzo (in assoluto o rispetto a quello di prodotti concorrenti), del packaging, delle promozioni (attuate in diverse forme), della disposizione della merce negli scaffali, dell’assortimento del punto vendita dei percorsi all’interno degli ambienti di vendita, ecc..
Le possibili applicazioni sono interessanti e promettenti, mentre per alcuni aspetti possono invece apparire un po’ inquietanti e destare qualche preoccupazione. Da una parte è accattivante la prospettiva che sottende la possibilità di ottenere informazioni maggiormente affidabili per andare incontro ai gusti dei consumatori ed anche di avere la possibilità di evitare alle aziende degli sprechi dovuti all’errata stima delle reali possibilità di gradimento e di vendita di un certo tipo di prodotto, packaging, ecc. Dall’altra non bisogna esagerare riguardo alle aspettative riguardo ai risultati e all’affidabilità di queste tecniche che non sempre producono indicazioni chiaramente interpretabili. Infine, come per ogni tipo di innovazione, bisogna, seppure nel quadro di un approccio equilibrato e razionale al problema, sorvegliare questi nuovi sviluppi per scoraggiarne eventuali abusi.
Per tornare al libro, gli unici difetti che ho riscontrato riguardano la forma, che a tratti sembra più tagliata per una tesi di laurea sperimentale che per un testo divulgativo ed anche la ripetitività di certi concetti e frasi, che ricorrono un po’ troppo nella medesima forma all’interno del testo.