mercoledì 25 febbraio 2015

Recensione: How much is enough? Money and the Good Life - "Quanto è abbastanza? Il Denaro e la Vita Buona"


“How much is enough? Money and the Good Life”, di Robert e Edward Skidelsky, edizioni Penguin Books, ISBN 978-0-241-95389-1.

Gli Autori impostano il loro saggio in conformità a una famosa previsione dell’economista John Maynard Keynes che, durante una conferenza tenuta a Madrid nel 1930 tenne un intervento sulle “Possibilità economiche per i nostri nipoti” (Economic possibilities for our Granchildren). Nel corso di questo intervento, Keynes stimava che nei futuri cento anni sarebbe più che quintuplicata la produzione di beni e servizi e che, di conseguenza sarebbe venuta meno molta della necessità di lavorare, posto che, un aumento così rilevante della ricchezza avrebbe permesso di coprire abbondantemente tutte le principali esigenze della popolazione. Di conseguenza, egli prevedeva che, sul finire del ventesimo secolo, la settimana lavorativa sarebbe stata pari a circa venti ore, il che avrebbe permesso di rivolgere molta della disponibilità di tempo libero acquisita ad attività culturali e ricreative.

Come ben sappiamo, le previsioni di Keynes si sono realizzate solo in parte, cioè riguardo alla sola componente legata allo sviluppo economico, che, effettivamente si è mossa in accordo alle stime dell’economista. Invece, la riduzione dell’orario lavorativo non si è realizzata nei termini previsti e anzi, dopo una diminuzione, comunque meno visibile rispetto a quanto stimato, sembra ora destinata a stabilizzarsi se non, persino, a invertire il suo supposto trend discendente.

Secondo gli Autori le ragioni per le quali non avviene un rallentamento dei ritmi lavorativi proporzionale all'aumento della ricchezza, sono essenzialmente socio-culturali, politiche e psicologiche. In parte dipende proprio da com’è organizzato il sistema economico che tende a “costringere” le persone a lavorare (quelle che hanno un posto di lavoro, ovviamente!) anche oltre a quanto effettivamente desidererebbero, però, forse, le cause principali vanno ricercate nella sfera personale e in quella più allargata socio-politica. Per gli Autori, con l’età moderna è proprio cambiato il modo di vedere il “lavoro” che, progressivamente si è svuotato del significato che lo vedeva come una necessità legata alla sopravvivenza e, se vogliamo come una dannazione biblica. Il lavoro è diventato spesso fine a se stesso e non più semplicemente finalizzato al soddisfacimento dei propri bisogni che, tra l’altro, crescono continuamente e artificiosamente in virtù di un meccanismo che s’incarica di creare sempre nuova “domanda” e non si limita semplicemente a soddisfare quanto è richiesto spontaneamente. Da qui nasce la domanda che è anche il tema del libro: “Quanto ti è sufficiente?” (How much is enough?), quanti beni, patrimonio, gadget deve accumulare un individuo per dichiararsi intimamente soddisfatto? Da questo interrogativo nasce l’invito a riflettere sugli obiettivi e sul significato della propria vita e, magari valutare se non valga la pena rallentare la “Corsa dei criceti” (Rat race) e a scendere dalla giostra.

Gli Autori recuperano il concetto della ricerca e della pratica della “Vita Buona” (Good Life), illustrato soprattutto da Aristotele e incorporato nella cultura cristiana (cattolica, più che altro), ma presente come precetto moralistico un po’ in tutte le società tradizionali. La Vita Buona, implica equilibrio fra lavoro, tempo libero e ricerca del “piacere”, fra individualismo e ottiche sociali, sottintende un rapporto equilibrato con l’ambiente circostante e con la natura in particolare.

La ricerca della Vita Buona, secondo gli Autori, ha dei presupposti in alcuni “Beni” fondamentali che essi elencano. La loro scelta cade su concetti allargati di: salute, sicurezza, rispetto, personalità e armonia con l’ambiente. Inoltre, riconoscendo che, l’obiettivo della Vita Buona deve essere perseguito individualmente ma, spesso, necessità del supporto culturale e imperativo dell’intera società, essi individuano anche una serie di strumenti politici ed economici che possano incoraggiare le persone in questo senso. In primo luogo, di fatto, auspicano politiche fiscali tese a ridurre l’eccessiva concentrazione di ricchezza e finalizzate a scoraggiare l’accumulo fine a se stesso di capitali e risorse, con l’idea, neanche troppo velata che, in fondo, una società armoniosa debba essere  anche sostanzialmente molto più egualitaria di quanto avvenga ora. Essi, poi, suggeriscono alcuni strumenti specifici, ad esempio, l’introduzione di politiche tese a diminuire l’orario di lavoro e a disincentivare l’allungamento della giornata lavorativa; l’aumento dei salari medi, magari a scapito delle retribuzioni eccessive; l’introduzione di rendite o sovvenzioni da distribuire “a pioggia” a tutti i cittadini e finalizzate a distribuire parte della ricchezza nazionale (come ad esempio avviene in alcuni paesi che distribuiscono ai cittadini parte delle rendite petrolifere); o ancora, maggior regolamentazione delle forme di pubblicità promozionale. Tutto ciò, anche in conformità a una visione più moralistica e paternalistica della politica e del governo e, pertanto, andando un po’ in controtendenza rispetto alla visione più individualistica ma anche più libertaria che, oggi giorno, è prevalente.

In sintesi il saggio espone una certa critica all’attuale modello capitalistico e sociale, entrambi basati su modelli consumistici e di “crescita” ad ogni costo. Esso, quindi, riprende in un’ottica più filosofica un filone di riflessione che, a parer mio, ora appare molto dibattuto.

Il suo principale difetto è di rimanere sul vago riguardo ai modi in cui, effettivamente, una società intera possa trovare l’assetto e l’accordo politico e, soprattutto, i modi e gli interventi effettivi, che permettano di interrompere o almeno rallentare la “Corsa dei criceti”.

La parte più convincente è quella che propone un modello di riflessione individuale e culturale. Lo spirito della “Vita Buona” può essere incoraggiato e diffuso proattivamente come obiettivo educativo e sociale, ma rimane pur sempre, una scelta eminentemente personale, c’è quindi un pur minimo spazio che dipende dalle scelte di ognuno e che pertanto può essere portato avanti a livello di scelta personale e nei limiti consentiti dai vincoli imposti dal “Sistema”.

mercoledì 18 febbraio 2015

Quale soluzione per la Libia?


 E’ passato molto tempo dal marzo 2011, mese in cui venne approvata la risoluzione n° 1973 dell’ONU che autorizzava l’istituzione di una “No fly zone” sulla Libia al fine di minare le possibilità di reazione del regime dittatoriale del colonnello Gheddafi. Probabilmente, anche allora, con qualche sforzo previsionale, sarebbe stato possibile intuire che, riaprire il vaso di Pandora delle mutue ostilità fra i diversi clan libici, avrebbe potuto far precipitare nel caos la situazione di quei territori. Personalmente, anche senza essere un esperto, anch’io (nell’estate del 2011) paventavo questa possibilità.

Ora, non è certo il caso di rimpiangere personaggi come Gheddafi, noto però che, dopo la breve stagione della “Primavera Araba” che avrebbe dovuto, nelle intenzioni, fare un po’ di pulizia nei diversi regimi dittatoriali mediorientali, l’Occidente si sta riallineando alla solita politica di appoggio dell’uomo forte del momento. Non si disturba più troppo Assad in Siria, si da piena fiducia ad Al Sisi in Egitto e, chissà, magari ci si prepara ad appoggiare direttamente qualche fazione libica o qualche personaggio ambiguo come l’ex generale libico Khalīfa Belqāsim Haftar, già responsabile del malriuscito golpe di inizio 2014. In questi giorni poi, in seguito all'intervento egiziano si riparla di risoluzioni ONU, soprattutto ora che in Europa e, soprattutto, in Italia si trepida per il “rischio” che l’ISIS metta piede sul suolo del Belpaese (ipotesi che trovo un po' ridicola!).
Chiaramente è assurda l’ipotesi di un’invasione dal mare e pure, è difficilmente immaginabile un attacco con altre tipologie di armi (qualcuno si ricorderà ancora del “mitico” lancio di missili SCUD verso Lampedusa del 1986 in ritorsione del bombardamento USA!), la Libia, infatti, anche quando aveva un esercito più credibile, non è mai stata in grado di porre una minaccia seria alla nostra penisola. Invece, non si possono escludere attentati da parte di cellule interne affiliate o di esaltati, ma questo rischio, non poteva essere sottovalutato neanche prima, ed è sempre presente, come possono dimostrare i recenti fatti avvenuti in Francia e Danimarca.
In pratica, lo spauracchio dell’ISIS nei nostri confronti non è credibile se non nelle forme che erano già attuabili anche il mese scorso. Detto ciò, l’intervento egiziano, un po’ come quello giordano in Siria, pone nuovamente il problema del “Che fare” rispetto a una nuova risoluzione ONU che magari autorizzi un intervento di terra.
Rispetto a questo punto, ci sarebbero più fattori da tenere in considerazione, soprattutto per l’Italia.  Noi, come ex potenza coloniale, abbiamo delle ragioni in più per tenerci fuori dalla mischia. Un nostro intervento aggressivo, che si manifesti in qualsiasi forma, sarebbe, infatti, un regalo alla propaganda filo ISIS , tanto più che il nostro regime ha lasciato brutti ricordi (alimentati dal regime di Gheddafi nel corso di tutta la sua dittatura) nelle popolazioni libiche e, soprattutto, in Cirenaica. Riguardo all’intervento di terra poi, rimane sempre il problema di chi lo debba attuare e, soprattutto, sul chi (quali fazioni) dovrebbe favorire. La Libia è un ginepraio, su quali uomini, fazioni, milizie si dovrebbe puntare per costituire un governo?
Invece, per quanto riguarda il “Chi” lo debba attuare, io personalmente ho un’idea abbastanza forte a riguardo che vale per la Libia come per la Siria e l’Iraq; queste sono vicende arabe e sono i paesi arabi che se ne devono prendere carico uscendo dall’ambiguità, troppo facile continuare a barcamenarsi fra i sogni di restaurazione delle glorie passate e le istanze di modernità nascondendosi, quando serve, dietro il dito delle (innegabili) ingerenze e dell'imperialismo occidentali. Non manderei soldati “crociati” in quelle lande con il rischio di mettere tutti d’accordo intorno al concetto di “invasore infedele”. Se la cavino fra musulmani, quindi, mettendo ordine in casa loro e alla loro maniera, oppure rimangano impantanati in un’eterna lotta fratricida che, retorica e belle parole a parte, a noi in fondo non disturba più di tanto.

giovedì 12 febbraio 2015

Recensione: Il Capitale nel XXI° Secolo


“Il Capitale nel XXI° Secolo”, titolo originale: “le Capital au XXIe siècle”, di Thomas Piketty, traduzione di Sergio Arecco, edizioni Bompiani, ISBN: 978-88-452-7773-3.
 
Il saggio di Piketty si concentra su alcuni punti essenziali riguardanti l’importanza economica, politica e sociale del ruolo del capitale.

A parer mio, l’autore ha svolto un lavoro di ricerca e di raccolta statistica notevole che permette di supportare le tesi esposte in modo convincente. Dal punto di vista dello stile di scrittura, il saggio si presenta come impegnativo (almeno rispetto al numero di pagine) ma finisce per essere abbastanza scorrevole. Soprattutto, l’Autore adotta un linguaggio divulgativo semplice e chiaro e il testo è piacevolmente inframmezzato da una serie di rappresentazioni grafiche sintetiche ed efficaci. L’insieme ha il pregio di rendere i concetti esposti accessibili e comprensibili a tutte le tipologie di lettori, ancorché relativamente “digiuni” di questioni economiche. L’unico aspetto un po’ fastidioso che caratterizza quest’opera è, a parer mio, il ripetersi di alcuni concetti di base che appesantiscono eccessivamente una narrazione che avrebbe potuto essere più concisa.
 
Le tesi di Piketty hanno lo scopo di dimostrare come esista il ragionevole sospetto che il nostro modello economico sia fortemente influenzato da fattori che tendano ad accentuare, anziché attenuare le differenze fra i redditi e fra i diversi patrimoni e che vede progressivamente aumentare il peso e il ruolo del capitale in rapporto alla produzione dell’intero reddito nazionale.

Tali affermazioni, sebbene anche intuitivamente, possano accordarsi con quanto sia possibile costatare osservando l’evoluzione degli eventi negli ultimi decenni (si pensi, ad esempio, ai “super stipendi” che caratterizzano l’alto management delle multinazionali o alle statistiche sui patrimoni dei miliardari redatta dalle riviste di “gossip”), sarebbe in contraddizione con quanto previsto più ottimisticamente dall’economista Simon Kuznets negli anni cinquanta del novecento, che prevedeva una progressiva diminuzione delle disparità nei redditi al crescere dello sviluppo economico. Le previsioni di Kuznets si sono accordate abbastanza bene con quanto è effettivamente accaduto nei principali paesi industrializzati nei primi ottant’anni del novecento; dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, infatti, i principali paesi occidentali hanno assistito per circa trent’anni sia a una lunga fase di sviluppo, sia a una riduzione delle diseguaglianze sociali, resa percepibile dalla crescita sostanziale della cosiddetta “Classe media”. Poi, però, dagli anni ottanta del novecento le diseguaglianze hanno ricominciato a crescere, sia nei paesi sviluppati, sia in quelli in corso di sviluppo.

L’aspetto importante sottolineato da Piketty è che, in un’ottica di lungo periodo che preveda tassi di crescita economica e della popolazione non particolarmente sostenuti, le diseguaglianze tenderanno a crescere in maniera strutturale poiché il tasso di rendimento del capitale è costantemente superiore al tasso di crescita media dell’economia reale. Uno scenario di questo tipo sarebbe, secondo l’Autore quello caratteristico del nostro “Lungo periodo”, caratterizzato da tassi di crescita molto lenti e solo episodicamente inframmezzato da periodi di rapida accelerazione economica. In pratica, sarebbe una pura e semplice chimera il prospettare lunghi periodi di crescita sostenuta e tali da ridurre “naturalmente” le diseguaglianze. Invece, un tipo di trend come quello di lungo periodo descritto dall’Autore, andrebbe a tutto vantaggio di chi ha a disposizione delle rendite e, soprattutto, tenderebbe a premiare la trasmissione dei patrimoni da una generazione all’altra rispetto a quanto, invece, favorisca il reddito da lavoro e il risparmio che si possa conseguire attraverso la propria attività di una vita.

Va rilevato che, normalmente è riconosciuto come le società di “rentier” o, comunque molto polarizzate rispetto al possesso della ricchezza, tendano a ingenerare contrasti e resistenze nei confronti dell’idea di “Democrazia”, qual è normalmente concepita e che, in linea di principio, si accorda con il concetto di “Classe media” e si sviluppa in conformità d’idee e ideali che mettono in risalto il merito, la mobilità sociale e le pari opportunità, contrapponendole al concetto di status ereditato per diritto di nascita.

L’Autore pensa che il periodo storico che ha visto la caduta dell’importanza della rendita del capitale dopo la “Belle Epoque” cui è seguita l’impetuosa crescita economica dei paesi occidentali dopo la seconda guerra mondiale per i successivi trent’anni (“the fabulous thirties”) sia, stata, sostanzialmente, un’eccezione alla regola dovuta alla combinazione di eventi traumatici ed eccezionali: le due guerre mondiali, intervallate dalla Grande Depressione, e la successiva lunga fase di sviluppo economico. Durante questo periodo eccezionalmente “volatile” si sono rese necessarie ampie riforme politiche e fiscali in senso redistributivo e ha preso forma l’insieme di ammortizzatori sociali che rientrano sotto il termine di “welfare”. Dalla metà degli anni ottanta del novecento, però, è cominciata, un po’ in tutti paesi sviluppati, una fase di riflusso, determinata, sia da un rallentamento della crescita, sia da una serie di riforme politiche tese a erodere in senso liberista il ruolo centrale dello Stato, i forse eccessivi disavanzi, ma anche finalizzate a ridurre il peso del welfare. Nel frattempo è cambiata anche la politica fiscale che, per una serie complessa di combinazione di fattori, ha finito per involvere in senso sostanzialmente regressivo e a tutto danno del “Ceto Medio”. Si è assistito al nascere di teorie fiscali liberiste un po’ dubbie o, quanto meno, poco intuitive, che hanno avuto un certo successo almeno durante l’ultimo ventennio del novecento, cito ad esempio quella basata sul concetto di “Trickle Down” (letteralmente “Sgocciolamento”) che ha avuto un certo successo negli USA e nel Regno Unito e che si basa(va) sul concetto che detassando i redditi più elevati si sarebbero favoriti i consumi delle classi agiate e, di conseguenza, la ripresa economica (!!!). In ogni caso, e questo già a partire dagli anni cinquanta, ci si è progressivamente allontanati dalle politiche, sicuramente in odore di populismo, ma certamente punitive nei confronti degli alti livelli di reddito (anche con aliquote fiscali superiori al 90% per certi scaglioni) e di capitale, inaugurate durante la Grande Depressione e, a volte, messe in atto al termine della seconda guerra mondiale (Piketty, ad esempio, cita il caso francese della tassa straordinaria sul capitale, escussa nell’immediato dopoguerra) con il proposito di colpire i sovra profitti, i livelli di reddito eccessivamente alti, oppure le posizioni dominanti. A ciò bisogna aggiungere che la concorrenza fra Stati, al fine di attrarre investimenti produttivi, ha notevolmente diminuito la tassazione reale sulle imprese (soprattutto se si tiene conto anche dell’effetto di contributi e incentivi) e la progressiva liberalizzazione nella circolazione dei capitali ha favorito la fuoriuscita e l’occultamento di enormi masse finanziarie sottraendole a ogni possibilità reale di imposizione equa. Aggiungiamo, infine, che le tasse di successione hanno perso anche quella poca importanza relativa che avevano assunto in passato e, soprattutto, è facile costatare come i grandi patrimoni (intestati a fondazioni, trust e società anonime …), di fatto, non vengono pressoché più toccati da esse.

Per sintetizzare, a me sembra che il cuore del messaggio dell’Autore possa essere così riassunto:

1)      Il trend di lungo periodo che caratterizza il nostro contesto macroeconomico si basa su una situazione che vede costantemente prevalere la rendita del capitale rispetto al tasso di crescita generale. Questo porta inesorabilmente a favorire l’accentramento della ricchezza e, di conseguenza, ad accrescere il potere di chi detiene il controllo dei grandi patrimoni (fondi sovrani, fondazioni, privati, ecc.).

2)      Il momento relativamente redistributivo che si è verificato durante “the fabulous thirties” è stato un’eccezione alla regola e, sulla base delle rilevazioni statistiche attuali, ci sono segnali che indicano il progressivo ristabilirsi della tendenza dominante di lungo periodo che premia i detentori di patrimoni importanti.

3)      Tale situazione è vista come potenzialmente pericolosa in funzione di un ideale democratico che, in sintesi, si basi su delle società civili orientate verso principi redistributivi e assicurativi fra gli individui e che prevedano un modello meritocratico e uno schema egualitario almeno sotto il punto di vista delle “pari opportunità”.

4)      Qualora si abbia interesse a sfavorire gli effetti del trend di lungo periodo che favorisce l’accumulo e la concentrazione del capitale, non si può far ricorso al “laissez faire” ma, al contrario, è necessario mettere in atto politiche fiscali che contrastino attivamente il fenomeno.

Se effettivamente ho interpretato correttamente il pensiero dell’Autore, ritengo di poter condividere sia le sue analisi, sia i suoi timori. Per me il saggio di Piketty andrebbe letto assolutamente.