martedì 27 dicembre 2011

Recensione: Furore

“Furore”, titolo originale: “The Grapes of Wrath”, di John Steinbeck, editrice Biblioteca di repubblica, traduzione di Carlo Coardi, ISBN: 84-8130-512-X.
Il romanzo descrive le vicissitudini della famiglia Joad, famiglia contadina del Midwest costretta ad emigrare in California a seguito dei cambiamenti economici e sociali prodotti dalla Grande Depressione. Ho riletto il libro subito dopo aver svolto qualche ricerca e dopo la lettura di qualche saggio su quel periodo storico e forse, proprio per questo, ho veramente apprezzato l’opera di Steinbeck, la quale, a mio avviso, si merita pienamente di essere inclusa fra i capolavori della letteratura del novecento.
Il libro descrive in maniera drammatica gli avvenimenti e la situazione di quegli anni partendo dal fenomeno delle “Dust Bowls”, le tempeste di polvere che si abbatterono sulle Grandi Pianure a seguito di una nefasta alternanza di periodi di siccità e di alluvioni, uniti agli effetti delle cattive tecniche agricole e alla scarsa rotazione delle culture. Questi fenomeni, ai quali si sommarono quelli economici, principalmente legati alla caduta dei prezzi agricoli, alla meccanizzazione dell’agricoltura e all’espropriazione dei terreni delle famiglie indebitate, produssero un esodo di massa di proporzioni bibliche verso altre zone degli Usa ritenute, spesso a torto, più prospere, come ad esempio la California.
La lettura suscita emozioni e sensazioni forti; difficilmente si sfugge alla commozione di fronte ai tanti disagi, ma anche di fronte alla forza, alla generosità e alla solidarietà dei protagonisti, mentre forte è l’indignazione per le ingiustizie che devono subire questi soggetti, un tempo liberi, e ora ridotti alla condizione di nomadi migranti; impossibile non riflettere sulle tensioni sociali createsi a seguito di questi eventi e sui conseguenti atti di razzismo causati da questa immensa diaspora; oppure non odiare gli effetti della speculazione finanziaria o dei grandi latifondisti e dell’industria conserviera. Ma è soprattutto la descrizione del clima politico liberticida a colpire di più: i soprusi e le provocazioni della polizia locale collusa con i latifondisti, ai quali peraltro, si oppone invece una politica molto più accondiscendente, umanitaria e preveggente delle autorità federali, diretta conseguenza dei tentativi di Hoover e poi di Roosevelt di attenuare gli effetti della crisi, le quali però non riescono a evitare lo squadrismo contro i migranti e gli atti d’intimidazione e di violenza dei locali che spesso si spingono fino all’omicidio pur di stroncare sul nascere la spontanea inclinazione dei braccianti a organizzare qualche forma di sciopero o di rappresentanza sindacale per mantenere le paghe almeno al livello di sussistenza. Altro aspetto impressionante è l’assillo economico che spinge proprio i più poveri a una feroce competizione al ribasso per un posto di lavoro pur di garantire a se stessi e alle proprie famiglie una minima chance di sopravvivenza. E’ questo il mito americano viene da chiedersi? Ma la potenza di questo libro portentoso non finisce lì perché, con le dovute astrazioni, trasposizioni e differenze ci si accorge che il tema trattato dall’Autore è costante nella storia e attualissimo ai nostri giorni e non risparmia neppure il nostro Paese.

giovedì 15 dicembre 2011

Recensione: L’uomo dimenticato – Una nuova storia della Grande Depressione

“L’uomo dimenticato – Una nuova storia della Grande Depressione”, titolo originale: “The Forgotten man. A new history of the Great Depression”, di Amity Shlaes, editrice Feltrinelli, traduzione di Giancarlo Carlotti, ISBN: 978-88-07-11111-2.
Si tratta di una rivisitazione in chiave critica del New Deal. L’Autore cerca di smitizzare la vera portata della politica economica e sociale intrapresa dal presidente Roosevelt durante tutti gli anni trenta e si spinge a insinuare che anzi, alcuni provvedimenti e il clima creato possano in realtà aver fatto da zavorra a una ripresa più rapida. Il titolo, “L’uomo dimenticato”, s’ispira a una definizione dell’accademico e studioso poliedrico William Graham Sumner (1840-1910) che, riguardo alle sue idee sull’economia fu sostenitore del laissez-faire, del libero commercio e avversario del socialismo e dell’intervento statale. Per Sumner, l’uomo dimenticato è “ ……. L’uomo a cui non si pensa mai …….. Lavora, vota, di solito prega, ma sempre paga …….”, si tratta quindi dell’uomo comune, medio, il tipico alacre ed affidabile “Signor nessuno”, che non appartiene a nessun gruppo di pressione e non è neppure rimarchevole in quanto portatore di un qualche particolare ed evidente bisogno sociale, quello chiamato attraverso il sistema fiscale a finanziare sempre le varie iniziative politiche ed economiche che, per lo più sembrano andare soprattutto a beneficio di “Altri”. Nel 1932, la definizione dell’”Uomo dimenticato” fu modificata a fini propagandistici per un discorso di Roosevelt, nel quale l’aspirante presidente asseriva di volersi interessare “… dell’uomo dimenticato, al fondo della piramide economica …” e da lì mutò completamente di significato andando a indicare l’indigente, colui al quale sarebbero stati indirizzati i programmi di aiuti governativi. Tornando alla Grande Depressione, il libro cerca di riportare più chiaramente il quadro complessivo dell’epoca; la bolla speculativa del ventinove esplose dopo un periodo di forte crescita e sviluppo avvenuti nel solco del liberismo classico, ma che sarebbe stato anche influenzato dai mutamenti organizzativi e sociali resisi necessari durante la prima guerra mondiale. La crisi fu particolarmente acuta anche a causa dei vincoli creati alla politica economica e monetaria dal sistema del gold standard, che Roosevelt cercò in qualche modo di mettere in discussione e dall’inasprirsi delle tariffe protezionistiche, che furono invece incrementate con effetti disastrosi propri come effetto della politica economica non proprio lineare del presidente americano.
Molto interessante sono le considerazioni riportate dall’Autore riguardo al quadro politico, sociale, economico ed internazionale che portarono al New Deal, il quale, è bene ricordare, fu fortemente influenzato non solo dal contesto interno, ma anche dalle esperienze politiche europee che, proprio nello stesso periodo, sembravano evidenziare un maggior successo degli esperimenti di pianificazione della giovane rivoluzione sovietica e dei governi di ispirazione fascista e nazionalsocialista, rispetto a quanto invece riuscivano a proporre i governi delle democrazie europee, le quali, per loro conto erano anch’esse fortemente influenzate dalle influenze keynesiane legate al concetto di deficit spending. In questo insieme di fattori vanno ricercate le giustificazioni di alcune scelte fortemente autoritarie fatte da Roosevelt, le quali ex-post appaiono, se non sempre giustificabili, almeno comprensibili; ad esempio: la sua visione negativa del gigantismo industriale, l’avversione per il sistema delle holdings, la preferenza per un controllo pubblico delle utilities (l’energia elettrica in particolare!), la legislazione fiscale particolarmente punitiva nei confronti delle imprese e degli imprenditori, una certa tendenza verso forme di corporativismo, il rafforzamento del potere sindacale, ma nel contempo, il tentativo di controllarne il movimento politicamente, la propensione al rafforzamento del controllo federale a discapito delle autonomie dei singoli stati dell’unione, la lotta ai “Profittatori” portata, in alcuni casi, ai limiti della persecuzione ed infine, gli esperimenti di collettivizzazione agricola.
Alla fine, a mio avviso, ne viene fuori decisamente un bel libro ed un rapporto del fenomeno che ritengo equilibrato e che, senza denigrare, in parte smitizza la vera portata del New Deal.
Come ulteriore apporto personale, la lettura di “L’Uomo dimenticato” è stata determinante nella decisione di riprendere in mano un libro che avevo ormai dimenticato negli scafali: “Furore”, il capolavoro di John Steinbeck che, collocato in un contesto che finalmente sono in grado di comprendere, mi sta dando grandissime soddisfazioni.

lunedì 12 dicembre 2011

Decreto Salva Italia n°5: Sviluppo, liberalizzazioni, tagli e conclusioni

Non è facile dare un giudizio finale sulla manovra, non sono, infatti, personalmente in grado di valutare a pieno il peso di tutti gli interventi che, oltre a quelli esaminati precedentemente prevedono anche una serie di incentivi alle imprese, quali ad esempio: la defiscalizzazione da IRES e IRPEF della componente IRAP relativa alle spese relative al lavoro dipendente e gli sgravi alla stessa imposta per le assunzioni a tempo indeterminato di personale sotto i 35 anni di età, oppure l’ACE (aiuto alla crescita economica), che permette la detrazione dal reddito imponibile di impresa il rendimento nozionale del nuovo capitale proprio (se non erro fissato al 3% per i primi tre anni!). Vi sono poi interventi di liberalizzazione che riguardano gli orari dei negozi, la vendita dei farmaci e gli ordini professionali, nonché tagli dei costi, a cominciare da quelli della “Politica”: limitazione dei consigli provinciali, eliminazione delle giunte, riduzione del numero di componenti delle authorities, ecc.; o che prevedono la soppressione. l’accorpamento o la razionalizzazione di enti quali: INPDAP , fondo previdenziale dei dipendenti pubblici e il ENPALS, fondo di previdenza per i lavoratori dello spettacolo, i quali confluiscono entrambi nell’INPS; oppure l’ EIPLI, l’ente, per me misterioso, per lo sviluppo dell’irrigazione e la trasformazione fondiaria in Puglia e Lucania che viene posto in liquidazione, oppure ancora i vari consorzi di gestione e regolazione dei laghi e dei relativi bacini acquiferi che confluiscono nel Consorzio nazionale per i grandi laghi prealpini; ed altre misure ancora.
Alla fine, complessivamente a me sembra una buona manovra, almeno rispetto agli standard ai quali eravamo abituati, risulta, però sostanzialmente una “Ricetta” di tipo classico basata principalmente sull’aumento delle imposte e in questo, a me pare, viene un po' svelato l’imprinting del suo ideatore, sulla serietà del quale mi sentirei di scommettere, ma dal quale non mio aspetto ne soluzioni sostanzialmente nuove che escano dal solco del liberismo, ne scelte coraggiose dal punto di vista sociale. A mio parere, il provvedimento appare carente riguardo all’aspetto dell’equità e alla fine, fra aumenti d’imposte regressivi quali l’IVA e le accise, l’istituzione dell’IMU e la mancata sterilizzazione delle imposte sulla casa per i redditi più bassi, mi aspetto che insorgano difficoltà proprio per quei contribuenti che dovrebbero invece essere maggiormente tutelati. Altro aspetto deludente è quello relativo alla lotta all’evasione; permettere la detrazione di parte dei costi per scovare coloro che, nel nostro immaginario, vengono sempre percepiti come possibili evasori non piace ai nostri politici a prescindere dal loro back ground formativo e culturale. Mi piacerebbe proprio sapere il perché di tanta prudenza riguardo a questo genere di interventi, tanto più che ciò che è stato fatto in passato per le ristrutturazioni edilizie e, fortunatamente riconfermato nella manovra, non sembra aver prodotto risultati insignificanti. Spero che tanta ritrosia non dipenda dal fatto che molti di loro appartengono proprio a quelle categorie potenzialmente indiziate. Per finire, mi permetto un consiglio. Se si riuscirà a fare qualcosa lato tagli degli sprechi e riguardo alla riduzione dei privilegi della casta, questo sarà nell’ambito della presentazione di questa manovra, di fronte alla quale, io sono convinto, la nostra classe politica dovrà fare buon viso di fronte agli occhi della nazione, pertanto, il mio suggerimento è di colpire adesso perché, a breve, non ci sarà una seconda occasione.

Pogrom!

Ieri avevo fra le mani un libro dello storico Niall Ferguson: ”XX Secolo, l’Età della Violenza”, nelle prime cento pagine l’Autore sviluppa la sua tesi e pone come uno dei problemi alla base della violenza moderna il “Meme” della “Razza”. Secondo il biologo Richard Dawkins i memi sono, nel mondo delle idee, gli equivalenti dei “Geni” in ambito biologico. Niall Ferguson spiega come il concetto di razza sia relativamente moderno nella storia e che esso cominci a farsi strada nella cultura umana sostanzialmente solo a partire dalla fine del quattordicesimo secolo, radicandosi in Occidente al crescere del successo della cultura occidentale e legato a processi complessi, quali ad esempio quelli che supportarono la formazione degli stati nazionali basati, anche, sul principio di omogeneità culturale e, più pericolosamente, di purezza etnica. L’Autore si sofferma sul fenomeno dei Pogrom, fenomeno che, sotto molti nomi e forme interessò soprattutto la Russia di fine ottocento - inizi novecento, ma anche buona parte dell’Europa continentale e che furono rivolti soprattutto contro gli ebrei, ma più generalmente contro le minoranze etniche. Sappiamo tutti a cosa portarono questi fenomeni di razzismo che, a partire dal massacro degli armeni, per passare a quello degli ebrei, fino alle recenti guerre civili jugoslave continuano a mostrare la potenza pervasiva e distruttiva del meme della razza. In questo contesto, gli zingari rimangono costantemente una delle popolazioni più colpite da questi episodi ed è inquietante constatare che essi siano vittime di pogrom anche oggi, come è avvenuto recentemente a Torino, la mia città. Lo schema di quanto successo è semplice, ripetitivo e sconcertante: gli zingari vengono accusati di un fatto particolarmente increscioso (in questo caso, di uno stupro di una ragazza poi rivelatosi completamente inventato), che va a “Colmare la misura” di tanti episodi di microcriminalità da essi compiuti o ad essi comunque attribuiti, a questo punto, si scatena la violenza cieca ed indiscriminata, il pogrom appunto. Visti i fatti, è interessante chiedersi se, qualora fossimo stati personalmente coinvolti, ci saremmo trovati nella condizione psicologica di partecipare all’esplosione di violenza anche noi, oppure ancora sarebbe opportuno riflettere se quantomeno, ci sentiamo istintivamente portati a minimizzare o a giustificare l’accaduto. Temo che, se ci trovassimo in una qualsiasi di queste condizioni mentali, dovremmo francamente ammettere di essere razzisti, almeno nel senso tecnico del termine. Il brutto del razzismo è che, a parer mio, si tratta di un sentimento istintivo e di un riflesso semi-automatico che, probabilmente, abitualmente rifiutiamo ma che in realtà è radicato in noi e che dominiamo a stento. Questa inclinazione può venire superata solo attraverso l’esercizio della ragione e il costante riferimento all’etica della Giustizia, che rimangono gli unici appigli per affrontare correttamente certe tipologie di situazioni.

sabato 10 dicembre 2011

Decreto Salva Italia n°4: Il testo del decreto

Chi fosse interessato al testo completo del decreto, può seguire il link seguente:
http://www.scribd.com/doc/75322034/Decreto-Salva-Italia-20111206 che contiene il testo PDF reperibile sul sito di LA REPUBBLICA

oppure seguire il seguente link http://www.repubblica.it/economia/2011/12/06/news/decreto_salva_italia_ecco_il_testo_completo-26170951/

venerdì 9 dicembre 2011

Decreto Salva Italia n°3: Tassazione ed imposte

Riguardo a quest’aspetto la manovra è composita e tradisce le sue diverse esigenze che vanno dalla necessità di fare immediatamente cassa, alla volontà di colpire qualche privilegio e di accontentare l’opinione pubblica con taluni interventi alla: ”Anche i ricchi piangono”.
Personalmente sono abbastanza contrario all’aumento dell’IVA, infatti, sono convinto che questo tipo di imposta “comoda” sia regressiva per definizione colpendo indistintamente tutti i consumatori, inoltre impatta su coloro che non la possono evadere lasciando invece immuni i “soliti noti”, tende a deprimere i consumi e, soprattutto, crea inflazione, fenomeno quanto più da scoraggiare soprattutto nel momento in cui si introducono freni alla rivalutazione delle pensioni e non si è in un clima favorevole all’aumento dei salari e degli stipendi. Si sa che l’aumento dell’IVA è sempre legato all’immediata necessità di fare cassa, ed infatti, è stata la via seguita anche dall’ultimo governo Berlusconi, spero quindi che la partenza scaglionata nel tempo della manovra d’aumento (entrerà in vigore nell’autunno 2012) nasconda il vero proposito di eliminarla nel corso delle discussioni relative alla finanziaria 2013 e mi auguro che, nel contempo, tale provvedimento venga sostituito da un ampio programma di lotta all’evasione fiscale che passi attraverso uno schema di maggior detraibilità di certe tipologie di costi e magari, paradossalmente, da una diminuzione dell’IVA anziché da un aumento.
Sono invece molto favorevole alle stangate su auto di lusso, aerei privati e barche, che forse non peseranno molto in termini di ricavi, ma che finalmente vanno a toccare direttamente i portafogli di chi effettivamente dovrebbe essere chiamato a contribuire di più. In particolare, proprio la reintroduzione della tassa sui posti barca mi lascia particolarmente soddisfatto perché fu vergognosamente abolita dal passato governo di centro-sinistra, dagli evidentemente interessati, nostri “compagni” velisti! Certo la tassa può avere anche effetti negativi, magari distogliendo parte del naviglio dai porti italiani a quelli esteri (Francia e Croazia), ma pazienza, personalmente non sentirò la mancanza di certi tipi di turisti.
L’aumento delle accise sulla benzina mi sembra invece un provvedimento da governicchio della prima repubblica che però, tutto sommato, mi appare giustificabile di fronte alle impellenti esigenze di cassa della pubblica amministrazione. Si tratta di nuovo di un’imposta regressiva e inflattiva, la cui funzione positiva, alla lunga, mi auguro, sarà almeno quella di spostare maggiormente verso un parco veicoli a metano riducendo così l’inquinamento, è chiaro però che, in questo caso, mi sto proprio sforzando di vedere il “bicchiere mezzo pieno”.
Sono invece molto favorevole alla tassazione aggiuntiva dei capitali rientrati grazie allo scudo fiscale. In questo caso ho però due perplessità: la prima riguarda l’entità dell’imposta che, a mio avviso, avrebbe dovuto essere più rilevante, la seconda è invece di natura opposta (e forse giustifica l’aliquota relativamente bassa!), non sono, infatti, certo che questa iniziativa, un po’ paradossalmente, non sia impugnabile dagli ex evasori in quanto avente un effetto sostanzialmente retroattivo.
Vedo poi positivamente l’aumento della tassazione sulle buone uscite milionarie, che non fa altro poi che innalzare la tassazione di tali emolumenti al livello dell’aliquota marginale più alta per quei soggetti che già di per se non si possono certo definire dei poveracci (ad esempio si pensi ai 40 milioni di euro di Alessandro Profumo, ex-ad Unicredit) e che per giunta, in certi casi, non sembrerebbero proprio essersi meritati ne l’alta carica ne il trattamento economico relativo (il riferimento è senza dubbio indirizzato all’ex presidente di Finmeccanica Guarguaglini!).
Infine, positivo è anche il giudizio sulla “piccola” patrimoniale sui titoli che non solo va nella direzione già auspicata, di uno spostamento fra tassazione IRPEF e IRES a favore di un maggior carico patrimoniale, ma anche perché porta a dei correttivi della manovra di luglio-agosto includendo nel plafond assoggettato alcune tipologie di strumenti finanziari prima esentati (i fondi di investimento soprattutto) e spostando il calcolo della tassazione ad una base di calcolo più equa che è quella effettuata a partire dai valori di mercato degli assets, rispetto alla precedente effettuata sui valori nominali.

giovedì 8 dicembre 2011

Decreto Salva Italia n°2: Nuova ICI e tasse patrimoniali

Sono favorevole a un progressivo spostamento dell’imposizione dalle tasse sul reddito delle persone fisiche e sul reddito d’impresa ad una basata più sul patrimonio. Per questo motivo ritengo accettabile che ci si sia orientati verso una nuova versione dell’ICI (l’IMU) e pertanto, in linea di principio, sono favorevole all’operato del Governo, vi sono però alcuni punti che mi lasciano dubbioso e che mi appaiono migliorabili.
Ad esempio, mi lascia perplesso il rialzo generalizzato delle rendite catastali del sessanta per cento. Da una parte, infatti, è vero che le stime erano basse e non erano state riviste da moltissimi anni, dall’altra, forse si sarebbe dovuto procedere attraverso una valutazione più seria degli incrementi da applicare e maggiormente correlata alle varie realtà territoriali nonché ad una più generale revisione e riclassificazione dei catasti. In sintesi, ritengo che l’aliquota sia stata fissata un po’ a casaccio, più per ovviare alla fretta e alle esigenze di cassa, che per perseguire un genuino riordino dei patrimoni edilizi e fondiari.
Mi sembra poi che emergano anche delle problematiche legate all’equità, infatti, è noto a tutti che in Italia il possesso dell’abitazione principale è largamente diffuso anche fra le famiglie con i redditi più bassi, le quali rischiano di trovarsi in difficoltà a causa della reintroduzione del tributo e del contestuale aumento delle rendite catastali. A fronte di ciò è stata introdotta una generale detrazione di 200 euro che può solo attenuare e non risolvere il problema. A questo proposito, a me sembra interessante la proposta del terzo polo che invita a predisporre una detrazione che tenga conto anche del numero di componenti del nucleo famigliare.
Riguardo all’ICI rimane comunque da affrontare il tema scottante e di principio (ma anche di sostanza, posto che si parla di cifre fra i settecento milioni e il miliardo di euro!) che prevede l’esenzione per i beni della Chiesa, fatti salvi, ovviamente, gli edifici adibiti al culto. A me sembrerebbe opportuno di approfittare delle stesse aperture della Cei e porre fine a questo ingiusto privilegio, peraltro, in molti casi, lesivo della concorrenza, tanto più che i maggiori introiti permetterebbero, a parità di impatto della manovra, sgravi più significativi a favore dei redditi più bassi.

Decreto Salva Italia n°1: Riforma del sistema pensionistico

Riguardo alla riforma delle pensioni, io sono sostanzialmente d’accordo con quanto previsto dal decreto. Certo non è una bella notizia, il sapere che si andrà in pensione più tardi, ma dall’altra parte, per me valgono di più altre considerazioni. Continuo a vedere con scetticismo il mio stesso futuro come pensionato, in base alle nuove tabelle dovrei andare in pensione fra il 2032 e il 2033, per quella data possono succedere moltissime cose e passare innumerevoli altri provvedimenti. Semmai, quello che mi preoccupa veramente è quello che mi potrebbe succedere qualora, magari in età un po’ più matura, perdessi il lavoro e fossi ancora lontano dall’età pensionabile. Questo mi sembra un rischio reale cui vanno incontro le persone a partire da un’età di circa cinquant’anni. La domanda quindi non è tanto quando andrò in pensione, quanto se riuscirò a mantenermi un posto di lavoro fino al conseguimento del diritto a fruirla.
Lasciando perdere l’età di pensionamento che comunque mi appare come un traguardo chimerico e tornando al decreto, segnalo, fra i fatti positivi il passaggio immediato al sistema contributivo per tutti.
Venendo invece ai difetti e alle mancanze, penso che il sistema di rivalutazione dovrebbe continuare a persistere anche per le pensioni superiori ai mille euro. In effetti, mi sembra ragionevole quanto proposto dalla Commissione lavoro di Montecitorio che richiede di mantenere l’indicizzazione fino ai 1400 euro. Per quanto riguarda la copertura di tale provvedimento bisognerebbe, come per altro si parla, rifarsi sulle pensioni di maggiore entità. Rispetto a questo punto comunque sarei stato più severo, infatti, non sono completamente favorevole alla tesi dell’intangibilità dei cosiddetti “privilegi acquisiti”, soprattutto quando questi siano stati ottenuti attraverso un sistema ormai riconosciuto come iniquo e che per giunta, per stare in piedi necessita dell’apporto dei miei contributi presenti. Bisognerebbe avere dunque il coraggio di tagliare da subito le cosiddette “pensioni d’oro” e fissare un tetto massimo ragionevole per l’assegno delle pensioni. A questi tagli andrebbero aggiunti, quantomeno a titolo di esempio, interventi più sostanziali per ridurre i privilegi previdenziali dei politici.

lunedì 5 dicembre 2011

Odio i lunedì ....... anzi no!

Di solito odio i lunedì, ci sono però delle eccezioni!
Apro il giornale con il solito misto di svogliatezza e rassegnazione ma scopro invece che abbiamo un Governo serio! Mirabile novità! Dovrei rammaricarmi, perché è tutto uno sciorinare di lacrime e sangue e un tintinnare di denari che scorrono dalle mie tasche a quelle del fisco, invece sono entusiasta. Mi scopro d'accordo con la manovra, con il percorso ed i sacrifici da fare e già storco il naso leggendo di mugugni in territorio sindacale o provenienti da qualche ringalluzzito rifondarol-comunista (esistono ancora!). Ottimo, il mondo torna alla "mia" normalità: La sinistra a sinistra, papisti e conservatori a destra, laici e liberali al centro a far quadrare i conti. Sento che la cattività babilonese al quale mi ha condannato il nostro ex premier sta per finire e questo basta a rallegrarmi ...... chissà che non (ri)nasca un "quarto polo"?!

giovedì 1 dicembre 2011

Asta titoli di Stato: Riflessioni sul rifinanziamento del debito pubblico

Secondo le stime che si leggono sui quotidiani, nel corso del 2012 andrà in scadenza una percentuale vicino al 25% del debito pubblico italiano (circa 400 miliardi di euro), tale importo andrà ovviamente rifinanziato in qualche modo e, secondo le prassi attualmente in vigore, bisognerà farlo ai tassi di interesse richiesti dal mercato. L’ultima asta di titoli di Stato avvenuta lunedì 28 novembre è stata un grandissimo successo ed ha visto il collocamento di 7,5 miliardi di titolo ad un tasso del 7,56% per i BTP aventi scadenza nel 2020, con circa 400 punti di spread rispetto ai paragonabili Bund tedeschi. C’è da rallegrarsi? Non troppo secondo me! Certo, la buona notizia è che gli investitori si sono presentati numerosi all’appello, segno che in fondo, la situazione italiana non è considerata irrimediabilmente irrecuperabile; pensando però ad un ottica più a largo respiro bisognerebbe chiedersi quali saranno le conseguenze sul bilancio statale qualora saremo costretti, come sembra prefigurarsi, a finanziare una consistente fetta del debito a questi tassi o a livelli ancora più alti. Di fronte a vincoli futuri sempre più stringenti riguardo al pareggio di bilancio, ciò non può che tradursi in misure che probabilmente prevedranno un mix di ulteriori imposizioni fiscali, consistenti riduzioni del welfare e alienazioni patrimoni. Unico aspetto positivo in questo scenario è la, questa volta fattibile opera di razionalizzazione dei costi e degli sprechi che può essere attuata dal nuovo governo in carica, il quale, per una volta e quantomeno sulla carta, si presenta finalmente composto da personaggi credibili e competenti. Tornando al problema dell’alto costo del finanziamento del debito mi chiedo però se, oltre al ricorso al mercato, non si potrebbero mettere in atto delle procedure straordinarie per attenuarne sostanzialmente il costo della provvista. Questo anche e proprio allo scopo di raffreddare con qualche messaggio autorevole anche le pretese dello stesso mercato, che deve essere reso conscio del fatto o anche della mera possibilità che, di fronte a regole troppe rigide o a carichi inaccettabili, uno Stato sovrano possa avere il diritto di modificare o di sospendere tali regole. Penso a misure drastiche come potrebbe essere ad esempio l’assoggettamento di soggetti pubblici e privati a prestiti forzosi, la conversione obbligatoria dei fondi recuperati dall’evasione fiscale o l’imposizione a banche, assicurazioni e fondi previdenziali di certi obblighi e vincoli riguardo alla composizione dei loro attivi imponendo l’accoglimento di un certo quantitativo di obbligazioni a tassi sostanzialmente inferiori a quelli richiesti dal mercato. La misura sarebbe certamente di tipo autoritario e senza dubbio contraria alle regole liberiste, ma trasmetterebbe anche un messaggio chiarissimo, che sicuramente non passerebbe inosservato.

mercoledì 30 novembre 2011

Recensione: Lettere dalla Terra

“Lettere dalla Terra”, titolo originale: “Letters from the Earth”, di Samuel Langhorne Clemens, in arte Mark Twain,traduzione di Alessandra Goti, editrice Piano B, ISBN: 978-88-96665-36-7.
Oggi 30 novembre (nel 1835) nasceva Samuel Langhorne Clemens, in arte Mark Twain, mi sembra quindi un momento quanto mai opportuno per parlare di questa sua opera uscita postuma nel 1962. Mark Twain morì nel 1910 e fu per precisa volontà della famiglia che questo piccolo libro ironico e virulento non venne pubblicato. Il testo è una fortissima critica alle religioni e in particolare al Cristianesimo. La breve storia si svolge attraverso una serie di undici lettere scritte dall’arcangelo Satana al “collega” Gabriele. Questi, esiliato sulla Terra per un giorno “Celeste” (pari a mille nostri anni) a causa della propria incontenibile ironia nei confronti dell’opera del Creatore, redige in tono irridente, ma anche sconcertato, una serie di resoconti sulle abitudini religiose dell’animale “Uomo”. Ne viene fuori un violentissimo attacco contro le religioni, a parer mio, a tratti, anche un tantino eccessivo, che però trova motivazione da quella che sembra una contraddizione inestricabile far la presunta bontà divina e il male che esiste sulla Terra.

venerdì 25 novembre 2011

Recensione: Avrei voluto essere padre

“Avrei voluto essere padre”, di Laura Marinaro, editrice Nuovi Autori, ISBN: 978-88-7568-607-9.
Gli ormai frequenti casi di separazione e divorzio hanno fatto emergere una serie di problemi che solo adesso cominciano ad assumere una certa visibilità presso l’opinione pubblica. Un aspetto particolarmente penoso è quello legato alle serie limitazioni, con conseguente lesione dei diritti di una delle parti in causa, che possono essere poste in essere da uno dei due ex-coniugi quando uno di essi, l’affidatario di fatto o di diritto, impedisca all’altro genitore la frequentazione dei figli anche in quei casi dove gli accordi e le sentenze ne riconoscano pienamente il diritto. I’opera s’interessa del fenomeno privilegiando il punto di vista dei padri in quanto, in questo caso, sono mediamente proprio loro la parte lesa a causa di una certa prassi sviluppatasi nella giurisprudenza italiana che vede favorire l’affidamento dei figli alle madri. Il libro riporta una serie di casi romanzati ma riferibili a episodi reali e nasce dall’esperienza diretta maturata dall’Autore presso una delle associazioni che si occupa di queste tipologie di problemi.
Venendo alle mie impressioni, non mi è facile prendere una posizione chiara su questo tipo di lavori perché di solito non leggo questo genere di libri. Per quanto mi riguarda, infatti, magari volendo un po' semplificare, ritengo che la passione per la lettura tragga origine da due generi di motivazioni: io leggo saggi per il piacere di apprendere, mentre penso che un buon romanzo sia tale perché trasmette emozioni. Un romanzo che “prende” crea un’atmosfera che ci permette di immedesimarsi nelle situazioni descritte: si riproducono gli stessi stimoli visivi, si percepiscono gli stessi odori e soprattutto, si prova una dose, in certi casi fortunatamente solo omeopatica, delle passioni che pervadono i protagonisti. Seguendo questa definizione indubbiamente dovrei ritenere di aver incontrato un’opera riuscita; ma ecco il problema a maneggiare questo “piccolo” libro (in termini di numero di pagine) che tratta però temi assai seri e forse proprio perché a me noti, volutamente esorcizzati. Esso piacerà a chi vuole provare emozioni forti, a chi piace indignarsi, a chi attraverso certe situazioni ci è passato o ne ha avuto esperienza; potrebbe invece risultare inopportunamente coinvolgente per quelli che vedono il problema, capiscono il dramma, ma che non hanno soluzioni da proporre; per questi ultimi la lettura emozionale di certe situazioni non può che lasciare insoddisfatti di fronte alla propria sensazione di impotenza.

giovedì 24 novembre 2011

Asta flop per i Bund tedeschi – Mal comune ......

L’ultima asta di titoli di stato tedeschi è stata un mezzo fallimento. Dei sei miliardi offerti ne sono stati raccolti solo poco più della metà (3,8) e nel frattempo è schizzato in alto il rendimento. Anche per il paese leader del blocco europeo, fino ad ora in cattedra nel suo ruolo di moralizzatore nei confronti degli altri membri dell’Unione è arrivato un chiaro segnale da parte degli investitori che cominciano a non percepire più i bund tedeschi come un bene rifugio di provata fiducia. Vista dall’Italia questa non è, in fondo, una cattiva notizia perché rende finalmente evidente anche ai tedeschi la natura del problema che l’Europa si trova a fronteggiare, il quale, non riguarda solo o principalmente le difficoltà di armonizzazione fra aree diversamente sviluppate dell’Unione, oppure la necessità, per altro evidente, di ricondurre un certo numero di governi nazionali ad una gestione maggiormente virtuosa e sensata del livello del debito e della spesa pubblica, ma che, in sintesi, presuppone il ripensamento profondo del significato politico ed economico della UE attraverso la ricerca di un modello socio-economico e politico condiviso a livello trans-nazionale. Sembra, infatti, sempre più difficile mantenere coesa l’area dell’euro attraverso l’istituzione della Bei e l’approccio monetario, mentre cresce parimenti l’esigenza di impostare una politica industriale e di sviluppo su scala continentale, obiettivo che, insieme con quello del contenimento e della razionalizzazione dei costi, presuppone anche e soprattutto una maggiore integrazione della politica e degli organi istituzionali. Sembra, dunque, che l’Unione Europea si stia approssimando a un bivio e, secondo me, noi saremo presto chiamati a scegliere se rilanciarne il progetto rinunciando ad una sostanziale componente delle nostre sovranità nazionali o sancirne il fallimento.

sabato 19 novembre 2011

Recensione: Agostino - Le Confessioni

“Agostino – Le Confessioni”, di Agostino d’ippona (Aurelius Augustinus Hipponensis), a cura di Maria Bettetini, traduzione di Carlo Carena, edizioni Einaudi, ISBN: 978-88-06-17561-0.
Le Confessioni, scritte intorno al 400 d.C., sono una delle opere principali di sant’Agostino (354 d.C.- 430 d.C.), vescovo d’Ippona dottore della Chiesa, teologo, filosofo e grande pensatore. L’edizione, seppure di formato economico, è fornita di testo a fronte in latino, di un’introduzione chiara e d’indispensabili note che ho trovato esaustive, ma che hanno il difetto di essere state poste in fondo al libro anziché a piè pagina, rendendone così un poco scomoda la continua e indispensabile consultazione.
L’opera si presenta strutturata in tredici libri (capitoli) nei quali l’Autore racconta la propria conversione al cristianesimo riassumendo nel frattempo la propria vita e inframmezzando profonde riflessioni di natura filosofica, teologica e, aggiungerei, scientifica. Il testo si presenta in forma di dialogo, supplica, preghiera e persino poesia indirizzati direttamente a Dio. La forma è impressionante, ricercata ed elegante, anche per quelli come me che non sono in grado di seguire il testo in latino, a dimostrazione e monumento all’abilità di retore dell’Autore.
Personalmente quest’opera mi ha prodotto una grandissima impressione e non nascondo che su di essa il mio giudizio rimane sospeso. La forma mi ha colpito, nonostante già sapessi che il testo si svolgeva in forma vocativa e non di dissertazione. La lettura mi ha prodotto ammirazione, disagio e, a tratti, genuina insofferenza verso una nenia che sembrava non avere mai fine. Riguardo ai contenuti, il mio giudizio risulta estremamente sfaccettato e frammentato; per alcuni versi sono profondamente deluso, pensavo, infatti, che avrei avuto la possibilità di acquisire maggiori informazioni sulla religione, sul cristianesimo, o meglio, sul cattolicesimo, sulla figura di Dio, sul problema del Male e sulle eresie che hanno dilaniato la cristianità, ma sento che il risultato è stato ben scarso e quel poco che ho ottenuto (forse la causa è la mia profonda ignoranza!), l’ho tratto e lo devo alle belle note a fine libro senza le quali, ammetto, avrei capito veramente poco o forse niente! Dall’altra parte, mi è rimasta la convinzione che Agostino fosse veramente un genio, un grande filosofo ed un profondo pensatore, ne da prova, secondo me, soprattutto negli ultimi tre libri (e lo dico perché ho rischiato di non leggerli!). In particolare sono rimasto sbalordito dall’undicesimo libro in cui viene affrontato il tema del “Tempo”. Penso di fargli un complimento dicendo che mi sarei augurato di vedere più proficuamente applicata la sua straordinaria mente in un moderno laboratorio di astrofisica, rispetto a quanto gli è capitato di fare inseguendo arguti, ma in fondo inutili, concetti filosofici e religiosi. Infine poi, l’”uomo” Agostino non mi è piaciuto, almeno per come si è raccontato. Ho un senso quasi di repulsione fisica verso quello che sembra il risultato della sua ricerca: un uomo che sembra più rinnegare il mondo, le sue pulsioni, la sua materia, i suoi affetti, le sue emozioni, i suoi colori, i suoi odori più di quanto alla fine si senta semplicemente in pace in esso e con esso. Un uomo per il quale tutto sembra peccato fuorché la continua contemplazione dell’idea di Dio, un soggetto che appare alienato più che semplicemente distaccato. La sua mistica, alla quale ha sacrificato compagne di una vita, figli, affetti e sensazioni mi appare perversa e questo si, la dice lunga su un certo filone del pensiero della Chiesa, per la quale godere di una sana sessualità, della visione di una bella donna, di un bicchiere di buon vino, di un raggio di sole sul viso, del volo di una farfalla, può nascondere un peccato mortale!

venerdì 18 novembre 2011

Recensione: Ritornano le Tigri della Malesia

“Ritornano le Tigri della Malesia”, titolo originale “El Retorno de Los Tigres de la Malasia”, di Paco Ignacio Taibo II, edizioni Tropea, ISBN: 978-88-558-0155-3.
Il romanzo racconta una nuova avventura dei pirati della Malesia, gli intramontabili eroi e avventurieri creati dalla fantasia del romanziere Emilio Salgari. Essi ci vengono ripresentati dalla penna dell’Autore un po’ attempati ma ancora avvampati dell’originale spirito indomito. Paco Ignatio Taibo sicuramente li ha amati a sua volta e, a mio avviso, riesce nell’impresa di restituirceli nel loro carattere originale (che anzi ne risulta affinato) insieme al mix di avventura ed esotismo che caratterizzava la saga salgariana. Egli riesce anche a salvaguardare il semplice tratto narrativo dell’Autore originale e la struttura dei capitoli improntati sullo stile del romanzo d’appendice (“feuilleton”). L’opera riesce dunque nella pregevole impresa di rendere omaggio al creatore delle “Tigri” e nel contempo regala ad una (spero) nutrita pattuglia di nostalgici un bel sequel che ancora può fare sognare.

sabato 12 novembre 2011

Recensione: Connessione Computer

“Connessione Computer”, titolo originale “The computer Connection”, di Alfred Bester, editrice Nord, ISBN: 88-429-0871-1.
Si tratta di un romanzo di fantascienza scritto nella metà degli anni settanta. La vicenda è incentrata sulla lotta fra un gruppo di uomini che, attraverso una serie di fatti casuali hanno acquisito l’immortalità e una rete informatica intelligente che ha preso il controllo di ampie parti del sistema solare. Era moltissimo tempo che non leggevo un libro di fantascienza, genere che avevo abbandonato da qualche tempo; forse anche per questo, l’ho trovato particolarmente infantile. Probabilmente mi sarebbe piaciuto a quindici anni (cioè circa trentuno anni fa!), anche perché allora sarebbe stato qualcosa che parlava effettivamente di futuro. Il giudizio di oggi non è quindi dei più lusinghieri, eppure nell'avvicinarsi all’opera, bisognerebbe tenere presente che anche la fantascienza, per sua natura, invecchia! Circa quaranta anni fa, almeno per coloro che non erano esperti, o meglio, pionieri del settore non era poi così facile immaginare reti informatiche di diffusione planetaria. Se poi si recupera questo punto di vista, si possono apprezzare altri aspetti del romanzo; infatti, è strano, divertente e persino un po’ commuovente verificare “con il senno di poi” la discrepanza fra quanto è stato immaginato e quanto è stato effettivamente realizzato. Infine, la storia è allegra, leggera nonché pervasa da un certo umorismo e dal quel tocco di volgarità che avrebbe entusiasmato un adolescente, ma che strappa qualche sorriso anche a quelli che veleggiano verso i cinquanta!

venerdì 11 novembre 2011

Una vita con "B" di Massimo Gramellini

Spero vivamente che il giornalista Massimo Gramellini de La Stampa non mi citi per plagio! E' infatti la seconda volta in pochi giorni che inserisco direttamente nel mio blob quanto pubblicato da lui sul quotidiano! Il punto è che, non solo mi ritrovo esattamente a condividere pianamente quanto egli descrive, ma mi rendo anche conto che non potrei rendere gli stessi concetti con altrettanta chiarezza e divertente ironia, quindi ......

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La Stampa: 10 novembre 2011 "Una vita con B" di Massimo Gramellini

Una vita con B

Politico, impresario, presidente di calcio, venditore di sogni, comico, playboy. Vent'anni passati (per lavoro) a seguire l'ascesa di Berlusconi
Forse solo adesso che sta, oh molto lentamente!, evaporando nell’album dei ricordi, comincio a rendermi conto con un certo spavento che ho trascorso metà della mia vita a occuparmi di B. Anche molti di voi, lo so. Per quanto un po’ meno di me, che come cronista l’ho avuto accanto fin dal primo giorno di lavoro. Quando il mio vicino di scrivania al «Giorno» mi mostrò una fotografia del neo-presidente del Milan fra Baresi e Maldini. «Tempo sei mesi e al loro posto ci saranno due carabinieri!» mi vaticinò, quel comunista. La prima di tante previsioni sbagliate.

Sei mesi dopo al posto dei carabinieri c’ero io, ma B non era nelle condizioni di spirito per farci caso. Eravamo in un salone dei palazzi vaticani per l’udienza del Milan col Santo Padre. Un vescovo si avvicinò a B: «Come d’accordo, Sua Santità parlerà dopo di lei...» B, che non ne sapeva nulla, sorrise al porporato, poi si girò verso i suoi e lì investì con una strigliata memorabile. Gli restavano dieci minuti per improvvisare un discorso, Lo seguii di nascosto, lungo i velluti di un corridoio laterale: mi incuriosiva vederlo all’opera in una situazione di emergenza. Lo osservai camminare avanti e indietro. Contorceva la bocca e componeva arabeschi con le mani. Si stava caricando.

Alla fine della passeggiata indossò il suo miglior sorriso celentanoide e affrontò Wojtyla con poche, leggendarie parole. «Santità, in fondo Lei assomiglia al mio Milan». Qualche cardinale sussultò. «Perché anche Lei, come noi, è spesso in trasferta, a portare in giro per il mondo un’idea vincente, che è l’idea di Dio». Fu un trionfo. B si era trascinato al seguito un esercito di milanisti, giornalisti e inserzionisti - il Gruppo, come lo chiamava lui - e li presentò al Papa uno alla volta, alla sua maniera: «Questo è Ruud Gullit, Santità. Già 12 gol quest’anno, di cui tre in Coppa dei Campioni». Wojtyla abbozzò un sorriso di cortesia. «E questo è Gigi Vesigna, direttore di Sorrisi e Canzoni: un milione di copie, molte più di Panorama!». Il Papa si illuminò: «Panorama! Io leggo sempre Panorama!». B ci rimase così male che forse in quel momento decise di comprare la Mondadori.

Avevo ventisei anni e mi faceva già così ridere e così paura. Era il cumenda moderno, circondato dal servilismo dei collaboratori. Arrivava all’allenamento del Milan in elicottero, si toglieva l’impermeabile e lo lanciava dietro le spalle, dove c’era sempre qualcuno che lo pigliava al volo. Scrissi che il raccattacappotti era il nuovo portiere del Milan e si arrabbiarono tutti, specie il portiere del Milan. L’allenatore Sacchi, adulatore furbissimo, iniziava le conferenze del sabato con una formula magica: «Permettetemi anzitutto di ringraziare il Dottore, che è una persona meravigliosa. Senza di lui, noi non saremmo qui». Alla decima volta un collega alzò la mano: «Senta, Sacchi, premesso che il Dottore è una persona meravigliosa, ci dice la formazione?».

Io scrivevo tutto. Anche la didascalia sotto la celebre foto che lo ritraeva con Confalonieri, Dell’Utri e Galliani: in maglietta bianca e in fila per uno: «Il Gruppo, compatto, suda agli ordini del Dottore». Non poteva durare. Il direttore del «Giorno» Lino Rizzi, indicato (come si diceva allora) dalla Dc, mi mandò a chiamare. «B ha detto che se non la smetti di prenderlo in giro, ci toglie la pubblicità di Canale 5». E tu cosa vuoi che faccia, direttore? «Il tuo dovere. Con prudenza. Ma non smettere di raccontare quello che vedi». Il primo miracolo di B: farmi rivalutare i democristiani.

Già allora esisteva un doppio B: quello solare delle apparizioni in pubblico e il personaggio misterioso che aveva potuto disporre, a meno di trent’anni, di prestiti miliardari. Ma nei lunghi pomeriggi di Milanello la storia extrasportiva che tutti ci raccontavamo a mezza bocca riguardava il famoso patto di Segrate. Quando B e la Mondadori, non ancora sua, avevano firmato di venerdì pomeriggio un accordo solenne per spartirsi la pubblicità televisiva a partire dal lunedì successivo. Dopo le foto e i sorrisoni di rito, B rientrò nei suoi uffici e, così narra la leggenda, si rivolse al segretario Urbano Cairo e agli altri collaboratori come in un film: «Sincronizzate gli orologi: abbiamo solo 48 ore prima che entri in vigore l’accordo. Rastrellate tutta la pubblicità che c’è in giro!». Il lunedì la Mondadori si trovò senza più neanche uno spot e di lì a qualche giorno dovette vendere Retequattro. A chi? A B.

Questo aneddoto forse un po’ romanzato (magari, conoscendolo. proprio da lui) è il test che utilizzo da anni per capire gli orientamenti politici dei miei interlocutori. Se rispondono «vergogna, che disprezzo per le regole!», sono berluscallergici. Se dicono «intanto però lui nel weekend ha lavorato!», sono berluscloni.

Fui testimone oculare di una censura. Un collega del suo «Giornale» aveva intervistato Baresi, piuttosto critico con il presidente. Il pezzo, intitolato «La difesa del Milan attacca B», era saltato alle undici di sera in tipografia, goffamente sostituito da una foto di Trapattoni delle dimensioni di un poster. Ci trovavamo ad Ascoli, al seguito del Milan, e il collega censurato passò la giornata successiva al telefono della mia stanza d’albergo, così potei assistere in diretta al balletto straziante degli scaricabarile. Baresi smentì l’intervista. Montanelli, ancora direttore, chiese al giornalista se aveva la registrazione, ma nello sport allora non usava: tutto era affidato ai taccuini. A malincuore persino il grande Indro dovette allargare le braccia. Così la censura passò e divenne un precedente. Lasciai Milano e «Il Giorno» per Roma e «La Stampa», convinto che non lo avrei incrociato mai più. Lo rividi una notte a Barcellona, la Coppa dei Campioni fra le braccia, mentre catechizzava la folla di un ristorante: «Un giorno farò l’Italia come il Milan!». Tutti a darsi di gomito, tranne i cronisti sportivi che lo seguivano da una vita. Solo loro sapevano che uno così era capace di tutto.

Il ponentino romano mi deberlusconizzò rapidamente. Avevo quasi nostalgia di B, quando una sera di novembre il giornale mi mandò in Parlamento per raccogliere pareri sul suo ventilato ingresso in politica. Montecitorio alle sette era deserta, ma da una porta apparve un ritardatario, il capogruppo del Pds, Massimo D’Alema: «Smettetela di spargere in giro le solite sciocchezze. B non entrerà mai in politica. E’ pieno di debiti». Appunto, azzardai io. Ma D’Alema mi fulminò con una smorfia delle sue: «Allora mi devo ripetere: non entrerà mai in politica!». Compresi che la discesa in campo era ormai inevitabile.

Nei mesi successivi l’Italia intera scoprì l’omino del nuovo ventennio. Le sue manie e megalomanie. Le videocassette con la finta libreria e la calza sulla telecamera. Il miracolo del tifoso milanista paralizzato: «Tommaso della Fossa dei Leoni: alzati e vieni dal tuo Presidente!». L’inno con le parole intercambiabili: «E forza Italia per fare per credere...». Le frasi memorabili: «Non esistono i poveri, ma solo i diseducati al benessere».

Ero disperato. A cosa mi era servito scappare dallo sport e far perdere le mie tracce, se me lo ritrovavo di nuovo addosso? Con i colleghi de «La Stampa» Pino Corrias e Curzio Maltese ci prendemmo una settimana di ferie per scrivere un libro sul suo avvento al potere. Lavoravamo in un posto segreto, giorno e notte, non ricordo di aver mai infilato i piedi sotto le coperte. Morivamo di sonno e, per non morire anche di fame, un pomeriggio Curzio e Pino andarono a fare la spesa. Ero solo in casa quando la porta bussò con violenza: «Carabinieri, aprite!». Come avevano fatto a trovarci? Nessuno, tranne i parenti stretti, sapeva che eravamo lì. Ero così imbevuto di B che feci un paio di collegamenti mentali: i carabinieri dipendevano dalla Difesa, Previti era ministro della Difesa, ergo B li aveva mandati ad arrestarci. Truccando la voce pigolai: «Chi cercate, prego?». «Maltese Curzio...». «Chi?». «...Corrias Pino». «Chi?» «...e Gramellini Massimo». «Perché?».

Fu il «perché» a fregarmi. A quel punto dovetti aprire. Scoprii che non era stato B a spedirceli, ma il direttore de «La Stampa», Ezio Mauro. Avendo saputo chissà come che avevamo appena parlato col più acuto filosofo del berlusconismo, Mike Bongiorno, quel formidabile trapano aveva mobilitato i carabinieri di mezza Italia per rintracciarci e avere un’anteprima dell’intervista sul giornale.

Parli d’altro, mi suggerivano i lettori. Una parola. Non esisteva argomento in cui, per dritto o per rovescio, non entrasse lui. La politica? Lui. Il calcio? Lui. La tv? Lui. La pubblicità? Lui. Il cinema? Lui. La cultura (ehm ehm). Lui. I soldi? Lui, lui, lui. Un giorno, stremato, comprai una rivista di botanica. C’era una foto di B nel giardino di Arcore mentre potava le rose.

Difficile non trasformarlo in un’ossessione. Il culmine lo raggiunse un amico di «Repubblica» durante la mia prima e ultima vacanza esotica, all’indomani della vittoria elettorale dell’Ulivo. Ci concedemmo un bagno notturno, c’erano la luna, le ragazze, il mormorio avvolgente del mare. Avevamo ancora l’acqua alle ginocchia quando l’amico mi si avvicinò con aria corrucciata. «Sai», disse. «Stavo pensando che se Prodi non fa la legge sul conflitto di interessi entro una settimana...». «Ti prego», mi ribellai. «Non ora, non qui!». E invece aveva ragione. Gli ulivisti non fecero la legge, forse erano su qualche spiaggia esotica anche loro, e B continuò a fare il B più di prima.

Entrai nella fase dell’apostolato attivo: volevo convincere il mio prossimo che B non era un liberale ma un monopolista, e che non gli importava niente dell’Italia ma solo dei fatti suoi. Mi arresi durante un trasloco, quando un operaio mi abbordò preoccupato: «Dottò, lei che mastica di politica, ma è vero che B pensa di vendere le sue televisioni?». «Ne dubito, ma lo spero. Diventeremmo un Paese normale, non crede?». «Io, se vende le tv, non lo voto più». «Come dice, scusi?» ululai. «Non lo voto più. Finché ha le tv è ricco e non ruba». «Ma così farà sempre e solo gli affari suoi!». «Ma facendo i suoi, sarà costretto a fare un po’ anche i miei. Se invece vende le tv, diventa un politico come tutti gli altri». Mi arresi. La sinistra doveva smettere di sostenere che l’italiano medio era vittima di Berlusconi. L’italiano medio era solo un Berlusconi più povero.

Oramai B era il nome più evocato, più maledetto, più amato. Provate a contare quante volte avete pensato a lui in questi anni. Più che a vostra suocera, di sicuro. Mai nessuno aveva diviso tanto l’Italia e gli italiani. Un tizio mi scrisse alla posta del cuore per raccontarmi di aver lasciato una ragazza che stava corteggiando, dopo aver scoperto che lei aveva votato per B. Un popolo spaccato in due, una democrazia trasformata in un referendum continuo: pro o contro una singola persona che incarnava un mondo che gli uni consideravano sguaiato e gli altri vitale. E quella persona era il cumenda ridens che avevo visto lanciare l’impermeabile all’aspirante portiere milanista.

Siamo invecchiati insieme, nel senso che mentre io perdevo i capelli lui li ritrovava. In venticinque anni ho cambiato opinione su quasi tutto, ma non su B: continua a farmi ridere e a farmi paura. Ultimamente più paura che ridere. Non ha mai cercato di convertirmi. Pare mi consideri fra gli irrecuperabili da quella volta che, saputo dei miei trascorsi liberali, mi fece chiedere da un suo amico: «Ma se non è comunista, perché non sta con me?» B è un semplificatore: o sei Stalin o Emilio Fede. Il mondo del Duemila è troppo complesso per sottostare ai suoi schemi. Anche per questo la sua stella è al tramonto. Senza di lui non mi annoierò, ma certo dovrò faticare di più. Mi toccherà tenere d’occhio un sacco di persone: un politico, un impresario, un presidente di calcio, un venditore di sogni, un comico, un playboy. Mentre prima, per averle tutte, me ne bastava una.

mercoledì 9 novembre 2011

Buongiorno!

L’uomo nero se ne va! Speriamo! A me hanno insegnato che “non si vende la pelle dell’orso ……..”, pare comunque che questa volta sia veramente quella buona e comunque, effettivamente la maggioranza sembra si stia sgretolando più velocemente del ghiaccio della Groenlandia, pertanto, se non sarà oggi sarà domani! Bene, è ora di prendersi una giornata di festa, ma la mente vola già al dopo, cosa succederà adesso? Dopo l’uomo nero saliranno in cattedra gli uomini grigi (inteso nel senso di mediocri)? In rischio c’è, soprattutto a causa della mancata riforma della legge elettorale …. Queste sono preoccupazioni che oggi possiamo accantonare a domani. Eh va bene! Chi vuole sforzassi di essere saggio, “nel tempo dell’attesa si riposa, si prepara, mangia, beve ed è lieto e fidente” :-).
Per buon auspicio però, vorrei accogliere in questo post quanto è apparso su La Stampa di questa mattina nella rubrica “Buongiorno” del giornalista Massimo Gramellini e che condivido completamente.
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SENZA B di Massimo Gramellini – La Stampa 09 novembre 2011-11-09
Se penso a un’Italia senza B, immagino un brigadiere che si addormenta mentre intercetta le telefonate fra il professor Monti e Mario Draghi. Oh, mica voglio un’Italia di banchieri. Ma un po’ grigia e barbosa, sì. Non moralista, morale. Che per qualche tempo si metta a dieta di barzellette, volgarità, ostentazioni d’ignoranza. Dove l’ottimismo non sia la premessa di una truffa, ma la conseguenza di uno sforzo comune. Un’Italia solare, anche nell’energia. Con meno politici e più politica. Meno discorsi da bar e più coerenza fra parole e gesti. Una democrazia sana e contenta di sé, che la smetta di prendere sbandate per gli uomini della provvidenza e si ricordi di essere viva ogni giorno e non solo una volta ogni cinque anni per mettere una crocetta su una scheda compilata da altri. Un’Italia di politici che non parlano di magistrati, ma coi magistrati (se imputati). E di magistrati che parlano con le sentenze e non nei congressi di partito. Di federalisti che non fanno rima con razzisti. Un Paese allegro e però serio. Capace di esportare non solo prodotti belli, ma belle figure. Vorrei essere governato da persone migliori di me. Che non facciano le corna, non giurino sulle zucche e si sfilino un paio di chili dalla pancia, prima di far tirare la cinghia a noi, ripristinando il principio che chi sta in alto deve dare il buon esempio.

Per giungere a un’Italia così, le dimissioni di B rappresentano un primo passo. Adesso devono dimettersi tutti gli altri. Perché più ancora di Berlusconi temo i berluscloni.

mercoledì 2 novembre 2011

Crisi finanziaria – serve un nuovo New Deal: Elite in fuga dalla realtà e dalle responsabilità.

La Grecia affonda sulla proposta di indire un referendum a favore dell’accordo europeo, le borse crollano e l’Italia trema, mentre da ogni parte con toni sempre più concitati, s’invocano a gran voce riforme draconiane per salvarci dalla crisi. Tali riforme, in sintesi si riassumono in: maggiori privatizzazioni che prevedono un ulteriore saccheggio del patrimonio pubblico; condoni fiscali, premiando così nuovamente chi evade da una vita; tagli e riforme sulle pensioni, che perpetuano il circolo vizioso che procrastina una reale (e non figurativa) applicazione del regime contributivo; riforme sui contratti di lavoro, destinate ad aumentare l’instabilità e la disoccupazione; tagli indiscriminati a sanità ed istruzione, che andranno ad impattare sulla salute e sul futuro dei cittadini. E’ evidente che il prezzo del salvataggio sarà finanziariamente pagato soprattutto da quella classe con redditi medi che le tasse le ha sempre pagate, mentre socialmente graverà soprattutto sui redditi bassi e sulle famiglie. Nessuno ovviamente si propone di puntare seriamente su riforme del lavoro che creino efficienza ma che non vadano a scapito della stabilità del posto di lavoro, premino la produttività e la mobilità (quando necessaria e richiesta), puniscano l’assenteismo e le ruberie applicando semplicemente quanto già previsto dalle normative sul diritto del lavoro. Soprattutto, in ottica fiscale nessuno si propone di rovesciare completamente l’attuale impostazione, ad esempio, parlando seriamente della lotta all’evasione fiscale, di tasse patrimoniali più eque e dalla revisione ideologica di alcune tipologie di imposizioni ormai dimenticate come ad esempio la tassa di successione. La nostra classe politica, opposizioni incluse, evidentemente collusa con questi soggetti (in realtà facente parte, a ben vedere, di queste categorie!), si ostina invece a premiare i “soliti noti”: gli evasori, i titolari di grandi patrimoni, gli esportatori di capitale e la nostra peggiore classe imprenditoriale, quella che prospera sul lavoro nero e precario e sull’evasione fiscale; per loro infatti non è previsto alcun sacrificio sostanziale.
I Governi, non solo quello italiano, latitano e non sanno proporre nulla di nuovo. Sono pronti a varare solo riforme di tipo liberista di puro stampo “reaganiano”, continue varianti di una ricetta abusata, come se ancora non si fosse capita la totale inconsistenza delle teorie vendutaci fin dai primi anni ottanta da una folla di illustri economisti servili e prezzolati, e basate sul principio che, non tassare o detassare i redditi alti spinga l’economia, che demolire il welfare sia opera virtuosa, che eliminare le tutele di lavoratori e classi disagiati sia etico e civile, che promuovere l’instabilità migliori la qualità della vita. Tutto ciò invece ha solo impoverito il ceto medio e incrinato la fiducia dei cittadini riguardo alla capacità di risolvere i problemi dei sistemi democratici basati sull’assistenza pubblica, sugli ammortizzatori sociali e sull’equa distribuzione dei redditi. Personalmente questi personaggi non mi sembrano semplicemente incapaci e collusi, ma peggio, mi appaiono ormai inerti, paralizzati dal panico e soprattutto, completamente distaccati dalla realtà che li circonda. Essi sembrano definitivamente incapaci di affrontare in maniera incisiva una situazione che, evidentemente, non possono, non vogliono e non sanno risolvere. Peggio di tutto però è la tendenza alla de-responsabilizzazione che li contraddistingue! Vogliono vincoli costituzionali per essere obbligati a prendere decisioni e a fare ciò che non hanno il coraggio di fare, come se nascondersi dietro l’ottemperanza ai dettami di una definizione della Carta Costituzionale li assolva, prima dalla responsabilità di averne chiesto la modifica non necessaria e poi dal dovere mettere in atto quelle riforme che, Costituzione o meno, sarebbe loro dovere fare comunque. Ora, sfruttando la paura della crisi e incapaci di assumersi la completa responsabilità di scelte impopolari, si propongono di chiedere direttamente ai cittadini di essere assolti in anticipo e di ricevere l’ennesima delega in bianco. Nel frattempo, almeno in Italia, gli alleati di governo sembrano interessati solo a prolungare il più possibile lo stato comatoso del nostro parlamento, mentre l’opposizione bada bene a non rischiare veramente di far cadere un governo che in realtà non appare per niente ansiosa di ereditare e nel frattempo trama per andare a elezioni con l’attuale legge elettorale per godere a propria volta dei benefici che ne riceverebbe in termini di potere personale l’elite dello schieramento vincitore.
Servirebbe quindi coraggio nell’intraprendere nuove strade e per un rinnovato impegno politico e sociale, allo scopo di liberarsi della zavorra di questa classe politica imbolsita e pervenire ad un nuovo New Deal che coinvolga tutti i cittadini i quali, a ben vedere, dovrebbero essere così saggi da rendersi conto che non ci sono alternative all’essere “virtuosi”, non ci sono più spazi per il completo disinteresse dalla “cosa pubblica” o per mettere in atto una visione individualista o corporativa della politica. E’ necessario che tutti si rendano conto che l’unica alternativa ad un progressivo impoverimento generale è una fattiva collaborazione nonché una seria ed onesta riflessione riguardo alle eque modalità di redistribuzione degli inevitabili sacrifici da porre in essere.

martedì 1 novembre 2011

Recensione: Il Cimitero di Praga

“Il Cimitero di Praga”, di Umberto Eco, edizioni Bompiani, ISBN: 978-88-452-6622-5.
Il romanzo si svolge per lo più a Parigi nella seconda metà dell’ottocento ed è incentrato sull’ambigua figura di fantasia del piemontese Simone Simonini: falsario, truffatore e agente doppio. Le sue peripezie lo porteranno ad entrare in contatto con una girandola di personaggi realmente vissuti e lo vedranno coprotagonista di una trama complicata che, prima lo inserirà in alcune delle principali vicende risorgimentali e poi lo coinvolgerà in una serie di avvenimenti della Francia ottocentesca. Simonini finirà per immergersi nel clima culturale parigino, entrerà in contatto con l’estremismo anarchico, avrà un ruolo nelle vicissitudini della Comune di Parigi, tramerà nell’ombra dell’”affaire Dreyfus” e soprattutto, finirà invischiato in una oscura rete di sub-cultura da lui stesso parzialmente architettata che vedrà il coinvolgimento di gesuiti, riviste cattoliche, circoli israeliti e cenacoli antisemiti, sette esoteriche, veri o sedicenti massoni, occultisti e ciarlatani. L’ambientazione si svolge nell’ambito di una convincente ricostruzione del clima dell’epoca che ben descrive una società civile sospesa fra modernità ed oscurantismo, dove accanto all’avanzare delle scienze dilaga il sapere pseudo-scientifico spesso legato alle mode dello spiritismo, del mesmerismo e dell’occultismo e dove forme perverse di scientismo laico si confrontano con forme altrettanto nefaste di clericalismo e di fanatico bigottismo religioso. Sullo sfondo, frutto diretto di questo humus culturale, monta la marea dell’antisemitismo che darà i suoi frutti mostruosi nel corso del novecento.
A mio parere Il libro è molto bello ed anche divertente purché non ci si faccia intimidire dall’Autore che, a tratti, sembra un po’ voler soverchiare il lettore con lo sfoggio del proprio virtuosismo culturale, rischiando così di rendere il romanzo un po’ troppo arzigogolato a causa di una trama forse troppo ingarbugliata. Trovo poi che la scelta dell’Autore di puntare ampiamente su temi legati alla massoneria e all’occultismo costituisca un po’ una ripetitività rispetto ad altri suoi successi editoriali, quali ad esempio “Il pendolo di Foucault”.

martedì 25 ottobre 2011

Democrazie arabe: fra islamismo e fondamentalismo

L’ondata rivoluzionaria che ha rovesciato molti dei regimi dittatoriali dell’area mediterranea e che, per la prima volta, in quei paesi sta portando alla definizione dei primi governi eletti in maniera ragionevolmente democratica, vede profilarsi il rafforzamento dei partiti che si rifanno alle tradizioni, e in alcuni casi, al fondamentalismo islamico. Questo fenomeno ovviamente è destinato a creare una certa inquietudine nelle fasce laiche della popolazione, nelle minoranze religiose che abitano quei territori e in occidente.
Le ragioni per preoccuparsi sicuramente non mancano, esiste, infatti, ed è inutile negarlo, il rischio reale che si passi da una fase di semplice recupero della tradizione islamica, a lungo soffocata dai regimi dittatoriali, a forme vere e proprie di fondamentalismo; rimane però anche vero che, questo ritorno verso la tradizione giuridica dell’islam era in parte prevedibile e a me, personalmente, appare anche come un passaggio difficilmente evitabile e forse necessario.
Per capire le ragioni per le quali ho questa convinzione è però necessario fare un breve passo indietro. L’ideologia Baathista e il “socialismo” arabo in generale sono situazioni prodotte per lo più a partire dalla metà degli anni cinquanta del ventesimo secolo e si sono tutti evoluti in forme dittatoriali esplicite o mascherate. I vari Rais appoggiandosi, chi al blocco sovietico, chi al blocco occidentale, hanno cristallizzato l’evoluzione politica e sociale dei loro paesi intorno ad una pantomima del valori e del pensiero occidentale, fosse esso derivante dalla matrice laica, liberisti e capitalista, oppure (se vogliamo definirla così!), socialista e marxista. L’evoluzione politica di questi paesi è rimasta quindi apparentemente congelata mentre nel frattempo è venuto meno l’appeal delle ideologie basate sui valori laici (destra, sinistra, capitalismo, socialismo, ecc.), ed ha nel contempo ripreso quota, come per altro anche in occidente, l’impegno sociale e politico legato ad una certa rinascita (o a un ripiegamento!) sui valori religiosi. E ’ poi inutile sottolineare come le democrazie occidentali non siano mai state in grado di presentarsi come modelli veramente credibili per i paesi musulmani ed è pertanto naturale nonché prevedibile che per queste società emerga un profondo desiderio di ripartire dalle radici culturali dell’islam. Tale processo di re-islamizzazione è poi favorito proprio dalla transizione a forme di rappresentanza democratica, le quali, non fanno che svelare la realtà riferibile alla composizione sociale di queste popolazioni che, dietro ad un sottile paravento costituito dalle elite, si sono mantenute fedeli alle proprie radici tradizionali.
Non ci è dato quindi sapere se e dove questo processo di costruzione di moderne democrazie a partire dal recupero e forse dalla compatibilità con i valori tradizionali dell’islam avrà successo o sprofonderà invece in nuovi regimi teocratici, quello che però a me sembra chiaro è che questo processo di formazione sarà anche in parte influenzato dall’atteggiamento delle nazioni occidentali verso questi nuovi governi e verso le nuove formazioni politiche. Probabilmente gioverà, al di là delle nostre più o meno ragionevoli paure, un atteggiamento di attenzione, ma anche, di benevole disponibilità

venerdì 21 ottobre 2011

Recensione: 2050 – Il Futuro del Nuovo Nord

“2050 – Il Futuro del Nuovo Nord”, titolo originale “TheWorld in 2050. Four Forces Shaping Civililization’s Northern Future”, di Laurence C. Smith, edizioni Giulio Einaudi, ISBN: 978-88-06-19821-3.
Il libro cerca di prevedere quale potrebbe essere la situazione del pianeta alla metà del XXI° secolo, incentrando la discussione sui cambiamenti che dovrebbero interessare soprattutto l’area settentrionale del pianeta, conosciuta come Northern Rim (Norc) e che comprende: Islanda, Groenlandia, Norvegia, Svezia, Finlandia, Russia, Canada e una parte degli Stati Uniti (Alaska). L’analisi si basa sullo studio dell’evoluzione di quattro forze globali interconnesse: la demografia, le risorse naturali, la globalizzazione e infine, il cambiamento climatico. L’Autore cerca poi di stabilizzare il modello e le relazioni fra le quattro componenti assoggettando l’analisi ad una serie di regole che hanno lo scopo di evitare la creazione di scenari troppo imprevedibili, improbabili o comunque eccessivamente fantasiosi. Le assunzioni sono dunque le seguenti: relativa stabilità tecnologica, assenza di conflitti armati permanenti, assenza di sconvolgimenti fisici e biologici di rilievo (pandemie mondiali, collisioni di asteroidi, ecc.), relativa stabilità dei modelli di previsione (aspettative di vita, climatologia, modelli-socio economici, ecc.). Solo negli ultimi due capitoli l’Autore, consapevolmente rilassa alcune delle assunzioni introdotte in modo da provare anche a verificare le possibili conseguenze di eventi ritenuti meno probabili.
Il risultato è un libro interessante, che non solo ha il pregio di proporre una serie di scenari realistici e globali per il futuro, ma che include una vivida descrizione della situazione dei paesi Norc e delle potenzialità di quell’area, che effettivamente, a oggi, si stimano notevoli. Personalmente ho anche apprezzato alcuni riferimenti socio-culturali che mi hanno permesso di colmare la mia scarsa conoscenza riguardo a questi argomenti, cito solo a titolo di esempio: il percorso pacifico di emancipazione del popolo groenlandese dalla madre patria danese e specialmente, gli accordi stipulati da USA e Canada nei confronti dei nativi per la regolamentazione dei diritti di sfruttamento delle terre artiche. L’opera è comunque piena di spunti, d’informazioni e di curiosità che contribuiscono, insieme allo stile di scrittura semplice e scorrevole e al ricorso equilibrato di dati, tabelle, cartine e immagini, a rendere agevole e piacevole la lettura.

domenica 9 ottobre 2011

Recensione: L’enigma del capitale e il prezzo della sua sopravvivenza

“L’enigma del capitale e il prezzo della sua sopravvivenza”, titolo originale “the enigma of capital and the crisis of capitalism”, di David Harvey, edizioni Feltrinelli, ISBN: 978-88-07-10470-1.
Il libro ricostruisce le modalità della circolazione del capitale evidenziandone l’importanza e la centralità nell’ambito del nostro sistema economico. Nel fare ciò l’Autore si richiama dichiaratamente all’opera del filosofo ed economista Karl Marx, recuperandone gli aspetti caratterizzanti e rileggendoli in una chiave più moderna ed alla luce dell’attuale fase di turbolenza economica e finanziaria. L’opera si apre con un’analisi convincente delle cause dell’attuale crisi finanziaria e si sviluppa intorno ad uno dei temi cari al marxismo, che individua come principale punto di debolezza del sistema capitalistico quello di basarsi su un modello di sviluppo che prevede la necessità di addivenire ad una crescita economica illimitata per poter garantire il re-investimento del capitale in eccesso. Secondo le teorie marxiste il futuro del capitalismo sarebbe minato da un vizio di fondo, cioè di dover prevede una crescita ininterrotta basata su di un modello matematico ad interesse composto per poter sopravvivere. Tale obiettivo, secondo i marxisti, ma anche secondo logica, sarebbe impossibile da conseguire nel lungo periodo e verrebbe definitivamente messo in crisi non appena si arrivasse a saturare le risorse disponibili rendendo impossibile l’allocazione di nuove componenti per investire il capitale in eccesso e facendo così collassare il sistema a causa delle sue stesse contraddizioni interne. Le crisi ricorrenti vengono dunque spiegate, da una parte con la necessità del capitalismo di produrre delle fasi di “distruzione creativa” per riportare indietro e ritardare gli effetti "ineluttabili" legati alla logica della crescita secondo un tasso composto e dall’altra, con i continui aggiustamenti che il sistema deve porre in essere per superare i limiti geografici, fisici, spaziali, politici, sociali e culturali che impediscono la libera circolazione del capitale continuamente alla ricerca delle migliori condizioni di investimento. Sempre secondo le teorie marxiste, da queste crisi locali il capitalismo ha dimostrato di riuscire ad uscirne mutato e rafforzato conquistando nuovi spazi, ma al contempo, avvicinandosi sempre di più all’inevitabile collasso finale. L’Autore invita il lettore a prendere in considerazione la possibilità che effettivamente ci si possa trovare in un punto di svolta che a breve potrebbe vanificare il tentativo di proseguire lungo un cammino di crescita illimitata a causa della pressione eccessiva che il sistema continua ad esercitare sulle sempre più limitate risorse umane e naturali disponibili. Secondo Harvey è dunque necessario che ognuno cominci a pensare e ad agire per la creazione di un nuovo modello socio-economico che sia invece sostenibile.
Per quanto riguarda il mio giudizio sull’opera di Harvey, devo ammettere che l’ho trovata molto interessante, anche se forse non ne condivido a fondo le conclusioni e se vogliamo, non concordo necessariamente con l’approccio deterministico che la accomuna, per altro esplicitamente, all’ideologia marxista della quale può essere considerata una rivisitazione e forse persino un’evoluzione. Sicuramente la prima parte del libro, che spiega le ragioni della crisi economica e dell’incapacità della classe politica a risolverla costituisce la parte migliore dell'opera e troverei molto difficile non concordare con la lucida analisi esposta dall’Autore. Come ho già accennato, nei capitoli successivi a me è sembrato che Harvey abbia cercato sostanzialmente di aggiornare le teorie marxiste introducendo il concetto delle sette sfere di attività con lo scopo di ampliare e in qualche modo superare l’impostazione classica dell’opera di Marx incentrata quasi esclusivamente sugli aspetti economici e lavorativi. In questo modo vengono introdotti nuovi ambiti come quello sociale, culturale, naturale e tecnologico il che dovrebbe, da una parte contribuire a spiegare meglio i corsi e decorsi delle attuali fasi di sviluppo e crisi, viste rispettivamente come fasi di relativa sincronia fra le sfere oppure di mancanza di armonia fra alcune di esse; e dall’altra, sempre secondo l’Autore, sarebbe utile per individuare i vari campi dell’agire nei quali si potrebbero cominciare a sviluppare i nuovi presupposti per un cambiamento sociale che porti al superamento del modello capitalista. A questo riguardo, ho trovato un po’ vago proprio l’ultimo capitolo del libro che parla delle soluzioni per mettere in atto il cambiamento, c’è però da aggiungere su questo aspetto particolare che l’Autore merita quanto meno tutta l’indulgenza possibile, sfiderei infatti chiunque a produrre una soluzione ed un percorso chiaro per uscire da questa crisi.

giovedì 6 ottobre 2011

Recensione: Il Tiranno

“Il Tiranno”, di Valerio Massimo Manfredi, edizioni Mondadori, ISBN:88-04-51814-6.
Il romanzo storico è incentrato sulla figura di Dionisio I° di Siracusa che, estromettendo il governo democratico della città, divenne il tiranno della città siciliana verso la fine del V° secolo a.C.
Dionisio condusse una serie di campagne contro i cartaginesi nel tentativo, non riuscito, di estrometterli dalla Sicilia e cercò anche di acquisire il controllo politico e territoriale di quella parte dell’Italia meridionale conosciuta come “Magna Grecia”.
Per il poco che è possibile reperire rapidamente sul personaggio (si veda ad esempio quanto è disponibile su Wikipedia), non mi è sembrato che quanto si conosce del personaggio storico sia stato riportato fedelmente nel romanzo. Questo ovviamente, non può essere necessariamente considerato un difetto per un opera di fantasia, ma sicuramente finisce per costituire un’aggravante nel caso in cui il lettore non la ritenga infine particolarmente soddisfacente.
Personalmente ho trovato il romanzo piuttosto noioso e scontato per più della metà delle pagine e fortissima è stata la tentazione di abbandonarlo. Nella seconda parte la situazione migliora, complice forse l’aspettativa e la curiosità riguardo al finale. Tenendo sempre presente che si tratta di un libro scritto senza troppe pretese, alla fine finisce per non sfigurare rispetto alla media.
In ogni caso, grazie all’Autore ho ricevuto lo stimolo a fare qualche ricerca, devo infatti ammettere che, fino a qualche giorno fa, per me Dionisio di Siracusa era solo poco più di un nome.

DDL Intercettazioni - Grazie Wikipedia!

In questi giorni il sito di Wikipedia in lingua italiana ha posto in essere una forma di protesta contro la legge bavaglio sulle intercettazione in corso di approvazione. Io personalmente ritengo che le modalità con la quale si svolge la protesta sul noto sito di infrormazioni sia particolarmente efficace e soprattutto che abbia il pregio di raggiungere e responsabilizzare tutti quei fruitori di notizie che purtroppo non hanno anche l'abitudine di consultare i principali quotidiani e che pertanto rischiano di rimanere all'oscuro di quanto questo Governo stia mettendo a rischio la libertà di informazione e limitando la libera circolazione delle notizie e delle idee.

Sperando di fare cosa gradita, allego qui sotto il testo del messaggio pubblicato dal sito e comunque reperibile in originale al seguente indiorizzo: http://it.wikipedia.org/wiki/Wikipedia:Comunicato_4_ottobre_2011

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Cara lettrice, caro lettore,

in queste ore Wikipedia in lingua italiana rischia di non poter più continuare a fornire quel servizio che nel corso degli anni ti è stato utile e che adesso, come al solito, stavi cercando. La pagina che volevi leggere esiste ed è solo nascosta, ma c'è il rischio che fra poco si sia costretti a cancellarla davvero.

Negli ultimi 10 anni, Wikipedia è entrata a far parte delle abitudini di milioni di utenti della Rete in cerca di un sapere neutrale, gratuito e soprattutto libero. Una nuova e immensa enciclopedia multilingue e gratuita.

Oggi, purtroppo, i pilastri di questo progetto — neutralità, libertà e verificabilità dei suoi contenuti — rischiano di essere fortemente compromessi dal comma 29 del cosiddetto DDL intercettazioni.

Il Disegno di legge - Norme in materia di intercettazioni telefoniche etc., così modificato (vedi p. 24), alla lettera a) del comma 29 recita:

«Per i siti informatici, ivi compresi i giornali quotidiani e periodici diffusi per via telematica, le dichiarazioni o le rettifiche sono pubblicate, entro quarantotto ore dalla richiesta, con le stesse caratteristiche grafiche, la stessa metodologia di accesso al sito e la stessa visibilità della notizia cui si riferiscono.»
Tale proposta di riforma legislativa, che il Parlamento italiano sta discutendo in questi giorni, prevede, tra le altre cose, anche l'obbligo per tutti i siti web di pubblicare, entro 48 ore dalla richiesta e senza alcun commento, una rettifica su qualsiasi contenuto che il richiedente giudichi lesivo della propria immagine.

Purtroppo, la valutazione della "lesività" di detti contenuti non viene rimessa a un Giudice terzo e imparziale, ma unicamente all'opinione del soggetto che si presume danneggiato.

Quindi, in base al comma 29, chiunque si sentirà offeso da un contenuto presente su un blog, su una testata giornalistica on-line e, molto probabilmente, anche qui su Wikipedia, potrà arrogarsi il diritto — indipendentemente dalla veridicità delle informazioni ritenute offensive — di chiedere l'introduzione di una "rettifica", volta a contraddire e smentire detti contenuti, anche a dispetto delle fonti presenti.

In questi anni, gli utenti di Wikipedia (ricordiamo ancora una volta che Wikipedia non ha una redazione) sono sempre stati disponibili a discutere e nel caso a correggere, ove verificato in base a fonti terze, ogni contenuto ritenuto lesivo del buon nome di chicchessia; tutto ciò senza che venissero mai meno le prerogative di neutralità e indipendenza del Progetto. Nei rarissimi casi in cui non è stato possibile trovare una soluzione, l'intera pagina è stata rimossa.

Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo
Articolo 27

«Ogni individuo ha diritto di prendere parte liberamente alla vita culturale della comunità, di godere delle arti e di partecipare al progresso scientifico e ai suoi benefici.

Ogni individuo ha diritto alla protezione degli interessi morali e materiali derivanti da ogni produzione scientifica, letteraria e artistica di cui egli sia autore.»
L'obbligo di pubblicare fra i nostri contenuti le smentite previste dal comma 29, senza poter addirittura entrare nel merito delle stesse e a prescindere da qualsiasi verifica, costituisce per Wikipedia una inaccettabile limitazione della propria libertà e indipendenza: tale limitazione snatura i principi alla base dell'Enciclopedia libera e ne paralizza la modalità orizzontale di accesso e contributo, ponendo di fatto fine alla sua esistenza come l'abbiamo conosciuta fino a oggi.

Sia ben chiaro: nessuno di noi vuole mettere in discussione le tutele poste a salvaguardia della reputazione, dell'onore e dell'immagine di ognuno. Si ricorda, tuttavia, che ogni cittadino italiano è già tutelato in tal senso dall'articolo 595 del codice penale, che punisce il reato di diffamazione.

Con questo comunicato, vogliamo mettere in guardia i lettori dai rischi che discendono dal lasciare all'arbitrio dei singoli la tutela della propria immagine e del proprio decoro invadendo la sfera di legittimi interessi altrui. In tali condizioni, gli utenti della Rete sarebbero indotti a smettere di occuparsi di determinati argomenti o personaggi, anche solo per "non avere problemi".

Vogliamo poter continuare a mantenere un'enciclopedia libera e aperta a tutti. La nostra voce è anche la tua voce: Wikipedia è già neutrale, perché neutralizzarla?

Gli utenti di Wikipedia


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giovedì 29 settembre 2011

Recensione: Il dio del massacro

“Il dio del massacro”, titolo originale “le dieu du carnage”, di Yasmina Reza, edizioni Adelphi, ISBN: 978-88-459-2623-5.
Bellissima commedia, al tempo stesso divertente, ironica e crudele. Due coppie di genitori s’incontrano in casa per la prima volta, dovendo cercare di appianare “civilmente” un diverbio avvenuto ai giardinetti fra i rispettivi figli non ancora adolescenti (undici anni). L’episodio sembra di poco conto e gli attori appaiono determinati a raggiungere un rapido accordo. In realtà, dietro una patina di perbenismo borghese emergono fin da subito profondi contrasti e, quasi inesorabilmente, l’incontro degenera in una situazione conflittuale che non solo contrappone le due coppie, ma che ne squarcia anche l’unità. Si scatena una guerra di tutti contro tutti con continui rovesciamenti di alleanze che attraversano i generi e i ruoli e che, al di là della sottile patina di educazione, svela l’ipocrisia delle persone e la profonda crudeltà e violenza che caratterizza il genere umano. Il risultato è sconcertante! Grazie ad un libro di poche pagine di rara intelligenza e intensità ho di nuovo udito il sommesso rullare di tamburi che pervade la caotica, malvagia e oscura giungla di “Cuore di tenebra” di Joseph Conrad e dalle cui ombre emerge la maschera ghignante ed efferata del demone ancestrale che abita i profondi recessi dell’animo umano e ne domina e regola gli istinti e gli impulsi più profondi. A questa divinità oscura sono stati imposti molti nomi e molti volti, per me è sempre stato “Il Signore delle mosche”, ma da oggi, sarà anche “Il dio del massacro”.

venerdì 23 settembre 2011

Recensione: Esperimenti naturali di storia

“Esperimenti naturali di storia”, titolo originale “Natural Experiments of History”, di Jared Diamond – James Robinson, edizioni Codice, ISBN: 978-88-757818-7.
Lo scopo del libro è di dimostrare l’utilità del cosiddetto “metodo comparativo” che, secondo gli autori, può rivelarsi uno strumento di supporto molto valido per verificare le ipotesi e le ricerche che non possono essere ricondotte ad analisi di laboratorio e dove pertanto non sia possibile per il ricercatore verificare i risultati che possono scaturire da diverse applicazioni e combinazioni delle variabili in gioco semplicemente eseguendo molteplici esperimenti. Evidentemente, l’impossibilità di ricombinare a piacere i fattori e le variabili che hanno determinato un certo tipo di situazione costituisce una seria limitazione per tutte quelle scienze che, come la Storia, si occupano dello studio del passato. In questi casi, di fronte all’impossibilità di usare un approccio metodologico basato sull’osservazione dei diversi risultati ottenuti al modificarsi delle variabili applicate in un esperimento controllato, si può comunque rafforzare l’attendibilità delle proprie tesi riguardo all’importanza relativa di alcuni fattori caratteristici ragionando per analogia e quindi, andando a confrontare l’evoluzione di un certo numero di situazioni di partenza fra esse paragonabili, ma evolutesi differentemente , cercando di spiegare tali difformità attraverso i principali rapporti causa-effetto che si sono supposti come maggiormente rilevanti.
La bontà di questo approccio viene messa alla prova attraverso sette esperimenti diversi che riguardano i più svariati argomenti; si cerca ad esempio: di dimostrare la rilevanza di alcuni fattori ambientali per spiegare la differenziazione culturale delle società polinesiane; si confrontano le caratteristiche delle diverse fasi di sviluppo del West americano per metterle in relazione con quelle di altri territori di frontiera (la pampa argentina, l’Australia e la Siberia); si ricercano le ragioni della diversa evoluzione della rete di istituti bancari in alcuni paesi del continente americano (Brasile, Stati Uniti e Messico); oppure si cerca di dimostrare per i vari paesi africani se esiste una relazione fra l’incidenza della tratta degli schiavi e il loro grado di sviluppo economico a lungo termine; o ancora, si ricercano le cause per spiegare le differenze economiche riscontrabili fra paesi diversi che condividono contesti geografici apparentemente simili (confrontando ad esempio la diversa situazione di San Domingo e Haiti); o si valutano gli effetti a lungo termine dei diversi regimi di tassazione della proprietà terriera sul livello attuale di servizi pubblici presenti nelle diverse parti del territorio indiano; per finire, si cerca di dimostrare una relazione fra l’occupazione napoleonica e il successivo sviluppo economico per i diversi territori germanici.
Alla fine probabilmente il libro finisce per risultare abbastanza convincente riguardo alle possibilità offerte dal metodo comparativo, ma mi ha anche dato l’impressione di essere superficiale e frammentario. I casi proposti sono troppo numerosi, troppo diversi e per giunta, tutti liquidati in poche pagine. Pertanto, mentre da una parte è dimostrata la flessibilità offerta da questa metodologia d’indagine, dall’altra si ricava l’impressione che gli autori abbiano messo insieme un’opera raccogliticcia assemblando e riciclando materiale già disponibile. A titolo di esempio, il capitolo direttamente firmato da Jared Diamond relativo alla comparazione di Santo Domingo con Haiti e dove si accenna inoltre anche ai diversi destini di alcune delle società polinesiane era già apparso in una forma più elegante, chiara e maggiormente esaustiva nel libro “Collasso”, opera per altro egregia e di tutt’altro “spessore” dello stesso autore. Alla fine quindi il bilancio finale è deludente, personalmente da Diamond mi aspettavo di più e di meglio.

venerdì 16 settembre 2011

Noi, le scimmie buone - La scienza alla ricerca delle origini dell'etica

Su La Stampa del 14-09-2011, allegato all'inserto di Tuttoscienze è stato pubblicato un interessante articolo del primatologo Frans De Waal con il seguente titolo:"Noi, le scimmie buone - I test con i primati dimostrano che non c'è bisogno di Dio - gli ingredienti morali sono radicati nel passato evolutivo". Chi volesse consultare direttamente l'articolo può farlo ricercardo il percorso qui sotto indicato:
http://www.scribd.com/doc/65177065

Nel corso dell'articolo lo scienziato spiega i risultati di alcune ricerche riguardo al comportamento dei primati che sembrano dimostrare come essi siano capaci di comportamenti disinteressati che noi classificheremmo come "etici", quali ad esempio: consolare altri soggetti, aiutarli nella ricerca del cibo, ricercare riconpense per il prossimo oppure invece, rifiutare riconpense di qualità inferiore (cibo meno gradito) quando invece, per gli stessi compiti, altri soggetti ricevono ricompense di qualità superiore.
Creando un parallelo con gli esseri umani, si lascia intendere che la moralità possa essere più antica della religione. L'Autore quindi mette in guardia contro tutti coloro che vedono nella sola fede l'unico baluardo contro i comportamenti ripugnanti.

L'articolo è bello ed interessante e lascia spazio a considerazioni rilevanti. Devo però premettere che l'Autore non parla di Dio (il titolo in effetti è sensazionalistico ma fuorviante), ma solo di fede, peraltro immagino, più intesa nel senso di "religione" che non nel senso di ricerca di "spiritualità".
Secondo quanto ho capito, in sintesi si affermerebbe che i primati (uomini compresi) hanno una loro moralità innata e genetica. Semmai quindi ciò che ci sarebbe ancora da capire, sarebbero le ragioni per le quali essi si sono evoluti in questo senso (qui eventualmente si potrebbe immaginare uno spazio per reintrodurre l'opera divina!). Soprattutto però è possibile ipotizzare che siano le varie fedi e religioni a derivare da questa naturale inclinazione dell'uomo all'etica e non viceversa. Verrebbe quindi messo in crisi il dogma che siano state le religioni a creare le basi e i presupposti dell'etica umana. Tale ragionamento è ovviamente dironpente per tutti coloro che si ritengono depositari del "Verbo incarnato" in quanto dimostrebbe proprio la fallacità di quanti si ritengono gli unici custodi dell'etica, della morale e della verità assoluta. Nella migliore delle ipotesi infatti, cioè che un Dio "buono" effettivamente esista e sia alla base dell'etica umana, ogni diversa fede si ridurrebbe ad essere solo uno dei tanti ruscelli in cui si è disperso l'aveo che conduce a Dio ...... pertanto, ogni religione verrebbe ricondotta al più, ad essere solo un percorso utile fra tanti altri!

Recensione: La nascita delle civiltà

“La nascita delle civiltà”, titolo originale “Civilizations”, di Felipe Fernàndez-Armesto, edizione Bruno Mondadori, ISBN: 978-88-61-593947.
L’Autore affronta il tema della nascita della diffusione e, nei molti casi in cui ciò è avvenuto, della decadenza e dell’estinzione delle civiltà umane. Il tema è già stato trattato in passato da molti autori e secondo molti punti di vista ma Fernàndez_Armesto riesce a conferire alla sua opera un taglio particolarmente interessante e di grande originalità. L’Autore sviluppa una serie di tesi convincenti che rompono i soliti schemi basati sul “diffusionismo”, la teoria che in sostanza descrive la civiltà umana come un percorso cronologico basato su un processo di progressivo irraggiamento avente origine da pochi e specifici luoghi, quali ad esempio: l’Egitto, la Mesopotamia, la Cina, l’india, l’America Centrale, ecc. Secondo l’Autore invece, la storia della civiltà, o meglio, delle civiltà umane è molto più ricca e variegata e può essere meglio compresa se osservata con riferimento ai diversi ambienti fisici e geografici ai quali la vita umana ha finito per adattarsi. Il libro quindi non descrive le civiltà secondo un criterio tradizionale e scolastico, ma cercando di instaurare una relazione fra le diverse tipologie di ambienti fisici e geografici e le varie società umane che hanno finito per colonizzarli, modificarli o comunque adattarsi a essi. l'opera è suddivisa in varie parti che descrivono vari casi di adattamento a diverse tipologie di ambiente, fra i quali vengono ricompresi ad esempio: i deserti caldi e quelli freddi, le praterie e le steppe, le foreste e le giungle, le pianure alluvionali, le montagne, le isole, le coste e i mari. Se ne ricava una visione fantasmagorica e caleidoscopica delle diverse società umane che si sono succedute o che ancora permangono nei più svariati ecosistemi e, in molti casi citati, nei luoghi più impensabili e inospitali, e sono descritte le tante strategie adattive messe in atto per sopravvivere e prosperare nelle più diverse situazioni ambientali. Questa particolare impostazione della narrazione che permette appunto di comparare la capacità di sopravvivenza delle diverse organizzazioni umane rispetto alle reali potenzialità fornite dall’ecosistema nel quale furono o sono ancora collocate, è utile per rendere giustizia a quelle culture che, secondo standard meno ponderati, sono state o vengono considerate sottosviluppate. Pertanto, uno degli aspetti positivi del libro è di estendere, elevare e rendere più equo il concetto riferibile al termine “civiltà”. Importantissimo anche il messaggio dell’Autore che ci ricorda che lo sforzo di civilizzazione non è di norma una mera risposta organizzativa a degli stimoli ambientali, ma storicamente si è più spesso configurato come un’esplicita scelta e un ideale che prescinde dalle caratteristiche fisiche del proprio ecosistema di riferimento e che è originato soprattutto dalla volontà di una certa organizzazione umana di adattare e modificare l’ambiente circostante. Questa volontà di “civilizzare” non sempre ha prodotto risultati positivi in termini di costi umani; spesso ha favorito l’instaurazione di regimi fortemente gerarchizzati, oligarchici ed autoritari e la concentrazione della ricchezza, del potere e degli agi nelle mani di un’elite ristretta. A questi aspetti vanno aggiunti quei casi nei quali sono stati prodotti effetti deleteri anche sull’ambiente che in più di un caso ha smesso di essere “sostenibile” perché modificatosi, magari a seguito di fattori concomitanti, ma fra i quali spesso figurava l’eccessivo sfruttamento da parte dell’uomo. Eppure, nonostante i fallimenti, le ingiustizie e i disastri prodotti, la volontà di civilizzare continua a rimanere una di quelle specificità del genere umano che lo distingue, in termini positivi, dal resto degli esseri viventi.

martedì 6 settembre 2011

Statuto dei lavoratori e manovra finanziaria - Sciopero!

Oggi ho deciso di partecipare allo sciopero nazionale indetto dalla CGIL. Per me si tratta di una novità epocale. Fino ad ora infatti, ed ormai si tratta per giunta di lontani ricordi, gli unici scioperi ai quali avevo aderito erano quelli relativi al rinnovo del contratto aziendale per dipendenti assicurativi che venivano indetti dai sindacati del Gruppo Assicurativo Reale Mutua. Queste tipologie di “proteste” non avevano, almeno secondo la mia percezione, alcun significato politico ed anzi, in ottica dichiarativamente corporativa, miravano al miglioramento e non tanto alla salvaguardia delle condizioni economiche dei dipendenti. Potrei anche aggiungere che a me, nella mia disincantata gioventù, apparivano un po’ “rituali” in quanto il risultato sembrava sempre abbastanza scontato. I sindacati chiedevano e l’azienda, comunque improntata ad una gestione del personale benignamente paternalistica, inizialmente rifiutava e poi, “piegata” dalla protesta, normalmente acconsentiva alla concessione di quasi tutte (mai tutte!) le richieste. A me sembrava tutto molto “per bene” ed era ovviamente una realtà molto lontano dagli scioperi e delle lotte sindacali degli anni sessanta e settanta; soprattutto, era tutto molto distante dal tipo di confronto che ha sempre caratterizzato le relazioni sindacali del settore industriale. Sono ormai passati più di dodici anni da quando ho volontariamente lasciato in cerca di migliori occasioni e con un po’ di nostalgia, quella realtà lavorativa e i suoi “minuetti” sindacali e, nel corso di tutti questi anni, fortunatamente, non ho mai dovuto lottare per le mie richieste economiche. Dal punto di vita politico, mi sono realmente fatto coinvolgere solo nell’occasione del referendum abrogativo relativo all’applicazione dell’Art.18 dello Statuto dei Lavoratori, promosso nel 2003 da Rifondazione Comunista (anche allora mi sembrò strano questo mio schierarmi con i “comunisti” :-)!) e sonoramente bocciato dall’elettorato con una partecipazione inferiore al 26% (io ero uno fra quei pochi votanti). Allora, seppure la vicenda non mi riguardasse da vicino, ritenevo che fosse etico estendere alle realtà lavorative con pochi dipendenti quelle tutele che caratterizzano le imprese più grandi. Oggi purtroppo, non si parla più di estendere delle tutele, ma anzi si vanno ad intaccare progressivamente dei diritti importanti dei lavoratori seguendo una logica che, secondo il mio punto di vista, poco ha a che vedere con la necessità di dare maggior competitività e flessibilità al nostro sistema economico, ma che sembra semplicemente indirizzata a riportare indietro l’orologio della storia. Ecco quindi che, seppure a distanza di sicurezza dalla “piazza”, mi trovo di nuovo per motivi di coscienza a fare comunella con i “komunisti” (come li definirebbe il nostro “stimato” Presidente del Consiglio). Bene, magari non servirà a nulla, ma almeno, pensando al futuro di questo Paese e a quello dei miei figli, questo minuscolo atto di protesta questa sera mi consentirà di dormire tranquillo pensando che la vera democrazia si estrinseca in tanti piccoli singoli atti, che alla giusa di granelli di polvere vanno ad intaccare il percorso di regressione verso nuove forme di totalitarismo.
Se vogliamo poi parlare di manovra finanziaria, scopo iniziale dello sciopero! Beh, ci vorrebbero molte pagine per motivare e distillare la parola “Vergogna”…….

venerdì 26 agosto 2011

Crisi economica e proposte di soluzione: Privatizzazioni e alienazioni patrimoniali.

Uno degli strumenti che spesso viene proposto per “far cassa” e pertanto contribuire a ridurre debito e disavanzo pubblico è quella di dismettere e dunque privatizzare asset patrimoniali di proprietà dello Stato, di Enti pubblici, o del demanio. Spesso quindi si parla di mettere in vendita società sottoposte a controllo pubblico, immobili e persino parti del territorio (ad esempio le isole). E’ chiaro che di fronte all’emergenza, anche vendere i “gioielli di famiglia” può essere una soluzione, normalmente però, si tratta di quel genere di sacrifici che si dovrebbero fare mal volentieri e solo nel momento in cui si siano esaurite altre possibilità. Strano poi che mediamente si tenti di far passare queste operazioni come virtuose in sé, anche al solo scopo di ridurre la presenza pubblica nell’economia. Un’inclinazione di questo senso, a mio avviso, va semplicemente contro ogni comune indicazione del buon senso; da quando, infatti, svendere il proprio patrimonio è considerata come una scelta auspicabile? Noto che tale modo di pensare persiste perché sembra ancora piuttosto diffuso il dogma che presuppone a priori che la gestione di aziende e patrimoni da parte dei privati sia sempre ed in ogni caso più efficiente e comunque auspicabile rispetto a quello pubblico. Non dico che questo, in alcuni casi non sia vero, sostengo però che tali affermazioni nella pratica non risultano sempre valide e nego che comunque il vantaggio sia sempre chiaramente dimostrabile. Anzi, sarebbe auspicabile che queste affermazioni fossero attentamente verificate ex-post in conformità a dati oggettivi e magari non limitandosi alle sole considerazioni economiche. L’implementazione di controlli efficaci e la ricerca dell’efficienza sono, infatti, più legate alla volontà piuttosto che alla natura del soggetto controllante, a dimostrazione di ciò, ed è una cosa nota a tutti, si può facilmente verificare che, fra le maggiori società quotate presso la borsa valori vi siano non poche realtà a controllo pubblico e che molte delle quali non sfigurano per niente in termini di risultati economici e patrimoniali conseguiti. Ovviamente non è dato sapere se queste aziende avrebbero prodotto risultati ancora migliori sotto controllo privato, ma intanto è certo che il loro costante e cospicuo flusso di dividendi giova non poco al Tesoro, alla Cassa Deposito e Prestiti e ai Comuni che le controllano, ed è nel contempo altamente probabile che ci siano file di potenziali acquirenti pronti a mettere le mani a prezzi scontati su tali galline dalle uova d’oro. Nel frattempo, tanto per fare un esempio di opposta natura, non risulta che ci sia la fila per strada per assumere il controllo di realtà dissestate come la Tirrenia, dove invece il privato avrebbe ampie possibilità di mostrare tutto il suo superiore virtuosismo in fatto di management. Per dirla in chiare parole quindi, le privatizzazioni finiscono spesso per configurarsi come una semplice distrazione di ricchezza pubblica a vantaggio di soggetti privati, che grazie alle proprie entrature, derubano la collettività. Esse sono pertanto da evitare in tutti quei casi in cui non appaiono come la soluzione più razionale per valorizzare, salvare e risanare quegli elementi patrimoniali che sennò andrebbero definitivamente perduti.
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