venerdì 29 dicembre 2017

Recensione: Se questo è un uomo

“Se questo è un uomo”, di Primo Levi, edizioni Biblioteca di Repubblica, ISBN 84-8130-458-1.

L’Autore, attraverso una nota opera autobiografica racconta la propria esperienza di internato ebreo nel lager nazista di Auschwitz.

Questo libro, giustamente assurto alla fama di capolavoro, non ha bisogno di ulteriori commenti, né è necessario ricordare le atrocità compiute in quel campo di sterminio per immedesimarsi nelle traversie patite dall’Autore.

Una cosa però forse vale la pena di rimarcarla; questa è la seconda volta che leggo questo libro. Mi era stato propinato come lettura obbligatoria a scuola e, come tale, non mi aveva lasciato né ricordi, né impressioni; anzi, il suo messaggio centrale mi era in qualche modo sfuggito, diluito nel fiume delle immagini e delle situazioni drammatiche, ma soprattutto, perché filtrato attraverso una chiave di lettura che enfatizzava le particolarità del momento storico e stendeva un velo di retorica buonista e di facile dietrologia relativamente ai fatti narrati.

Invece, il vero messaggio dell’Autore, forte e agghiacciante, a mio avviso, emerge chiaramente nella sua opera e, nel caso uno avesse ancora il dubbio, esso viene esplicitato dallo stesso nel capitolo dei “I sommersi e i salvati”. In esso si spiega come si potevano identificare fin da subito i prigionieri che avrebbero avuto qualche chance di sopravvivenza rispetto a quelli che sicuramente avrebbero finito per soccombere. Ebbene, in questi “vincenti”, veri campioni di natura darwinista non c’è nessuna caratteristica che una società “normale” e, supposta “civile” classificherebbe come “positiva”, anzi, essi appaiono quasi l’antitesi dei nostri modelli morali … eppure, essi si salvano! Mentre gli altri, quelli che ancora si illudono che abbia senso seguire le regole (quelle del campo soprattutto, che assurdità!), che si affidano alla fede in Dio o nel prossimo … soccombono, perché in un mondo di risorse limitate i pochi si sorreggono necessariamente solo a danno dei tanti.
Terribile lezione questa che toglie ogni illusione riguardo alla reale tenuta e valore di tutto ciò che noi riteniamo elevato: la morale, la religione, la solidarietà, la certezza della bontà di fondo della natura umana, l’ordine sociale e ogni altro concetto che sia al di fuori della nostra mera e pura capacità di sopravvivere da soli e, spesso, a danno di altri.

In conclusione, per chi è passato attraverso esperienze come quella dell’Autore, le nostre società e le normali convenzioni sociali devono apparire come sottili veli di illusione pronti a lacerarsi di fronte a delle serie minacce che minino la possibilità di sopravvivenza dei singoli; in tali situazioni, tutto il castello delle nostre certezze cade per lasciare spazio al solo istinto di sopravvivenza e di sopraffazione.
Cosa ci può essere di peggio rispetto all'avere acquisito una tale consapevolezza?

martedì 14 novembre 2017

L'Italia fuori dai mondiali di calcio! ... Oibò!

La nazionale di calcio è fuori dai mondiali.

Non che sinceramente me ne importi molto; di fatto, infatti, tutto ciò sarebbe sostanzialmente irrilevante se non fosse che si dovrebbe riflettere almeno po' riguardo alle ragioni che, anno dopo anno stanno portando questo sport, un dì di eccellenza, alla crisi.

Le cause “vere” sono, a mio avviso scontate e legate al solito fenomeno della “liberalizzazione”.

Stilando un breve elenco, penso che molti dei fattori remoti scatenanti della crisi vadano ricercati nelle regole che hanno permesso ai club privati di servirsi prevalentemente di stranieri a scapito dei vivai. A questo aggiungo poi altre ragioni strutturalmente almeno altrettanto se non più rilevanti; ad esempio, i bilanci delle società calcistiche sembrano fatti apposta per riciclare denaro, mentre la necessità di competere nel mondo dell’entertainment e dello spettacolo impongono scelte vincolanti per accaparrarsi sponsor,  vendere i diritti, ecc..

In sintesi, si è premiata la politica dei club, soprattutto di quelli più dotati di risorse, a scapito dell’obiettivo e interesse “nazionale” (posto che abbia ancora senso tale termine); storia nota in tanti altri settori del nostro tessuto sociale, economico e industriale.


Oltre a ciò, possiamo sicuramente nasconderci dietro un dito adducendo le altre tantissime ragioni, alcune delle quali, anche sociali, basta soffermarsi ad osservare che il calcio non è più il gioco di strada favorito dagli italiani … anzi, nessuno gioca più in strada! 

venerdì 3 novembre 2017

Recensione: Prima dell'alba

“Prima dell’alba”, di Paolo Malaguti, Edizioni Neri Pozza, ISBN 978-88-545-1117-0.

“… e allora il Vecio si addormenta … rigirandosi nella mente quell’unica intuizione che gli pare possa avere qualche senso, nella sua vita storta: a saperlo, bisognava morire prima.
E se non si moriva, bisognava almeno disubbidire.
O almeno, ubbidendo, bisognava provare a perderla, la guerra.
E invece il Vecio ha ubbidito.
E il Vecio ha vinto la guerra.

Forse il romanzo più avvincente che ho letto in questi ultimi anni, che mette insieme la vita di trincea e gli orrori della Grande Guerra con le indagini poliziesche relative ad un incidente ferroviario occorso nell'ormai fascistizzata Italia degli anni trenta.

Cosa unisce quindi l’esperienza del “Vecio”, un fante come tanti, impegnato come tutti tenacemente a sopravvivere sul fronte italiano della prima conflitto mondiale, alle indagini svolte più di dieci anni dopo il termine di tali eventi, condotte dall’ispettore Malossi, un ex “ragazzo del ‘99” (l’ultima leva che ha partecipato al conflitto), incaricato di far luce su quella che ha tutta l’aria di una morte accidentale?

È opportuno scoprirlo personalmente perché, la storia, l’ambientazione e le descrizioni che fanno da cornice all’intera vicenda valgono la pena di essere scoperte e, la morale che se ne trae, forse dovrebbe essere applicata … all’occorrenza.

A titolo di curiosità: la morte dell’ex generale Andrea Graziani è realmente avvenuta secondo le modalità descritte nel romanzo e il caso fu effettivamente archiviato come “caduta accidentale” (cit. wikipedia).

Avevo però trovato traccia di questo incidente e dei dubbi da esso sollevato in altri libri, in questo caso di saggistica. Ad esempio, se la memoria non mi tradisce, in “Grande guerra, piccoli generali” di Lorenzo Del Boca, 9788802077086. 

venerdì 13 ottobre 2017

Recensione: Il rinoceronte d'oro

“Il rinoceronte d’oro”, titolo originale: “Le Rhinochéros d’or. Histoires du Moyen Âge africain”, di François-Xavier Fauvelle, traduzione di Anna Delfina Arcostanzo, Edizioni Einaudi, ISBN 978-88-06-23379-1.

Attraverso una trentina di capitoli costruiti su brevi testimonianze di viaggiatori, scampoli di informazioni tramandati per tradizione orale e pochi e ancor meno sistematici ritrovamenti, l’Autore cerca di rimuovere un vasto “nulla” che, purtroppo risulta effettivamente da colmare. Questa mancanza di conoscenza effettivamente è, a ben vedere, sconcertante e riguarda la Storia africana fino alla colonizzazione.
Purtroppo sappiamo pochissimo di essa; dei popoli, delle società, degli imperi, della cultura e dei manufatti che produssero le diverse civiltà africane che si avvicendarono in questo lungo periodo di tempo pressoché totalmente (per adesso) consegnato all’oblio.

Dunque esattamente questo è il pregio di quest’opera, essa ci fa comprendere che l’Africa non era solo una terra selvaggia (e popolata da selvaggi, come certamente voleva presentarla la retorica coloniale), ma in seno ad essa, come avvenne per altro in tantissimi in altri luoghi del pianeta, si avvicendarono civiltà capaci di supportare società evolute e per lo più collegate con le grandi rotte commerciali del tempo. Il saggio però è anche gravato da un grande limite, ammesso anche dall’Autore; purtroppo è possibile solo fornire indizi, piccoli stralci, scarne testimonianze di ciò che fu e, in sintesi, quanto viene presentato non basta né ad appagare la curiosità, né tanto meno a catturare il quadro d’insieme.

Le tessere che compongono il quadro sono veramente troppo poche e troppo scollegate fra loro per lasciarne intravvedere la figura e si finisce per rimanere un po’ delusi.


giovedì 12 ottobre 2017

Recensioni: Teutoburgo

“Teutoburgo” di Valerio Manfredi, edizioni Mondadori, ISBN 978-88-04-66578-6

Romanzo storico incentrato sulla figura di Arminio, principe dei Cheruschi, artefice della sconfitta di Teutoburgo (9 d.C.), una fra le più citate e disastrose fra quelle avvenute a danno dell’impero romano.

Non sarebbe giusto attendersi molto di più da un romanzo di questo filone se non un po’ di evasione, di sano coinvolgimento e divertimento. Qui sta appunto il problema di quest’opera che, a parer mio, non arriva a soddisfare questi requisiti minimi e risulta sottotono sia rispetto al genere sia rispetto ad altri romanzi del medesimo Autore.

Ho fatto un po’ di fatica a finirlo, ma hanno avuto il medesimo problema pure  i miei figli … che di solito questi libri li divorano!


giovedì 5 ottobre 2017

Movimenti separatisti: qualche riflessione sul tema

I vari movimenti separatisti che mettono a repentaglio l’unità degli Stati nazionali sono da una parte una tardiva vendetta della storia, dall'altra frutto essenzialmente di una visione miope e a corto termine dell’attuale situazione politica e socio economica. Gli errori sono un po’ da distribuirsi nel campo di tutte le istituzioni sia che esse siano locali, nazionali e, persino europee.

 Gli Stati nazionali si sono spesso formati a seguito di violente politiche di annessione e assimilazione del tutto irrispettose delle differenze culturali ed economiche dei territori che venivano mano a mano aggregati. Però, per lustri quando non per secoli, la potenza relativa conseguita dal processo di unificazione è stata anch'essa una garanzia contro le mire di annessione di altri vicini, magari ancora più “alieni” di quelli appartenenti alle élite nazionali dominanti. Vi erano poi una serie di fattori economici legati alla necessità di appropriarsi del controllo di risorse naturali e delle rotte commerciali che richiedevano l’assunzione di una certa taglia; in sintesi, se non eri grosso non potevi contare!

La vendetta della storia si è resa possibile, paradossalmente a seguito del lungo periodo di pace e di prosperità inter europea, ma anche, grazie all’“ordine” mondiale (garantito in sostanza dagli USA) e al liberismo economico (voluto dalle élite economiche) attualmente necessario a garantire le condizioni della cosiddetta “globalizzazione”; in questo momento storico le merci circolano, le risorse si comprano, i mercati sono aperti e non è quindi necessario controllare direttamente ampie porzioni di territorio con presenze militari e burocratiche ingombranti o svilupparne le infrastrutture direttamente, meglio anzi lasciar fare questo lavoro alle élite locali.

Così, apparentemente a seguito di un ragionamento “vincente”, porzioni territoriali, sostanzialmente irrilevanti come singole entità autonome, ma magari ricche di qualche (spesso momentanea) eccellenza e che in passato, data la piccola taglia sarebbero state subito oggetto di contesa di “qualcun altro”, si sono divise dal loro corpo comune (territori ex sovietici, Jugoslavia, Cecoslovacchia), ed altre hanno in animo di fare lo stesso. Ciò avviene, in estrema sintesi, perché si sono indebolite le politiche di controllo interno degli stati nazionali (o delle “false” federazioni) e perché è cessata l’esigenza di fare politica di potenza e fronte comune contro le minacce esterne.

In Europa il fenomeno sembra in crescita sia perché da tempo l’area è ragionevolmente tranquilla ma anche a seguito di una mancanza legata al processo di formazione dell’Unione, purtroppo rimasto incompiuto e sbilanciato sul piano politico. In effetti, su questo piano l’Unione Europea e un’istituzione senza senso e senza vocazione perché non è riuscita a farsi attribuire quei poteri (es., politica estera e difesa) che giustificano la sua esistenza come sovrastruttura a garanzia delle differenze locali e, dall’altra parte, in virtù della sua esistenza e del suo illusorio ombrello unitario, essa ha contribuito a minare l’autorevolezza dei vari Stati nazionali che la costituiscono.

In sintesi il “piccolo” oggi pensa, magari anche con una certa ragione (ma anche con una grossa dose di cinismo ed egoismo), di poter fare a meno della struttura nazionale intermedia perché si illude che ci sia la “Grande Mamma” (la UE) a tutelare i suoi interessi e a proteggerlo qualora fosse necessario … Grosso errore, penso io! Perché stante la situazione attuale delle istituzioni europee questa potrebbe rivelarsi una tragica illusione!

Soluzioni? Una proponibile si può basare sul presupposto che non ha molto senso oggi mettere in discussione il processo storico di formazione degli Stati nazionali; comunque essi si siano formati, adesso ci sono, ed è inutile disintegrarli in nome di differenze e rancori passati con lo scopo di “dissolversi” o “parcellizzarsi” in un illusorio “più grande”. Dall’altra parte, fatto salvo un imprescindibile rapporto mutualistico fra territori nazionali, gli organi centrali devono accettare di delegare di più nei confronti delle periferie in modo da mantenere una coesione basata sul consenso e sull'attuazione di sinergie (mi fa ridere a pensare quanto possa essere temibile l’esercito catalano … o quello lombardo!) per quelle strutture ove abbia un senso ricercarle.


 Forse dunque, il modello di riferimento potrebbe essere la confederazione svizzera.

martedì 26 settembre 2017

Recensione: Le revenu de base – une idée qui pourrait changer nos vie - il reddito di base, un'idea che può cambiare la nostra vita

“Le revenu de base – une idée qui pourrait changer nos vies”, di Olivier Le Naire e Clémentine Lebon, Actes Sud/Colibris, ISBN 978-2- 330-07241-4.

Breve saggio in francese su di un argomento che sta lentamente facendosi spazio fra le diverse proposte di politica sociale e assistenziale.

Gli Autori, prendendo a prestito una delle tante definizioni create dai comitati promotori,  definiscono il “reddito di base” (o “reddito universale”, “reddito di cittadinanza”, …) come: “ … un diritto inalienabile, incondizionato, cumulabile con altre rendite, distribuito da una comunità politica a tutti i suoi membri, dalla nascita alla morte, su base individuale, senza controlli né esigenza di contropartita, il cui ammontare e le relative modalità di finanziamento sono determinate democraticamente”.

L’idea del reddito di base è in corso di maturazione ormai da parecchio tempo e, secondo il parere di molti sostenitori, persino da secoli, posto che, forse con un po’ di fantasia, più di un accenno a questo argomento può ritrovarsi nel pensiero e nelle opere di filosofi e pensatori del passato (gli Autori citano, fra altri esempi, “Utopia”, opera cinquecentesca del filosofo Thomas Moore).

Comunque la si pensi a riguardo, quantomeno è ben più certo e documentato che tale idea trovò un certo spazio di dibattito nel corso della rivoluzione francese (ad esempio ad opera di Thomas Paine).

Al di là di queste curiosità storiche, bisogna comunque riconoscere che le discussioni legate al reddito di base siano un tema che rientra ormai spesso nel dibattito politico; basti pensare al fatto che esso costituisce un punto del programma politico del Movimento Cinque Stelle in Italia, di movimenti di sinistra come “Podemos” in Spagna e proposte in questa direzione emergono da diverse forze politiche e movimenti europei (ad es. in Olanda e Finlandia); in Svizzera tale emolumento è stato recentemente oggetto di un referendum consultivo, mentre in Alaska viene corrisposto da alcuni anni ai residenti un “dividendo” a fronte dello sfruttamento delle risorse petrolifere estratte n loco che, almeno in parte, richiama la definizione del reddito di base; esso, infine,  è stato oggetto di sperimentazione in alcuni Paesi in via di sviluppo e negli USA.

Tema interessante non solo perché, un po’ prosaicamente, tocca la sfera della materialità e, in particolare quella dei redditi, della loro redistribuzione e della fiscalità, ma anche perché allarga da subito la discussione ad aspetti che abbracciano la sfera dei diritti, le libertà, l’equità, la dignità e suggeriscono una possibile modalità per rendere questi concetti effettivamente un po’ più attuabili.

Il reddito di base può anche costituire un promettente (o rischioso, secondo i detrattori) terreno di esperimento sociale; infatti, risulta subito chiaro che l’introduzione di questo emolumento, soprattutto nel caso in cui esso fosse di una certa consistenza, causerebbe un vero e proprio cambio di paradigma alla nostra società civile, mettendone in crisi gli assetti istituzionali, ideologici e gerarchici che la reggono, promuovendone, invece, di altri; basti pensare ad alcune delle nostre consolidate credenze, per esempio, relativamente al dogma della centralità, necessità e sacralità del “valore” lavoro.

Anche se risulta abbastanza chiaro come gli autori siano favorevoli alla misura e ne perorino attivamente il dibattito, il saggio si presenta agevole e intelligente ed anche relativamente equilibrato nel lasciare spazio a dubbi e perplessità. Personalmente ho trovato deboli le argomentazioni del capitolo quattro che si occupa dei modi in cui, il reddito di base potrebbe essere finanziato, ma a questo proposito, sono gli stessi autori che si soffermano a sottolineare la criticità di questo aspetto del dibattito!


Da accogliere e diffondere il messaggio portante del libro: “promuovere l’idea, discuterne l’applicazione, sperimentarla con gradualità e prudenza”.

martedì 29 agosto 2017

Recensione: Il terra d’Africa – Gli italiani che colonizzarono l’impero

“Il terra d’Africa – Gli italiani che colonizzarono l’impero”, di Emanuele Ertola, edizioni Laterza, ISBN 978-88-581-2767-4.

Il saggio racconta efficacemente sulla base di dati, documenti e testimonianze la colonizzazione italiana dell’Etiopia; fenomeno effimero, ma di una certa consistenza numerica che si colloca fra il 1936 e la prima metà degli anni quaranta del novecento, termine che ne vide la forzata cessazione a seguito della disfatta italiana in Africa Orientale avvenuta a seguito delle vicende legate alla Seconda Guerra mondiale.

L’Autore tratteggia con efficacia le varie figure del migrante, inizialmente legate più alla professione militare e ai lavoratori coinvolti nella logistica bellica, poi più legati al settore amministrativo, al commercio e alla ristorazione, oppure al trasporto.

Nei sogni del regime l’impero era destinato a dare sfogo alla domanda di lavoro e all’emigrazione e, pertanto, le colonie erano soprattutto viste in funzione di territori di insediamento. I territori italiani d’oltremare non si dimostrarono però mai all’altezza delle aspettative che la classe politica e, soprattutto i migranti, avevano verso di essi, ed anche il territorio etiope non fece eccezione; dopo un boom economico iniziale legato allo sforzo bellico di conquista che arricchì pochi speculatori, l’economia finì per assumere un ritmo pressoché stagnante che spesso deluse coloro che si erano lasciati la patria alle spalle in cerca di fortuna.


Tipica storia italiana!

venerdì 25 agosto 2017

Recensione: Il Disertore

“Il Disertore”, titolo originale: “Der Überläufer”, di Siegfried Lenz, Riccardo Cravero, edizioni Neri Pozza, ISBN 978-88-545-1385-3.

Il romanzo, scritto nell’immediato dopoguerra, fu rifiutato dall’editore e venne pubblicato postumo dopo più di sessant’anni.
Evidentemente, a pochi anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale esso toccava temi ancora troppo sentiti dal pubblico; la storia è infatti incentrata sulla storia di Walter Proska, un soldato della Wehrmach che, nelle ultime fasi del conflitto finisce per disertare unendosi all’esercito sovietico che progressivamente avanza da Est.
Curioso il fatto che la vicenda rivesta anche un aspetto autobiografico perché, non solo l’Autore disertò anch’egli (ma più saggiamente, fuggì in Danimarca e non in Russia!); ma entrambi i personaggi, quello reale e quello immaginario, finirono per collaborare attivamente con gli ex nemici, il primo in veste di interprete, il secondo lavorando per l’ufficio di propaganda politica durante il conflitto e nella fase immediatamente successiva ad esso con lo scopo di consolidare il nuovo potere regime comunista nei territori appena “liberati”.

A distanza di più di mezzo secolo da tutti questi fatti, trovo personalmente che il racconto non desti né particolare interesse, né particolare scalpore. La situazione e i personaggi, è vero, suscitano una certa curiosità, lo stile è scorrevole e l’ambientazione è nel contempo sia vagamente surreale (per noi) quanto realistica, ma alla fine non mi è rimasto nulla di più!


giovedì 24 agosto 2017

Terremoti, chiacchiere e piagnistei nel Paese dei bla-bla

Ogni volta che in Italia si registra un terremoto, una frana, un’alluvione e si fa il conto delle vittime è sempre la stessa solfa; dopo (ma anche durante!) il tragico conto dei morti, per lo più evitabili, si parla di abusivismo, della cattiva qualità delle costruzioni ed anche, vista la nostra storia, della loro vetustà ed inadeguatezza degli edifici … Si parla, parla, parla e non si fa nulla! Per agire infatti bisognerebbe anche decidere chi paga il conto! E questo, ovviamente non lo vuole fare nessuno.

Evidentemente, se da noi le case crollano come la capanna di paglia dei tre porcellini al primo sospiro del lupo cattivo, per eventi sismici che in Paesi civili a stento farebbero muovere le persone dai propri letti e dalle proprie scrivanie, bisognerebbe riconoscere che abbiamo parecchio lavoro da fare per adeguare a standard di sicurezza degni del terzo millennio il nostro patrimonio immobiliare.

Tanto per dirne una, ad esempio, colpisce il fatto che in qualsiasi transazione immobiliare, o in caso di locazione, venga imposto di dimostrare l’adeguatezza dell’impianto elettrico, si espone il livello di certificazione termica … ma della stabilità dell’edificio e dell’idoneità della sua collocazione in rispetto al rischio idrogeologico dell’area di edificazione, proprio non gliene frega nulla a nessuno! Possibile che non esista un certificato di questo genere che inchiodi alle loro responsabilità gli enti locali di competenza? A nessuno viene in mente che a comprarsi o a affittarsi una baita fatiscente in Valle di Susa poi questa ti potrebbe cadere in testa al primo soffio di vento?

Intanto, per venire a capo del problema bisognerebbe cominciare a prendere atto che, se proprio non vogliamo essere ciechi, le autorità locali sono da sempre “naturalmente” colluse e spesso direttamente responsabili degli abusi compiuti e delle carenze costruttive riscontrabili in un certo territorio.
Direi quasi che la carriera del sindaco/geometra/costruttore sia il pedegree scontato e ideale del politico locale che si trova, ovviamente catapultato in un contesto economico e sociale che lo vede in continuo conflitto di interessi fra le esigenze nazionali di ordine e disciplina del territorio e gli appetiti suoi e dei propri concittadini. È il semplice buonsenso quindi che imporrebbe che tale autorità debba venire esautorata sia dai compiti di stima del patrimonio edilizio ai fini della determinazione delle imposte patrimoniali, sia di certificazione di idoneità dei progetti edilizi, sia alle verifiche degli abusi commessi. Detto in altre parole, il sindaco/geometra/costruttore progetti e edifichi pure, poi però, il controllo del progetto deve venire fatto da un ente “superiore” che non abbia legami ed interessi diretti con il territorio, mentre il controllo degli abusi dovrebbe essere svolto da personale itinerante di un ente centralizzato.

Per quanto riguarda la messa a norma di quanto c’è di esistente, sul piano delle competenze dovrebbero valere le medesime regole; dovrebbe essere qualche “sceriffo” di fuori che deve definire cosa si debba abbattere e cosa si possa adeguare, in modo che gli interventi chirurgici vengano definiti da qualcuno che, si lasci alle spalle il territorio e tutto il carico di inevitabili rancori che l’opera di bonifica avrà necessariamente fatto insorgere.

Per quanto riguarda i costi dell’intervento … qui giunge la nota veramente dolente. Secondo il mio parere, il costo delle demolizioni deve accollarsele in maniera prevalente la comunità locale (dunque pagano i comuni che sanano il debito imponendo tributi ai cittadini) perché essa è stata collettivamente responsabile per gli abusi. Riguardo alle opere di adeguamento (per ciò che non va demolito) bisognerebbe ripartire gli oneri attraverso meccanismi che impongano ai proprietari di sopportare la maggior parte del costo fornendo però meccanismi compensativi di detrazione fiscale e prestiti a tassi nulli e/o agevolati. In ogni caso, chi non effettua gli adeguamenti entro un certo “ragionevole” lasso di tempo deve venire spossessato delle proprietà immobiliari incriminate.

… e per gli inevitabili malumori e disordini, con tanto di sindaco, prete e madri piangenti e incatenate in prima fila?
Una solida cura a base di manganello potrebbe essere una buona soluzione 😊!


venerdì 11 agosto 2017

Recensione: Tristi tropici

“Tristi Tropici”, titolo originale: “Tristes tropiques”, di Claude Lévi-Strauss, traduzione di Bianca Garufi, edizioni il Saggiatore, ISBN 978-884282160-1.

Un libro “strano”; in parte saggio di antropologia, in parte diario di viaggio e autobiografia inframezzata di riflessioni filosofiche sul proprio ruolo e sulle proprie motivazioni, sulla figura dello studioso e, più in generale, sui limiti e sulle caratteristiche delle società umane.

L’opera descrive principalmente l’esperienza di ricerca sul campo svolta in Brasile nel corso degli anni trenta del novecento, anche se spesso emergono paragoni con delle ricerche successive svolte principalmente lungo la fascia tropicale asiatica. Le osservazioni dell’Autore non si limitano al solo studio delle popolazioni ancora “non civilizzate” con le quali egli entra in contatto, ma si estende a tutto l’ambiente “di frontiera” che, letteralmente punteggia l’entroterra brasiliano e che, mano a mano che ci si allontana dalle città principali e dai centri di più antico insediamento coloniale tende a creare una specie di società intermedia del sertão (boscaglia) o della foresta pluviale che sfuma dal  modello classico proposto dalla civiltà occidentale per contrapporsi, avvicinarsi, contaminarsi e integrarsi con quello indigeno.

Perché però questi tropici sarebbero “Tristi”, un po’ in contraddizione con il nostro immaginario collettivo? Devo ammettere di non averlo capito in pieno, certo però che l’occhio attentamente indagatore dell’Autore, accompagnato alle sue profonde riflessioni ci portano a comprendere non solo molte delle contraddizioni e storture della nostra civiltà, ma nulla viene neanche risparmiato a quelle indigene che vengono descritte in tutta la loro asprezza e, letteralmente “senza veli”.
Il clima che emerge è, in un certo senso malinconico, da qui forse si spiega il titolo dell’opera!

Non bisogna pensare però che il libro sia in qualche modo noioso o poco interessante, al contrario, esso stimola la curiosità per l’esotico e per l’ignoto, che viene però collocato in una corretta, seppur tagliente dimensione terrena priva di quella carica ideale che spesso la mistifica. 

venerdì 28 luglio 2017

Caso Stx: déjà vu!

Siamo alle solite! Visto che in Europa siamo tutti uguali e tutti fratelli, fare shopping fra i "boveri cugini" cisalpini dell'oltre alpe, magari simpatici, ma in fondo un po'  "Baluba" è permesso, il contrario proprio no! Come possibile infatti che essi siano all'altezza della "grandeur" dei loro blasonati vicini? Potremo mai fare meglio, seppur attraverso una realtà di eccelenza mondiale riconosciuta come Fincantieri, degli ex padroni coreani evidentemente più affidabili (ah, ah, ah ... ma non sono falliti?)? Evidentemente, "jamais"!  Serve adeguata tutela e vigilanza per evitare che questi pasticcioni compromettano una situazione per altro già ampiamente andata a "p*****e".

Per pietà! Una volta tanto non potremmo avere un sussulto d'orgoglio? Li lasciamo cuocere nel loro brodo aspettando che se li comprino i tedeschi, o magari, i cinesi o gli indiani?

martedì 25 luglio 2017

Emergenza acqua, chi paga?

Si parla tanto dell’emergenza idrica in Italia, stupisce però che non si approfondisca molto il tema del “chi” dovrebbe essere chiamato innanzi tutto a coprire i costi degli interventi che si rendono sempre più necessari. Questo non stupisce perché, se da una parte risulta abbastanza facile determinare chi debbano essere tali soggetti soprattutto tenuti ad intervenire, dall’altra è evidente che essi facciano di tutto per scaricare l’intero problema sulla collettività nel nome dell’emergenza, come se il problema fosse solo di ieri e come se il suo aggravarsi non sia un fatto prevedibile; siamo al solito balletto della privatizzazione degli utili e della collettivizzazione degli oneri e delle perdite!
Cominciamo pure dalle società di distribuzione dell’acqua potabile e delle loro reti colabrodo, siano esse a controllo pubblico o privato; evidente, che a fronte di un bel po’ di utili garantiti come già prevede la gestione di tale servizio, debbano essere loro a mettere mano al portafoglio; la smettano quindi di lamentarsi, presentino un piano credibile d’investimento e riducano semmai l’erogazione di bonus e dividendi!
Seguono gli agricoltori, ai quali non si devono negare le evidenti difficoltà alle quali devono fare fronte, ma che, non da ieri sono spesso già pesantemente sovvenzionati e, tra l’altro figurano per definizione fra le categorie più idrovore, non solo per necessità ma, spesso anche per scelta (parliamo dell’espansione dilagante delle coltivazioni di granoturco, ad esempio?). In questo caso, evidentemente, si tratta di favorire non solo la creazione di consorzi finalizzati alla conservazione e alla distribuzione delle risorse idriche che, quando arrivano, tra l’altro, spesso ormai risultano altrettanto devastanti della siccità, ma anche di favorire l’uso della tecnologia e di nuove tecniche di irrigazione (la “carota”), scoraggiandone altre (uso del “bastone” quindi!), quale ad esempio, l’alluvione dei frutteti. Anche qui però si tratta di riconoscere che gli oneri debbano essere ripartiti fra le associazioni agricole e le comunità locali, attuando magari degli sgravi fiscali, mentre non è lecito attendersi che tutto venga calato e, soprattutto, pagato dall’”alto”, cioè dal resto della cittadinanza.
Ci sono poi le società  che producono energia idroelettrica che, ricordiamo, hanno diritto ad immagazzinare risorse idriche “pubbliche” solo entro certi limiti e per le quali non va dato per scontato che esse non debbano essere chiamate a regolare il flusso idrico in funzione delle necessità e non solo in funzione della produzione elettrica.
Fra gli altri aventi causa ci sono poi i privati, ad esempio tutti i proprietari di abitazioni con terreni e giardini annessi, ai quali dovrebbe essere imposta una cisterna collegata ai pluviali in modo da incanalarne l’acqua di scolo e immagazzinarla per l’uso non potabile o, quantomeno, ad essi dovrebbe essere fatto pagare salato il lusso di bagnarsi il giardinetto con l’acqua potabile.
Ci sono infine i vari enti territoriali, perché deve ormai essere chiaro che lo spreco a monte si ritorce su chi viene privato di tali risorse a valle!
Bene cari concittadini, mettiamo pure mano al portafoglio perché certamente tutti devono contribuire, ma facciamolo, una volta tanto, con equità.

sabato 15 luglio 2017

Recensione: Brigate rosse – Dalle fabbriche alla “campagna di primavera” Volume 1

“Brigate rosse – Dalle fabbriche alla “campagna di primavera” Volume 1”, di Marco Clementi, Paolo Persichetti, Elisa Santalena, edizioni DeriveApprodi, ISBN 978-88-6548-177-6.

Le Brigate rosse (BR) furono probabilmente l’organizzazione terroristica italiana di sinistra più temuta, efficace e maggiormente organizzata fra tutte quelle che fecero parte della galassia insurrezionale ed eversiva negli anni settanta e ottanta del novecento.
L’azione che sancì l’apogeo in termini di immagine e di organizzazione di questo gruppo rivoluzionario fu il sequestro di Aldo Moro, avvenuto il 16 marzo 1978 e conclusosi con il ritrovamento del cadavere il 9 maggio del medesimo anno.
Il sequestro di Aldo Moro, Presidente del Consiglio della Democrazia Cristiana, partito che, fin dalle prime fasi della Repubblica aveva dominato la scena politica italiana, avvenuto in pieno centro a Roma, mentre il politico di spicco si recava alle Camere per la presentazione del nuovo Governo e realizzato attraverso una cruenta (in pochi secondi vennero uccisi tutti i componenti della scorta) quanto rapida azione “militare”, fu visto e vissuto dalle autorità e dall’opinione pubblica come una sconcertante (ed “esaltante”, per l’universo dei fiancheggiatori) prova di forza e capacità logistica di questa, per altro già fortemente temuta, organizzazione rivoluzionaria.
Dopo questo episodio però, la buona stella delle BR cominciò ad offuscarsi; mentre il contesto politico e socio-economico cambiava, proprio l’esito cruento del sequestro contribuì a cementare le forze politiche istituzionali con l’opinione pubblica, mentre si manifestarono fessure e posizioni di dissenso anche in seno della stessa organizzazione terroristica che venne lentamente ma inesorabilmente messa in crisi dall’opera incisiva delle forze dell’ordine, dal netto rifiuto della maggior parte della società civile e dal progressivo distacco di fiancheggiatori e simpatizzanti.
Il saggio ripercorre efficacemente, con dovizia di particolari e con un’opera notevole di ricostruzione documentale il contesto sociale, politico ed economico che portò in Italia allo sviluppo dell’estremismo di sinistra e al terroristico della medesima matrice ideologica. Inoltre, relativamente al sequestro Moro, l’opera  descrive nei particolari i personaggi, le loro azioni, le ragioni, le strategie, gli obiettivi e tutti quegli altri elementi critici e le fasi salienti attraverso i quali si svolse questa fase critica della vita della Repubblica.


Opera veramente notevole e meritevole di lettura. Aspetto il secondo volume!

giovedì 29 giugno 2017

Sensazioni contrastanti

Ci sono dei momenti in cui ti accorgi che si stanno realizzando i migliori scenari e le migliori soluzioni possibili nell'ambito di una serie di previsioni che, retrospettivamente, avevi giudicato a suo tempo sfavorevolmente …

In questi casi rimane quella sensazione indescrivibilmente dolce-amara di chi si rallegra perché gli eventi si sono incanalati verso una soluzione tutto sommato ad oggi auspicabile e gestibile rispetto al momento e al luogo, ma dove trova spazio anche il rammarico per il non essere riusciti in passato ad indirizzare gli eventi verso soluzioni più favorevoli.


In questo momento il mio pensiero va a Senofonte e alle sue Anabasi. Egli alla fine sarà stato anche fiero di aver raggiunto incolume con i suoi il Ponte Eusino, ma sicuramente anche a lui non sarà sfuggito il pensiero e la sensazione che accompagnano anche la più riuscita delle ritirate; per quanto perfetta essa sia non potrà mai appagare l’animo come può farlo invece una vittoria! Una dona certamente consolazione e sollievo a fronte dei pericoli scampati, ma solo la seconda porta vera gioia!

venerdì 23 giugno 2017

Recensione: L’esercito dell’imperatore – Storia dei crimini di guerra giapponesi 1937 -1945

“L’esercito dell’imperatore – Storia dei crimini di guerra giapponesi 1937 -1945”, titolo originale: “ L’armée de l’Empereur”, di Jean-Louis Margolin, traduzione di Gianluca Perrini, edizioni Lindau, ISBN 978-88-7180-807-9.

Il saggio ricostruisce i crimini di guerra compiuti dai giapponesi nei territori controllati prima e durante la Seconda Guerra Mondiale.
Giustamente l’Autore ricorda al lettore che l’impero giapponese era già intensamente impegnato sul piano militare ben prima dell’attacco giapponese a Pearl Harbor nel 1941. A partire dagli ultimi decenni del diciannovesimo secolo, a seguito dei cambiamenti culturali introdotti durante il periodo Meiji il Giappone, cominciò ad allargare la propria sfera di influenza politica e militare.  Nel 1895 venne annessa l’isola di Formosa, mentre fra il 1905 e il 1910, l’impero, anche a seguito del conflitto con la Russia, prese progressivamente possesso della penisola coreana; con la Prima Guerra Mondiale vennero acquisiti i territori asiatici prima controllati dai tedeschi, mentre cominciò una lunga fase di pressione sia politica sia militare nei confronti della Cina. Nel 1931 l’esercito invase la Manciuria dove fu istituito un regime fantoccio filo-giapponese e, soprattutto, a partire dal 1937 (a seguito dell’incidente del Ponte Marco Polo) si aprì la fase più intensa delle ostilità nei confronti della Cina. A partire dall’attacco contro la flotta americana di Pearl Harbour, l’impero giapponese dilagò in Asia Orientale conquistando pressoché tutti i territori fino ad allora assoggettati al dominio coloniale europeo di Gran Bretagna, Olanda e Francia nonché a quello statunitense.
Nel corso di tutto questo lungo periodo l’impero giapponese sottomise un gran numero di popolazioni asiatiche e venne in contatto, nei panni del dominatore, con una numerosa popolazione “bianca” sia di estrazione civile (ex coloni), sia militare (prigionieri di guerra).
Il trattamento di coloro che finirono sotto il dominio giapponese non fu di norma per niente benigno, anche se, riconosce l’Autore, le situazioni furono varie a seconda del momento, del contesto, delle varie etnie coinvolte.
Il saggio ricerca e fornisce le principali spiegazioni della, per certi versi peculiare brutalità giapponese, esponendo con coerenza i fattori storici, sociali, razziali, economici e, in taluni casi, persino organizzativi che la determinarono.
Molto interessante, anche il tema della memoria, o meglio, del recupero e dell’ammissione o, all’opposto dell’attenuazione o persino della negazione dei misfatti dell’impero giapponese a partire dal dopoguerra ad oggi. Sensi di colpa, scuse più o meno sincere, negazionismo, vittimismo, retorica panasiatica, revisionismo, ecc., non solo sono argomenti vivi e correnti, ma le discussioni che suscitano questi temi a livello locale e/o internazionale finiscono con l’intrecciarsi con le relazioni politiche ed economiche fornendo non poche occasioni di conflitto sia in politica interna, sia relativamente alle relazioni internazionali.


 Ottimo lavoro!

venerdì 21 aprile 2017

Recensione: L’incredibile cena dei fisici quantistici

“L’incredibile cena dei fisici quantistici” di Gabriella Greison, edizioni Salani, ISBN 978-88-6918-899-2.

Siamo nell’autunno del 1927 e a Bruxelles si è appena concluso il V° congresso Solvay della fisica incentrato sul tema di: “elettroni e fotoni” a cui hanno partecipato quasi tutti i principali protagonisti ai quali verrà riconosciuto il merito di aver gettato le basi e sviluppato i concetti della “nuova fisica”, quella quantistica. Alcuni di loro sono già stati insigniti del premio Nobel, ancora di più saranno invece quelli che lo conseguiranno in futuro e proprio relativamente a questo campo della scienza.

Il congresso si chiude con la cena di gala a cui partecipano anche i reali del Belgio.
Ecco quindi che troviamo seduti gomito a gomito molti personaggi che ormai vengono considerati veri e propri “giganti” della fisica: William Bragg, Luise de Broglie, Albert Einstein, Hendrik Lorenz, Niels Bohr, Owen Willans Richardson, Max Born, Arthur Compton, Marie Curie, Paul Langevin, Irving Langmuir …

Mancano invece all’appuntamento, avendo però partecipato al congresso soggetti altrettanto importanti e cruciali: Werner Heisenberg, Wolfgang Pauli, Paul Dirac, Erwin Schrödinger, Paul Ehrenfest e Max Planck. Secondo la ricostruzione della cena, essi saranno comunque fra i protagonisti dell’evento perché spesso essi verranno citati nelle chiacchiere che si svilupperanno durante tale incontro.

Durante la cena si sviluppano i discorsi, alcuni seri ed elevati (come quello che sancisce la “vittoria” di Bohr su Einstein!), altri banali e non mancano, ovviamente i pettegolezzi.
Ecco qui dunque il succo del racconto, un romanzo divertente che mette insieme letteralmente allo stesso tavolo sia l’uomo sia lo scienziato, con tutte le sue caratteristiche fisiche e psicologiche; il suo genio, la sua logica, ma anche imbandendone le bizzarrie, i piccoli o i grandi difetti, i vizi e le virtù, le idiosincrasie, i protagonismi, le gelosie, e le aspirazioni grandi e piccole.


Carino!

venerdì 24 marzo 2017

Recensione: The Great Divide

“The Great Divide”, di Joseph E. Stiglitz, Penguin Books, ISBN 978-0-141-98122-2.

This work is more precisely a collection of several articles that the Author has written for newspapers or magazines during the last decade. The theme, however, is common to all: "Inequality".

Here, of course, we are talking about individual differences in terms of economic power and the Author explains to us that being “poor” it is not only a matter of being less rich in terms of purchasing power but it attracts on individuals a spectrum of disadvantages that directly affects them and the whole society too!

Poverty penalizes individuals starting from the mere physical survival, as measured by life expectancy, preventing access to (good) food, health care, retirement systems, etc.; but it is also a burden that reduces the possibility of real improvement for the subject and for his offspring. Poverty risks to be a perpetual damnation. Least but not last inequality is a psychological burden for individuals and a poison for the society because reduces cohesion and encourage (and justify!) the social conflict.

The US are, in recent decades, the champions of the growth of inequality among developed nations, in a context that sees the global growing of this phenomenon. For the lower part of the pyramid, they are not the promise land and the country of opportunities anymore; for the poorer the American dream is fading.  According to the Author (but now for a good part of the economists), this situation is a serious economic and social problem that should be actively addressed.

Mitigate the inequalities, in fact, does not seem just a topic related to an elementary concept of social justice, but more pragmatically, at least for those who mainly deals with "development" and "economic growth", seems to be an element that favors the increase of these factors. Moreover, it seems to be a clear correlation between the decrease of inequalities on the one hand, the strengthening of democratic society and the growth of widespread prosperity on the other.

This is an interesting thesis (which I personally agree) now widespread among many of the neo-Keynesian economists.

Let me say that finally, a growing chorus of voices is rising in favor of evidence and good sense against some ambiguous economic theories like the (for me) ridiculous ​​"trickledown economics" still fashionable for many politicians (and rich people) even today!


Turning to Mr.  Stiglitz’s work, for me only one criticism should be raised that its inherent to its structure, that it is too fragmentary. In this regard, however, it is perhaps worth recalling that the author has already written more organically in relation to these issues, for example, in his publication: " The Price of Inequality: How Today's Divided Society Endangers Our Future”.

giovedì 16 marzo 2017

Recensione: The Great Divide

“The Great Divide”, di Joseph E. Stiglitz, edizioni Penguin Books, ISBN 978-0-141-98122-2.

Si tratta più che di un’opera unica di una raccolta di articoli diversi usciti nel corso dell’ultimo decennio su quotidiani o riviste specializzate. Il tema trattato però gli accomuna tutti, quello dell’”Ineguaglianza”.

Qui ovviamente si parla delle differenze individuali in termini di potere economico che si traducono in svantaggi a tutto campo per i soggetti più poveri che, non solo finiscono per essere meno ricchi in termini materiali, ma che, in conseguenza di ciò sono penalizzati in ogni altro campo della vita, a partire dalla mera sopravvivenza fisica misurata dalla speranza di vita, per poi risalire ad ogni altro tipo di svantaggio in termini di: salute, libertà, istruzione e prospettive future per sé e per i propri figli.

Gli USA, negli ultimi decenni, sono i campioni della crescita della diseguaglianza fra le nazioni sviluppate, in un contesto che comunque vede crescere il fenomeno a livello globale. Tale situazione, secondo l’Autore (ma ormai per una buona parte degli economisti) costituisce un serio problema economico e sociale che andrebbe attivamente affrontato.

Attenuare le diseguaglianze, infatti, non sembra solo un argomento legato a elementari concetti di giustizia sociale, ma più pragmaticamente, almeno per chi si occupa principalmente di “sviluppo” e di “crescita economica”, sembra costituire un elemento che favorisce l’aumento di tali fattori, senza dimenticare che sembra esistere anche una correlazione abbastanza chiara fra la diminuzione delle diseguaglianze da una parte, il rafforzamento delle società democratiche e la crescita del benessere diffuso.

Una tesi interessante, che personalmente condivido ormai molto diffusa fra gli economisti neo-Keynesiani e che smaschera senza ambiguità alcune teorie economiche di moda (soprattutto a partire dagli anni ottanta del novecento) spacciate ancora oggi da alcune scuole liberiste e che non esito a definire ridicole e prive persino di qualsiasi buon senso, come quelle basate sull’idea della “Trickle down economics”.


Unico difetto del saggio è quello insito nella sua struttura, che ne fa un’opera troppo frammentaria, a questo proposito però è forse opportuno ricordare che l’Autore ha già scritto in maniera più organica relativamente a questi temi, ad esempio, ricordiamo: “Il prezzo della disuguaglianza - Come la società divisa di oggi minaccia il nostro futuro ISBN 9788806214579” che tratta il tema in maniera più strutturata.

venerdì 3 marzo 2017

Recensione: Stato e Anarchia

“Stato e Anarchia”, di Michail Bakunin, titolo originale:”Государственность и анархия” (wikipedia), traduzione di Nicole Vincileoni e Giovanni Corradini, edizioni Feltrinelli, ISBN 978-88-07-88229-6.

Si tratta di un classico della letteratura politica, scritto nella seconda metà del 1800 (venne pubblicato per la prima volta in forma anonima nel 1873); in esso l’Autore propone la sua visione rivoluzionaria che auspica e promuove una società totalmente destrutturata, supportata dalla spinta aggregativa dal basso e sorretta da una forte volontà federativa. Queste “società”, per Bakunin devono essere al di fuori del controllo degli stati che, possibilmente, devono essere aboliti, come deve essere eliminata ogni forma di gerarchia di sangue o di classe. Si tratta quindi di applicare l’“anarchica” (anarchia = priva di leader/governante), in esplicita contrapposizione con le organizzazioni statali e sociali costruite su strutture gerarchiche e verticistiche e in antitesi ideologica rispetto al clima dell’epoca che vedeva prevalere l’ideale nazionale e nazionalista rispetto a posizioni maggiormente universaliste.

Un’opera che giudico molto interessante, anche se, ammetto, mi aspettavo qualcosa di molto diverso. In effetti l’Autore, in fondo, non si sofferma molto a spiegare nei dettagli la sua idea. Ciò probabilmente è dovuto al fatto che l’ideale anarchico, per quanto accattivante, risulta per definizione un po' vago e caratterizzato da molteplici interpretazioni e applicazioni che, tra l’altro, risultano difficili da mettere in pratica.

La parte preponderante del saggio è invece dedicata ad una pignola analisi della situazione europea del tardo periodo ottocentesco. Insieme ad essa viene fornita, non solo una chiave di lettura per spiegare le ragioni di successo o di insuccesso dei molti moti insurrezionali che caratterizzarono il diciannovesimo secolo, ma anche una serie di previsioni riguardo al futuro che, bisogna ammettere, si riveleranno ex-post abbastanza azzeccate.

Nel saggio viene infatti prefigurata la lotta per l’egemonia fra Stati che vedrà contrapporre la nascente nazione tedesca alle altre potenze europee, Russia e Francia in testa.
Per l’Autore il protagonista assoluto di tale ascesa è il cancelliere Otto Von Bismark, per carattere e obiettivi, quasi l’opposto di Bakunin ma tuttavia da questi molto ammirato, non fosse per altro che in virtù della coerenza mostrata in relazione al conseguimento dei propri obiettivi politici. Bismark finirà per realizzare, come da suo programma, uno stato germanico forte e centralizzato sotto la guida della Prussia ... e ciò, in estrema sintesi, sarà uno dei fattori scatenanti di ben due conflitti mondiali!

Altro elemento interessante che emerge dal saggio è la consapevolezza della contrapposizione ideologica che esiste fra l’ideale anarchico e il marxismo allora nascente e che finirà per tradursi negli assetti politici e ideologici del “comunismo”. Bakunin individua subito quello che per lui è il peccato originale di tale ideologia, cioè l’obiettivo di creare la “dittatura del proletariato” sulle basi di una forte gerarchia statale retta da una élite che si attribuisce il ruolo di decidere e governare per il bene del popolo.

Bakunin non crede a questa pretesa e la storia gli darà ragione.


Egli infatti, in estrema sintesi sostiene due cose: 
- Solo il popolo sa qual è il proprio “bene” e solo la sua libera iniziativa dal basso può tradursi in realizzazioni pratiche finalizzate a conseguirlo.
- Nessun tipo di élite, per quanto ben intenzionata può sostituirsi al popolo al fine di governarlo senza che questo finisca per trasformarne i membri in una classe privilegiata e tirannica. 

venerdì 20 gennaio 2017

Recensioni: Elogio dell’occidente

“Elogio dell’occidente”, di Franco La Cecla, edizioni Elèuthera, ISBN 978-88-98860-19-7.

Un breve saggio, non sempre agevole, che ha lo scopo di cercare di chiarire una serie di contraddizioni che caratterizzano il concetto di “Occidente”.

Occidente, contemporaneamente origine di ogni male ma anche laboratorio abile a trovarne le cure, vero proprio elaboratore di anticorpi capaci di smantellare le storture endogene ed esogene; agente di sopraffazione, generatore di violenza ma anche musa ispiratrice della libertà e del diritto; terra di sfruttamento, ma anche di libere opportunità; società e collettività, ma anche rifugio sicuro dell’individuo.

Per definizione un enigma, un Giano bifronte.

Tale luogo geografico non è esattamente definibile, anche in virtù di vicissitudini storiche che lo hanno dilatato oppure contratto nel corso del tempo o che hanno contribuito a creare isole esterne che si riferiscono e si ispirano ad esso o enclaves interne ai suoi confini geografici che, al contrario, in qualche modo lo rifuggono. In ogni caso, più o meno istintivamente si è coscienti dell’”Occidente”, dell’essere occidentali, e, soprattutto, si sa quando si è ricompresi o si è esclusi da esso.

Occidente, mai tanto odiato, invidiato e desiderato come dai suoi detrattori.

I maggiori esperti di occidente, quasi dotati per natura del radar e dell’istinto percettivo, quasi rabdomantico, che li guida verso di esso, sono comunque i migranti. Proprio loro, spesso a nostro specchio, colgono in pieno e anelano quanto c’è di positivo dello spirito occidentale, contribuendo, tra l’altro a ri-radicare questo sentimento anche in noi, che siamo spesso ignari di quanto questo spirito ed influenza si irradi oltre i suoi confini.


L’Occidente è importante quindi, ed è necessario che tutti recuperiamo la consapevolezza di ciò, che lavoriamo per attenuarne gli impatti negativi e per salvaguardare il buono e il bello che da esso emana e per promuoverlo attivamente, senza vergogne e senza ipocrisie verso l’”altrove”.

lunedì 16 gennaio 2017

Recensione: Un viaggio che non promettiamo breve – Venticinque anni di lotte no TAV

“Un viaggio che non promettiamo breve – Venticinque anni di lotte no TAV), di Wu Ming 1, edizioni Einaudi, ISBN 978-88-06-22564-3.
Si tratta di un’opera di saggistica che riassume venticinque anni di lotta sociale e politica, soprattutto in Valle di Susa (provincia di Torino) contro la TAV, o meglio contro “il TAV”, declinato al maschile, come farebbero notare i valsusini (per “il treno ad alta velocità”).
Si tratta, ovviamente di un libro di parte, ma che definisco fin da subito “eccezionale”. Questo lo affermo anche se non mi posso definire certamente un partigiano noTAV (anni fa, semmai ero all’opposto, poi, … goccia dopo goccia!).

Perché “eccezionale”?

1) Innanzi tutto per l’aspetto stilistico. Wu Ming 1 ha scritto un saggio di denuncia che, al di là di quello che potrebbe pensare il lettore sull'argomento specifico, tocca delle corde profonde, intriga, appassiona e “scorre” come un bel romanzo. Mica una cosa da poco per un soggetto così politicamente polarizzato e che, trattato diversamente, avrebbe potuto facilmente diventare uno fra i tanti “pipponi” ideologici e moralisti in salsa sinistro-anarco-catto-ambientalista (si, ci sono dentro tutti, forse manca solo il “guidaico”! J), sostanzialmente scritto solo per “addetti ai lavori” e professionisti dell’antagonismo.
E invece no! Questo è un libro che ti pone domande e insinua dubbi … se per caso già non ne avevi!
 … Come mai un’intera valle, donne, bambini, uomini e vecchietti resiste da anni contro l’invasore come il piccolo villaggio gallico di Asterix? Sarà l’affinità con il sangue celtico?
… Può essere un’intera comunità di valligiani pressoché totalmente composta da banditi, anarcoinsurrezionalisti o, quantomeno da inveterati rompiscatole afflitti dalla sindrome “Nimby” (“Not in my backyard” – “Non nel mio cortile”)?
… Quale oscuro abominio, frutto di atmosfere da incubo alla Lovecraft, (Howard Phillips Lovecraft 1890-1937), Conan Doyle (Arthur Ignatius Conan Doyle 1859 – 1930) o Arthur Machen (1863 – 1947), si è incarnato in forma fisica infettando l’essenza stessa della vita della valle?
Meno prosaicamente … i mass media, ce la raccontano giusta quando ci presentano le gesta efferate dei criminali noTAV?
… Cosa c’entra l’ndrangheta in tutto ciò?
… e tanto altro, tra il quale, molta storia della valle e delle sue esperienze, a partire da re Cozio (quello dell’arco augusteo di Susa – 9 a.C.) fino ai giorni nostri, un bel po’ appunto!

2) Poi per la precisione nella ricostruzione dei fatti e delle fonti riportate. Non mi risulta infatti che Wu Ming 1 sia stato querelato per le tante affermazioni forti e per le sue ricostruzioni dei fatti che, certamente, a noi possono apparire quantomeno “in contraddizione” con il tipo di informazione che riceviamo leggendo la “Stampa” (Ahi! Proprio quella leggo io!).

Attraverso la sua ricostruzione, un “branco” di facinorosi, disadattati, teppisti e professionisti della protesta assume tutt'altra coloritura e, si comincia ad avere il sospetto che tante siano state le ingiustizie commesse in nome del Popolo Italiano.

… Ohi! Sembrerebbe che siano finiti in galera degli innocenti! Black Bloc, pensionati e casalinghe assieme … C’è forse qualcosa che non quadra?

… la magistratura, appare un tantino troppo schierata, non è che si applicano due pesi e due misure?

Troppe domande scomode per un povero lettore poltrone troppo avventatamente curioso come il sottoscritto! Meglio lasciarlo stare questo libro e continuare a vivere tranquilli con in testa poche ma granitiche certezze!

Perché non c’è dubbio, il TAV è utile! … Vero? J

P.S. Nel testo viene citata diffusamente una lettura che, già in passato aveva messo in crisi la mia cieca aderenza ai dogmi della “geografia economica”, materia che tanto mi aveva appassionato durante i miei studi di economia e commercio. Si tratta di un’indagine che, mi risulta, sia nata da un’iniziativa del quotidiano “La Repubblica”:

http://inchieste.repubblica.it/it/repubblica/rep-it/2012/05/12/news/corridoio_5_binario_morto-34850474/

In ogni caso, essa è stata formalizzata in un libro interessante che qui riporto come riferimenti: “Binario Morto: Lisbona – Kiev, alla scoperta del corridoio 5 e dell’alta velocità che non c’è”, di Andrea De Benedetti e Luca Rastello, edizioni Chiarelettere, ISBN: 978-88-6190-375-3.