martedì 27 dicembre 2016

Recensione: Il Terzo Reich al Potere: 1933 – 1939

“Il Terzo Reich al Potere: 1933 – 1939”, di Richard J. Evans, titolo originale: “The Third Reich in Power: 1933 – 1939”, traduzione di Alessio Catania, edizioni Mondadori, ISBN 978-88-04-51042-0.

Un’opera notevole che ricostruisce con precisione gli anni in cui il nazismo prese è stabilizzò il potere sulla nazione tedesca.

L’Autore approfondisce il contesto storico, economico, sociale e ideologico che portarono il nazismo al potere e ne permisero il suo consolidamento e mette in evidenza gli strumenti attraverso i quali tutto ciò fu reso possibile.

Si tratta quindi di una lettura interessantissima e che andrebbe meditata perché i fattori citati e combinati nel corso del saggio non sono per nulla irripetibili e, con le dovute differenze, ma a seguito di contesti simili, permetterebbero anche oggi l’instaurarsi di regimi autoritari altrettanto pericolosi.

Per quanto riguarda il giudizio generale su questo libro ci si può dunque fermare qui.

Da questo punto in poi volevo invece aggiungere alcuni aspetti che hanno stuzzicato la mia curiosità rispetto a questo dettagliato lavoro di ricostruzione. Li elenco in maniera incompleta e in ordine sparso e avvertendo che questi elementi, di per sé, non sono per forza da ritenere prevalenti rispetto ad altri all'interno dell’opera:
- Mi ha colpito il rovesciamento di alcuni stereotipi che, ammetto, avevo in parte assimilato io stesso. In particolare, pensavo che l’avvento del nazismo avesse dato una propulsione alla diffusione della cultura scientifica. Scopro con stupore che, al contrario (ma in fondo logicamente) il sistema scolastico, quello universitario e la ricerca scientifica (a parte quella finalizzata agli scopi bellici) ebbero molto a soffrire sotto il regime. In linea più generale, il nazismo era abbastanza avverso agli intellettuali e a qualsiasi forma di modernismo, in questo caso, forse ben più del fascismo. Questo valeva in particolare per tutte le forme di arte e culturali ad eccezione forse per l’architettura monumentale.
- Pensavo che la burocrazia tedesca fosse più efficiente della media, proprio perché improntata e finalizzata ad un tipo di controllo totalitario. Anche su questo punto, pare che la verità fosse assolutamente diversa e, tra l’altro, pare fossero molto alti i livelli di inefficienza dovuti a pratiche di nepotismo e corruzione.
- Mi ha impressionato il contesto culturale attraverso il quale prosperò il cosiddetto darwinismo sociale, che sicuramente ebbe un ampio seguito almeno pan europeo (se non mondiale, essendo che non ne erano immuni né gli Stati Uniti né il Giappone) e produsse effetti oggi difficilmente comprensibili sulle politiche sanitarie e sulle pratiche eugenetiche portate avanti in diversi paesi (alcuni dei quali “insospettabili”).
- Continuo a rimanere allibito di fronte al fenomeno del “Culto della personalità”, ieri come oggi. Veramente in contesti evoluti come quello della Germania (o anche in Italia!) ci sono persone che credono e credettero al mito dell’infallibilità, all’uomo della Provvidenza. Nella Germania hitleriana, questo aspetto assunse persino il rango di norma di legge! Questo è un concetto che sfugge completamente alla mia mente di scettico.
- Per quanto ne conosca le radici storiche e l’origine culturale, faccio fatica a comprendere appieno come possa aver avuto presa un antisemitismo così radicale, soprattutto in un contesto come quello tedesco dove la minoranza ebraica era ben integrata (contrariamente a quanto avveniva in Polonia, per esempio). Più in generale, non riesco a raccapezzarmi sul come si potesse veramente basare un’ideologia sul mito della “Razza” (magari il concetto di “Civiltà” o “Cultura” lascerebbe più spazio in questo senso!), concetto di per sé dogmatico, para-religioso e assolutamente privo di consistenza scientifica, storica e, men che meno, biologica e archeologica.

In conclusione, c’è poco da fare! Confrontarsi con l’ideologia nazista e sui tanti compromessi che implicò la sua accettazione più o meno entusiasta, in altre parole, fare lo sforzo di identificarsi con il popolo tedesco dell’epoca, ci costringe a riflettere sugli abissi di ignoranza e sulla pusillanimità che alberga in ognuno di noi ma ci consente, forse, di non rifare eventualmente i medesimi errori.

Mai come per i regimi nazifascisti trovo valido il detto di George Santayana: “Coloro che non ricordano il passato sono condannati a ripeterlo”, ad esso è necessario avvinghiarsi come ad un valido ancoraggio in vista della tempesta. 

venerdì 23 dicembre 2016

Recensione: Le otto montagne

“Le Otto Montagnei”, di Paolo Cognetti, edizioni Einaudi, ISBN 978-88-06-22672-5.

È la storia di un’amicizia che lega due coetanei appartenenti a due ambienti diversi, ma è anche il racconto di un rapporto padre-figlio un po’ problematico, in fondo, ruvido e poco comunicativo come le montagne che fanno da sfondo alla vicenda. Uno dei protagonisti è un cittadino, figlio di un genitore un po’ chiuso e, forse anche per questo innamorato della fatica fisica e della tensione agonistica necessaria per godersi l’asprezza tipica dell’alpe d’alta quota; il secondo è un montanaro, un marghé (margaro) che divide il suo tempo fra le malghe e le scorrerie nei boschi e fra le baite in rovina, testimoni di un mondo sempre più in abbandono. Due mondi contigui ma molto differenti, soprattutto nell’Italia degli anni ottanta (anche se in realtà, la storia sembra riflettere un periodo ancora meno recente, quello degli anni sessanta, dove effettivamente le due Italie, quella rurale e quella delle grandi città sembravano veramente due universi differenti). Il loro legame si sviluppa da bambini durante le vacanze estive e va avanti fra alti e bassi fino all’età matura, diventando via via più saldo e profondo.

Bel romanzo veramente, scorrevole e avvincente, anche se il finale risulta un po’ prevedibile e a me, personalmente, sgradito (ma come finire, sennò, un libro così?); in più, a ben vedere qualcosa della storia non quadra. Innanzi tutto, l’ambientazione; io ho avuto l’impressione che sarebbe stata più realistica inquadrandola qualche anno prima (almeno un decennio), questo però, in fondo non mi sembra importante; anche i caratteri dei personaggi, però, mi sono sembrati un po’ troppo netti e, a mio avviso, un po’ stereotipati. … Questo però per andare a cercare il pelo nell’uovo! Perché, ripeto, questo è un romanzo che vale la pena leggere.


Bella invece la montagna, non solo perché si tratta anche delle le “mie” montagne o, quantomeno, di luoghi che conosco abbastanza bene (Torino e il Canavese sono a due passi dal massiccio del Rosa!),  ma soprattutto perché essa viene presentata per quel che è, non solamente come un mondo idilliaco di bei paesaggi e natura, ma anche come luogo povero e desolato, inospitale, deserto, pietroso, gelido, pericoloso e potenzialmente ostile. Un posto estremo al confine con il cielo da dove scappare o ove rifugiarsi, comunque lontano da tutto ciò c’è di buono e cattivo nel nostro modo di vivere da cittadini; un altro mondo appunto, non necessariamente un mondo migliore.