lunedì 24 marzo 2014

Recensione: Ammazziamo il Gattopardo


“Ammazziamo il Gattopardo”, di Alan Friedman, edizioni Rizzoli, ISBN 978-88-17- 07216-8.
L’Autore, giornalista economico è un americano che ha svolto lungamente l’attività di corrispondente estero dal nostro Paese, che conosce fin dagli anni ottanta. Ed è proprio da quei “meravigliosi anni ottanta” che Friedman parte per svelarci gli ultimi trent’anni delle sue osservazioni; era il tempo gaudente della “Milano da bere”, del socialismo craxiano e rampante, dell’Italia consacrata quinta potenza economica mondiale che un po’ stupiva per quel curioso mescolamento di vecchio e (supposto) nuovo ma che, secondo l’Autore, dietro la facciata di una modernizzazione e di un dinamismo solo apparente nascondeva una rigida struttura corporativa e di poteri forti che ha continuato a perpetuarsi fino ai giorni nostri, ingessando il Paese e portandolo allo stato di prolungata decadenza che è quello che ha caratterizzato l’ultimo ventennio. Freidmann racconta dunque di una grande occasione perduta nel passato per modernizzarsi davvero, causata soprattutto da una mancata applicazione da parte delle nostre elite politiche ed economiche di un vero processo di liberalizzazione e di democratizzazione che si sostituisse alla politica dei “salotti buoni” e delle lobby di potere. Una storia condita di confitti d’interesse, populismo, corporativismo di destra e di sinistra, mancanza di volontà, trasparenza e immaturità politica che denunciava l’incapacità della nostra leadership nell’attuare riforme sociali ed economiche necessarie ma impopolari.
Pensando invece al presente e al futuro, l’Autore lancia un chiaro avvertimento: O si cambia o si muore! Secondo lui, gli italiani non devono illudersi, o accetteranno una serie di profonde trasformazioni per rinnovare il Paese e la sua mentalità, oppure la crisi continuerà inesorabile a soffocare lentamente la nostra economia e a sprofondarci nell’irrilevanza.
La seconda parte del libro è dedicata alla descrizione di una serie di riforme che Friedmann suggerisce di attuare, una cura da cavalli che prevede una riforma profonda che interessi vari ambiti insieme. Fra i vari ingredienti figurano: una riforma profonda del diritto del lavoro che preveda il superamento dello Statuto dei Lavoratori in senso liberista; un serio approccio teso alla riduzione del debito pubblico da attuarsi attraverso un programma incisivo di dismissioni e di razionalizzazione della spesa; una revisione dell’autonomia e della capacità di spesa delle Regioni (vere responsabili di gran parte del dissesto dei conti pubblici); un vero e proprio programma di demolizione delle barriere corporative allo scopo di vivificare la concorrenza e l’efficienza; una profonda riforma dell’amministrazione pubblica; una politica a tutto campo di valorizzazione del lavoro femminile; una revisione della spesa pensionistica e una “piccola” patrimoniale. A tutto ciò, l’Autore aggiunge una serie di contrappesi sociali che permettano di rendere le riforme effettivamente attuabili e, soprattutto, sopportabili dalle fasce più povere della popolazione.
Ne viene fuori un bel libro, sincero e condivisibile in molte delle sue parti anche se, forse viziato da una visione un po’ troppo anglosassone (e darwinista) della vita; (sarò forse anch’io un po’ gattopardo?!). Quest’ultima mia riserva e considerazione non cambia dunque il giudizio generale su quest’opera; questo libro vale sicuramente la pena di leggerlo, chiedendoci in tutta onestà quante delle soluzioni proposte siano effettivamente da prendere in considerazione anche a onta dei nostri interessi personali per arrivare a quell’inversione di tendenza, unica reale precondizione che assicuri un nuovo futuro di sviluppo per i nostri figli.

 

mercoledì 5 marzo 2014

Recensione: Alamo – Per la Storia non fidatevi di Hollywood

“Alamo – Per la Storia non fidatevi di Hollywood”, titolo originale: “El Alamo”, di Paco Ignacio Taibo II, Traduzione di Pino Cacucci, edizioni Tropea, ISBN 978-88-558-0227-7.

L’Autore ricostruisce la vicenda dell’assedio di Alamo e dei principali scontri della guerra d’indipendenza texana del 1836, la battaglia di Coleto e la definitiva vittoria texana di San Jacinto. Gli scopi dell’opera sembrano plurimi perché PITII si pone sia l’obiettivo di dimostrare l’importanza di questi fatti nella costruzione del mito, della cultura ed anche di una certa retorica nord-americana, sia di rendere evidente quanta distanza esista fra l’ambiente storico e i fatti reali rispetto a quanto sia stato invece riproposto nell’ampia produzione letteraria e, soprattutto, cinematografica, riguardo questi avvenimenti.
L’opera si sviluppa attraverso una dettagliata descrizione dei principali protagonisti e un’attenta ricostruzione della situazione fisica e politica nella quale avvennero i fatti, inframmezzando però molti personaggi, aneddoti e siparietti minori e condendo il tutto con uno stile velato da una dissacrante quanto giustificata ironia.
Personalmente, non sono molto esperto di queste vicende storiche ma, a mio parere, PITII riesce a ricondurre i fatti e i personaggi a quello che erano, senza risparmiare nessuno, né i messicani, né i texani.
La guerra d’indipendenza è dunque presentata per quello che doveva essere, cioè una serie di moti promossi da immigrati dell’ultima ora, ma soprattutto, da schiavisti, avventurieri e speculatori di ogni risma contro un governo centrale che, effettivamente era lontano, assente e corrotto, ma pur sempre meno incivile rispetto agli standard morali dei cosiddetti padri fondatori dell’indipendenza texana. Tutti i personaggi principali della vicenda di parte texana: William Travis, Jim Bowie, Davy Crocket, James Fannin e Sam Huston vengono ridotti a quel che erano, una manica di falliti, vagabondi, fuggitivi, farabutti, violenti, truffatori e alcolizzati che nessuno vorrebbe come vicini di casa; e, ovviamente, ma questo già lo sapevamo, anche il generale Antonio Lòpez de Santa Anna non ci fa una migliore figura. Altro che cappello di castoro e indomito coraggio in nome della libertà!