giovedì 26 dicembre 2013

Recensione: I Panni Sporchi della Sinistra – I segreti di Napolitano e gli affari del PD


“I Panni Sporchi della Sinistra – I segreti di Napolitano e gli affari del PD”, di Ferruccio Pinotti e Stefano Santachiara, edizioni Chiarelettere, ISBN: 978-88-6190-427-9.
Dopo più di vent’anni di guerra di logoramento contro la sub-cultura berlusconiana e gli effetti del suo malgoverno valeva comunque la pena di approfondire un po’ il tema del malaffare “de noi altri”, tanto più che, in varie occasioni, il confronto politico ha sfiorato i toni di una guerra di religione che ha cercato di suddividere i cittadini della nazione fra presunti buoni e cattivi.
Leggendo queste pagine, che per altro non svelano niente di veramente sensazionale, si finisce un po’ per soffrire della sindrome del reduce che, guardandosi alle spalle, si chiede se veramente valeva la pena di scaldarsi tanto. Saremmo veramente migliori se, nell’ultimo ventennio avesse governato in maniera prevalente questo centro-sinistra descritto da Pinotti e Santachiara? Il beneficio del dubbio, in questo caso è d’obbligo! La triste verità, a ben vedere, è quasi scontata e dimostra per l’ennesima volta che i “cattivi” non stanno solo nel campo avverso e, che nel proprio non sempre alberga la virtù. Anche questa, però è una lettura banale e limitata del problema legato alla cosiddetta “questione morale”, mai seriamente affrontata dalla politica italiana; perché quello che emerge dal libro di Pinotti e Santachiara è una verità amara che ci ricorda che le origini del sistema politico che ha retto l’Italia dagli anni novanta a oggi sono frutto di scelte e compromessi bipartisan più o meno consci, di accordi sottobanco, di spartizioni trasversali e di clamorosi errori di sottovalutazione. La classe politica, di destra o sinistra appare per quello che probabilmente è, un ceto a se stante, un circolo di amici e compari dove alla fine, di là dal colore degli stendardi e lontani dall’arena mediatica, una soluzione concordata si trova sempre.

mercoledì 18 dicembre 2013

Recensione: Il bonobo e l’ateo: In cerca di umanità fra i primati


“Il bonobo e l’ateo: In cerca di umanità fra i primati”, titolo originale “The Bonobo and the Atheist. In Search of Humanism Among the Primates”, Frans de Waal, traduzione di Libero Sosio, edizioni Raffaello Cortina, ISBN: 978-88-6030-600-5.
Frans de Waal è un primatologo olandese naturalizzato americano, del quale avevo sentito parlare già qualche fa grazie a un articolo apparso sulla rubrica “Tutto Scienze” del quotidiano La Stampa intitolato “Noi, le scimmie buone” (La Stampa 14/09/2011).
Sostanzialmente, nel libro egli riprende ed espande i concetti già espressi allora, il tema principale del saggio è incentrato sull’origine della moralità. L’Autore sostiene che, sulla base delle ricerche effettuate su alcuni animali e, in particolare sulle scimmie antropomorfe, si può ipotizzare e affermare con un certo grado di certezza che per l’uomo, i concetti alla base dei comportamenti che potremmo definire “morali” siano preesistenti all’avvento della religiosità; anzi, è probabile che la stessa religione sia, invece, il frutto di una codificazione successiva sviluppatesi al fine di facilitare la vita sociale in società organizzate via, via più complesse.
De Waal sviluppa questo concetto sulla base dell’esperienza scientifica sua e di altri maturata sia nel campo della zoologia sia attraverso le recenti scoperte rese possibili dallo sviluppo delle neuroscienze e incentrate sullo studio delle aree cerebrali interessate al cosiddetto “circuito dell’empatia”. Sembra che uomini e scimmie antropomorfe (e altri animali) abbiano un cervello empatico; questa capacità d’immedesimazione negli altri soggetti, suggerita in campo neurologico dalla scoperta dei neuroni a specchio, ci predispone a una socialità positiva senza doppi fini, smentendo in questo, in buona parte, il filone filosofico ed evoluzionista legato all’”utilitarismo”. Per De Waal, l’uomo nasce fondamentalmente “buono” perché predisposto a comprendere e fare sue le emozioni degli altri.
Queste tesi spingono l’Autore ad approdare a una visione personale equilibrata e moderata nei confronti della religiosità, tanto che la sua critica, già espressa nel titolo dell’opera, si rivolge più agli atei militanti che verso i credenti. Nei confronti dei primi, esprime l’augurio che essi smettano di “dormire furiosamente”, immagine che coglie la contraddizione di chi si ostina a condurre con fervore “religioso” una campagna contro tali credenze. I credenti, invece, sono invitati a rifuggire l'approccio dogmatico e a non irrigidirsi su una visione arretrata e obsoleta delle cose.
L’Autore fa anche di più perché mette in guardia dallo sviluppare un cieco fideismo nei confronti della scienza che, secondo il suo modo di pensare, rimane un insostituibile strumento per accrescere le nostre conoscenze, ma che non può essa stessa assumere i caratteri di una religione “della ragione”. De Waal, al contrario, invita a non rigettare l’elemento sensibile e istintivo nel nostro essere “umani” perché inscindibile e altrettanto importante rispetto alle capacità raziocinanti.
In sintesi, ne viene fuori un libro molto bello, interessante e pacato che mescola in modo equilibrato le esperienze scientifiche dell’Autore, la sua visione filosofica e un certo amore per l’arte espressa attraverso l’ammirazione dell’opera di un grande pittore fiammingo, Hieronymus Bosch, che grazie a una delle sue opere di maggior interesse, il “Il Giardino delle Delizie”, fa da sfondo a molte delle osservazioni contenute in questo libro.

giovedì 12 dicembre 2013

Una pazza idea: Come “licenziare i politici”?


Sono convinto che la protesta dei forconi, almeno in Piemonte, abbia trovato un certo consenso non solo a causa del disagio economico, ma anche a seguito degli effetti di “Rimborsopoli”, cioè la vicenda dei rimborsi spese non esattamente irreprensibili richiesti e ottenuti negli ultimi due anni da moltissimi assessori regionali, quasi tutti appartenenti alla maggioranza. Riguardo a questo presunto abuso amministrativo si è già chiusa la fase di indagine e, di conseguenza, 43 consiglieri hanno ricevuto l’avviso da parte della procura. Seguirà la fase giudiziaria. Il punto però che fa riflettere è il seguente: come possono fare i cittadini  liberarsi speditamente e anzitempo di una classe dirigente della quale essi hanno perso la fiducia? Su questo punto, secondo me, viene fuori una dei tanti limiti del nostro sistema democratico; eleggendo un rappresentante gli si accorda la fiducia di amministrazione e governo per un certo periodo di tempo, di solito un certo numero di anni, ma come si può ritirare tale fiducia  prima di tale scadenza? E’ facile notare che in altri tipi di assemblee ci sono strumenti per superare questo problema: gli azionisti di una società possono richiedere un’assemblea straordinaria e sfiduciarne i vertici, un condominio può  fare lo stesso, invece gli elettori non hanno uno strumento istituzionale e pratico per ottenere il medesimo risultato. Possono solo protestare e sperare che si coaguli il dissenso, oppure augurarsi un rapido intervento da parte degli organi amministrativi e giudiziari che si incarichino di rimuovere gli “amministratori” infedeli! Ma un attimo! Questi sono innanzi tutto i nostri rappresentanti e solo in secondo luogo essi si qualificano anche come “amministratori”, è quindi incredibile che essi non possano essere rimossi dai delegatari legittimi per il solo fatto che essi non raccolgono più la  fiducia degli stessi (a pensarci bene, non è neanche necessario che essi abbiano infranto qualche legge). E’ ovvio che, iniziative in questo senso odorano un po’ di populismo ed è anche facile comprendere come strumenti di questo genere possano essere facilmente manipolati da chi ha il controllo dei mezzi di informazione, eppure, personalmente sono convinto che  questi rischi non giustifichino l’impossibilità di rimuovere dalle cariche  gli organi sfiduciati. Nel caso della giunta regionale piemontese, per esempio, è evidente che bisognerebbe rinnovarla completamente e rieleggerne un’altra in quanto quella attuale è chiaramente sfiduciata, ma come si può ottenere tale risultato rapidamente  senza prendere a sassate le finestre del palazzo? In pratica, mi sembra che l’unico modo per mantenere il dissenso nei limiti della legalità sia quello di permettere ai delegatari di ritirare la fiducia e di spostarla su altri rappresentanti, ma non mi sembra che il nostro sistema democratico abbia previsto degli strumenti efficaci per dare i cittadini i mezzi per ottenere tale risultato.

giovedì 5 dicembre 2013

La fine del Porcellum!

Era ora, grazie alla Consulta il "Porcellum" non c'è più. Se dalla sua dipartita se ne potessero cavare almeno un paio di prosciutti e qualche salame, questi sarebbero i soli frutti positivi di questo ignobile sistema elettorale!
Per il momento, in attesa che la politica si svegli, si torna al proporzionale.
Io spero che nella sostanza la nuova legge elettorale, che ora le forze politiche dovranno per forza ideare, sarà basata proprio su questo meccanismo.
Non mi dispiacerebbe che venissero reintrodotte le preferenze e che fosse esplicitamente vietato di presentare liste apparentate che raccolgano più simboli.
Sarebbe accettabile, in nome della cosiddetta governabilità, introdurre anche una piccola soglia di sbarramento (2%?) in modo da evitare una proliferazione eccessiva di simboli e liste.
L'importante è che si seppellisca l'esperienza sull'uninominale, perché, personalmente, sono convinto che sia meglio una litigiosa ingovernabilità rispetto ad un tipo di stabilità come quello che abbiamo avuto negli ultimi vent'anni. :-)

venerdì 29 novembre 2013

Recensione: La Guerra Bianca – Vita e Morte sul Fronte Italiano 1915-1919


“La Guerra Bianca – Vita e Morte sul Fronte Italiano 1915-1919”, titolo originale “The White War”, di Mark Thompson, traduzione di Piero Budinich, edizioni Il Saggiatore, ISBN: 978-88-428-1307-1.
Attraverso quest’opera, l’Autore ricostruisce egregiamente il contesto in cui si svolsero le operazioni sul fronte italiano della Prima Guerra Mondiale. La “Guerra Bianca”, titolo ispirato al colore della neve delle montagne e delle formazioni calcaree dell’altopiano carsico, è un libro tanto bello quanto irritante.
 Nella prima parte si descrive la situazione politica, socioeconomica e militare che portò alla decisione di entrare in guerra: gli intrallazzi dei due politici maggiormente responsabili dell’entrata in guerra, Salandra e Sonnino, miranti a isolare Giolitti e i liberali contrari all’intervento e spingere un’opinione pubblica, nettamente pacifista, a entrare in guerra; le giravolte, i tradimenti e le trattative parallele fra gli Alleati e gli Imperi Centrali; il ricorso alla propaganda e ai giornalisti prezzolati, il coinvolgimento di figure grottesche come D’Annunzio; lo spauracchio usato ad arte della rivolta socialista in agguato; gli effetti perversi del nazionalismo e degli ideali “vitalisti”; la cronica disorganizzazione del nostro esercito corredato alla miope ottusità dei suoi ufficiali superiori.
In seguito si descrive la vicenda bellica: l’illusione di una guerra “garibaldina”, la disillusione per il mancato conseguimento di una rapida vittoria; le battaglie dell’Isonzo esauritesi una dopo l’altra infrangendosi sui contrafforti delle montagne o lungo il deserto calcareo dell’altopiano carsico senza ottenere risultati di rilievo ma portandosi via la vita di centinaia di migliaia di soldati, per lo più ignari delle ragioni di questo conflitto. Cadorna ne scatenerà undici una dietro l’altra, impiegando sempre più uomini e mezzi, per poi cedere tutto il terreno faticosamente conquistato nel corso della dodicesima, la disfatta di Caporetto, che respingerà le truppe italiane assai ingloriosamente, fino al fiume Piave.
L’Autore attraverso le vivide descrizioni dei protagonisti, fra i quali noti poeti come Ungaretti, descrive le condizioni di vita disumane dei soldati e della popolazione civile sfollata: le distese di cadaveri e macerie, la fame, il freddo, i bombardamenti, il gas, le cariche all’arma bianca, la paura dell’attesa e della morte, le incomprensibili e crudeli punizioni inferte ai soldati dagli ufficiali superiori incompetenti. In sintesi, è posta in evidenza l’enorme distanza fra l’ideale eroico e virile della guerra e la sua realtà oggettiva; il punto di vista distorto dei politici e dell’Alto Comando, entrambi lontani dal fronte, contrapposto alla dura realtà della guerra di trincea. E’ anche Interessante l’attenzione posta dall’Autore al punto di vista del “nemico”, in particolare riguardo ai soldati di etnia slava. Essi lottarono tenacemente contro di quelli che erano visti come gli invasori, i nemici storici, i futuri dominatori; proprio nel momento in cui, dalla parte opposta gli intellettuali italiani erano convinti di portare avanti gli ideali risorgimentali di liberazione delle terre irredente.
La parte finale è riservata al bilancio e alle conseguenze della guerra. In Italia più che altrove pesò il rapporto fra i benefici realmente ottenuti rispetto a quelli promessi o anche solo sperati. Soprattutto, fu evidente il costo sproporzionato che s’impose alla nazione in termini di vite umane e risorse sprecate. Basti dire che, le guerre risorgimentali, tutte insieme costarono qualche migliaio di morti mentre, secondo la ricostruzione dell’Autore, il confitto mondiale produsse in Italia circa un milione e trecentomila fra caduti, mutilati e feriti gravi (i soli morti furono più di seicentomila!) fra i soldati e la popolazione civile. Oltre alle terre irredente abitate da una maggioranza d’italiani, furono occupati territori abitati da popolazione dove l’etnia slava e quella tedesca erano prevalenti, gettando i semi di futuri conflitti e rivalse che si trascinarono fino a dopo la Seconda Guerra Mondiale. Il mito della “Vittoria Mutilata” (non a caso inventato da D’Annunzio!), unito ai disagi e ai disordini del dopo guerra, contribuì fortemente a creare quello spirito di rivalsa che portò all’ascesa del regime fascista. E’ ormai riconosciuto che la Grande Guerra fu un tragico punto di svolta per la civiltà europea, ma in poche nazioni come l’Italia, questo trauma fu tanto più inutile e foriero di conseguenze, quanto facilmente evitabile.  

mercoledì 13 novembre 2013

Legge 194: Un bilancio a 35 anni dall'introduzione del provvedimento


Ricorrono i trentacinque anni dall’introduzione della legge 194, il provvedimento che ha legittimato l’aborto in Italia. In un articolo pubblicato oggi su La Stampa: “A trentacinque anni dalla legge gli aborti sono più che dimezzati”, è presentata una breve sintesi dei risultati:
In sintesi, gli aborti praticati ogni anno sono calati costantemente e la percentuale d’incidenza rispetto al momento dell’introduzione del provvedimento segna un secco -54,9%, risultato che sarebbe anche più indicativo se la statistica fosse depurata dall’incidenza dei casi che riguardano la popolazione immigrata. I dati sono ancora più significativi se si segmenta la casistica in funzione del livello di scolarizzazione dei soggetti coinvolti: le donne laureate presentano un’incidenza d’aborto pari al sei per mille, mentre per quelle con licenza elementare il dato sale al venti per mille. Confortante il dato del tasso di aborto fra le minorenni che si colloca al posto più basso nel mondo, il 4,5 per mille.
Questo per ciò che riguarda le cifre relative, un po’ più impressionante si presentano i numeri assoluti; nel 2012 in Italia ci sono stati 105.968 casi d’interruzione di gravidanza … comunque tanti!
La sintesi di questi dati dovrebbe, a parer mio, fare emergere le seguenti considerazioni:
E’ la cultura in senso esteso, intesa sia come conoscenza “tecnica” sia come consapevolezza etica o, se vogliamo definirla così, una maggior “maturità”, la miglior fonte di prevenzione verso questo fenomeno; il proibizionismo o il moralismo bigotto non paga. Invece, una conoscenza precoce dei rudimenti dell’educazione sessuale e una mentalità molto aperta e tollerante nei confronti dei metodi contraccettivi sono strumenti fondamentali per abbattere il fenomeno.
Un aspetto inquietante che emerge dall’articolo è quello dell’obiezione di coscienza far i medici. Il fenomeno presenta un trend in crescita che, al Sud, raggiunge punte del 90%. Ora, è evidente che le persone e, soprattutto, i seguaci di Ippocrate, abbiano il pieno diritto di fare una scelta personale in favore della conservazione della vita umana nelle sue accezioni più estese; bisogna però tenere conto anche del diritto dei cittadini a poter usufruire “de facto” di quanto previsto da una legge e dal servizio sanitario nazionale. Pertanto la soluzione del problema dovrebbe essere tanto semplice quanto radicale: un medico ha diritto alla propria coscienza ma non al posto fisso nel servizio sanitario nazionale qualora non sia in grado di svolgere le funzioni alle quali è preposto. Di conseguenza, mi sentirei di dire che il rifiuto di praticare un protocollo medico al quale il cittadino ha diritto si qualifica come “giusta causa” per il licenziamento o criterio discriminante per l’assunzione presso le strutture pubbliche, punto!

martedì 12 novembre 2013

Corte Costituzionale: "Ma quanto ci costi?", un rimando al sito de "Lavoce.info"

In tempi di "spending review" millantata ma mai seriamente applicata, certi studi dovrebbero essere ampiamenti diffusi. Lo faccio quindi volentieri, sperando di allinearmi così alle intenzioni dell'Autore.

Il seguente articolo "La Corte Costituzionale: uno scandalo nascosto" scritto da Roberto Perotti è visionabile sul sito "lavoce.info":

http://www.lavoce.info/la-corte-costituzionale-costi-sprechi-scandalo/

Si tratta di un confronto fra i costi della Corte Costituzionale italiana confrontati con quanto si spende in USA, GB e Canada.

Secondo quanto riportato nell'indagine la nostra struttura costa circa tre volte di più rispetto a quelle dei Paesi citati.

Spero, ovviamente che l'Autore si sia sbagliato ( :-)), ma nel caso esso riporti informazioni affidabili, sarebbe interessante sapere come sono giustificabili tali differenze. In particolare balza subito all'occhio la sproporzione che riguarda la voce "Stipendi"! A questo punto il pensiero va subito alla deplorevole situazione in cui, evidentemente, versano i poveri giudici americani ... come faranno con questi stipendi da "fame"?!

domenica 10 novembre 2013

Recensione: Il Bosone di Higgs – L’invenzione e la scoperta della “particella di Dio”


“Il Bosone di Higgs – L’invenzione e la scoperta della “particella di Dio””, titolo originale: “Higgs. The Invention and Discovery of the “God Particle””, di Jim Baggot, traduzione realizzata grazie al contributo del SEPS (Segretariato Europeo per le pubblicazioni scientifiche), edizioni Adelphi, ISBN: 978-88-459-2785-0.
 
Di cosa è fatto mondo (o meglio, l’universo!)?
Fin dall’antichità il genere umano ha cercato soluzioni a questi interrogativi, ed essi sono alla base di innumerevoli teorie religiose, filosofiche e scientifiche che, nel corso dei secoli si sono confrontate e avvicendate nel tentativo di fornire risposte soddisfacenti. Attualmente, la teoria più promettente è descritta dal Modello standard delle particelle elementari che mette insieme teorie di campo quantistiche, forze di “colore”,  nucleare “debole” e elettromagnetismo. 
 
Il 4 luglio 2012 il CERN ha annunciato la scoperta di una nuova particella che corrisponde come caratteristiche fisiche al “Bosone di Higgs”, la particella associata ai “Campi di Higgs” la cui esistenza era stata ipotizzata fin dagli anni sessanta dai fisici: Peter Higgs, Steven Weinberg e Abdus Salam. La scoperta del bosone, se confermata, rivestirebbe una certa importanza perché fornirebbe una evidenza empirica ad un concetto teorico cruciale ai fine della coerenza dello sviluppo del “Modello standard”. 

Il libro di Baggot descrive il contesto e tutti i principali apporti che hanno portato allo sviluppo del “Modello Standard” e rende giustizia dello sforzo scientifico, organizzativo e tecnologico che ha reso possibile affinare di molto la nostra conoscenza della natura dell’universo. 

Penso che la migliore sintesi di quest’opera sia quella fornita dallo stesso Autore nell’epilogo, essa parte da quanto era ritenuto valido fino alla metà degli anni trenta del novecento. In quegli anni, la nostra conoscenza dell’atomo corrispondeva più o meno a quanto ci è stato insegnato a scuola, cioè un insieme di particelle costituito da un nucleo composto di neutroni e protoni, quest’ultimi di carica positiva, intorno al quale gravitano gli elettroni, di carica negativa; il tutto tenuto assieme dalla forza di attrazione elettrica.
 [pag.193, corsivi e grassetti miei!] “… Oggi le nostre risposte sono diventate notevolmente più raffinate. I protoni e i neutroni del nucleo non sono in realtà particelle elementari: sono composte di quark, di carica elettrica frazionaria. Un protone consiste di tre quark di “sapore” diverso: due u e un d. I quark si distinguono anche per il “colore”: rosso, verde o blu. I due quark u e il quark d del protone hanno tutti “colore” diverso, così che la loro combinazione appaia “bianca”. Un neutrone consiste in un quark u e due quark d, anch’essi di colori diversi.
La forza di colore tra i quark è trasportata da otto diversi tipi di mediatori di forza, chiamati gluoni. Tale forza cresce di intensità non all’avvicinarsi dei quark, come ci si potrebbe aspettare, ma al loro allontanarsi … La scoperta di una nuova particella al CERN è una forte indicazione che la massa dei quark sia dovuta alla loro interazione con il campo di Higgs, che trasforma quark altrimenti privi di massa in particelle massive … Le masse dei quark sono molto piccole e spiegano solo l’uno per certo della massa del protone e del neutrone. Il restante 99 per cento è dovuto all’energia trasportata dai gluoni privi di massa che vengono continuamente scambiati dai quark e che li tengono legati assieme. Nel “Modello Standard” il concetto di massa come proprietà intrinseca, o misura della quantità di sostanza, non esiste più. La massa proviene esclusivamente dall’energia delle interazioni che si verificano fra i campi quantistici elementari e le loro particelle.
Il bosone di Higgs è parte del meccanismo che spiega come si forma la massa di tutte le particelle dell’universo …
Senza queste interazioni, la materia sarebbe effimera e impalpabile come la luce stessa e nulla sarebbe.” 

La mia reale comprensione di queste definizioni non è, ovviamente, neppure lontanamente sufficiente per cogliere l’intera portata di tutti questi ragionamenti e conclusioni, fortunatamente però, il libro è comunque sempre avvincente e scorrevole e non risulta penalizzante il fatto di non avere una competenza specifica riguardo a questi argomenti.
Infine, tutti, ivi compresi i profani come il sottoscritto, saranno comunque in grado di valutare e apprezzare quanta strada si sia compiuta in termini di conoscenza a partire dalle teorie degli elementi: terra, acqua, aria e fuoco ipotizzate da Empedocle più di due millenni fa.

lunedì 28 ottobre 2013

Recensione: E l’uomo creò gli dei – come spiegare la religione


“E l’uomo creò gli dei – come spiegare la religione”, titolo originale: “Et l’homme créa les dieux”, di Pascal Boyer, traduzione di Donatella Sutera Sardo, edizioni Odoya, ISBN: 978-88-6288-073-2.
Un saggio molto interessante che parte dalle esperienze sul campo svolte dall’Autore in ambito antropologico alle quali vengono aggiunti i risultati e i concetti elaborati dalla studio delle neuroscienze e dei diversi ambiti della psicologia e della sociologia.
In sintesi, sembra che le credenze religiose siano il risultato di processi mentali abbastanza specifici e peculiari della mente umana, la quale sembra predisposta per incasellare e sviluppare concetti differenti in base ad una serie di categorie “ontologiche”, cioè che si riferiscono all’essenza stessa delle cose (ad esempio i concetti di: animale, artefatto, oggetto inanimato di origine naturale, ecc.) alle quali viene applicata l’innata capacità umana di produrre “inferenze” , cioè processi logici attraverso i quali, a partire da una preposizione ritenuta corretta e vera se ne ricava una seconda la cui correttezza dipende dalla prima;  in sintesi, “deduzioni” rispetto alla veridicità o almeno plausibilità di certe osservazioni o fatti. Queste caratteristiche si combinano poi con delle ulteriori caratteristiche evolutive peculiari della mente umana, che derivano dalle opposte esigenze poste dalla nostra natura che, da una parte costringe gli individui ad aggregarsi e collaborare con altri soggetti e dall’altra, impone il proseguimento di obbiettivi e fini individuali. Tali esigenze ambivalenti hanno predisposto la mente umana verso un approccio empatico nei confronti degli altri uomini e hanno sviluppato le nostre capacità di produrre continuamente scenari e relazioni causa-effetto relative a situazioni reali o ipotetiche (e anche di pura fantasia) al fine di mettere in atto strategie di natura sociale combinandole con comportamenti in grado di promuovere i nostri fini individuali e competitivi.
I concetti religiosi sarebbero dunque il risultato di un processo evolutivo che nel corso del tempo ha provveduto a selezionare quelle credenze riguardo al sovrannaturale che, seppur spesso contro-intuitive,  risultano più funzionali ed accettabili per la soluzione di problemi di ordine pratico e psicologico gravanti sia le società umane sia gli individui.
Detto in questo modo, apparentemente, i concetti trattati nel corso dell’opera appaiono di non facile comprensione immediata, ma l’Autore riesce a guidare il lettore attraverso un percorso graduale dove, grazie a esempi pratici e spiegazioni scientifiche, essi divengono facilmente comprensibili.
 Alla fine, non si può neanche affermare che il libro di Boyer appaia come chiaramente anti-religioso, infatti, se vogliamo, l’Autore non entra nel merito delle questioni mistiche di maggior portata intellettuale (non c’è nessuna discussione riguardo al tema dell’esistenza di Dio), limitandosi invece a fornire un’affascinante panoramica del meraviglioso funzionamento della mente umana, dei suoi paradossi e del grado di ingegnosa sofisticazione del nostro processo cognitivo.

martedì 15 ottobre 2013

Recensione: Il Tamburo di Latta


“Il Tamburo di Latta”, titolo originale: “Die Blechtrommel”, di Günter Grass, traduzione di Lia Secci, edizioni La Biblioteca di Repubblica, ISBN: 84-96075-89-3.
Siamo nel 1951; dal manicomio in cui è rinchiuso a causa di un omicidio che, in realtà, non ha commesso, Oskar Matzerath, un uomo di trent’anni, dotato di grande intelligenza ma affetto da nanismo e deformato da una gobba, rievoca la propria storia e quella della sua famiglia risalendo nei ricordi grazie all’ausilio del ritmo del suo tamburo di latta.
La famiglia di Oskar è originaria del territorio di Danzica ed ha un’origine mista, come spesso avviene nelle zone di frontiera: comprendendo un ramo casciubico (un’antica etnia di origine slava stanziatasi nel cosiddetto “corridoio di Danzica” intorno al VI secolo d.C.) e parentele sia polacche sia tedesche. L’infanzia di Oskar, affetto da nanismo fin dall’età di tre anni, si svolge a Danzica nel periodo che va dagli anni venti del novecento fino alla fine della seconda guerra mondiale, quando la famiglia sarà costretta a sfollare in quella che diverrà la Repubblica Federale tedesca.
La vita di Oskar è costellata di fatti surreali; innanzi tutto, il suo nanismo è, almeno secondo quanto afferma egli stesso, in un certo senso autoimposto. Oskar, dall’età di tre anni si rifiuta di crescere in segno di protesta verso il mondo degli adulti. A partire dal suo terzo compleanno egli maturerà la decisione di non crescere più (questa, almeno, è la sua spiegazione!) e otterrà in dono il suo primo tamburo di latta, strumento che lo accompagnerà quasi costantemente fino alla fine del romanzo e che gli conferirà alcuni dei suoi “poteri” straordinari, quali quello di richiamare ricordi e sensazioni passate propri e altrui attraverso il ritmo del tamburo. Un altro suo potere speciale sarà costituito, invece, dalla sua capacità di incidere o infrangere il vetro a distanza attraverso l'uso della voce. Munito di questi super poteri, il protagonista vivrà e assisterà a molti “fatti storici”, o meglio, a molte assurdità, fasi convulse, violenze e ingiustizie conseguenti all’ascesa del nazismo e agli eventi bellici. Tali avvenimenti, finiranno per intrecciarsi inesorabilmente con le proprie vicende personali e famigliari, anch’esse piuttosto complicate, improbabili e notevolmente surreali.
Attraverso mille peripezie, Oskar riuscirà a raggiungere ricchezza e fama, ma sempre manterrà un punto di vista distaccato, critico, vagamente paranoico e cinico nei confronti del mondo che lo circonda.
Che dire di un libro così? Sicuramente l’opera di Günter Grass è scritta benissimo e, nonostante che la storia appaia da subito totalmente assurda ci si trova costretti ad andare avanti per capire come evolve la trama e come il tutto vada a finire. Personalmente, però, nel corso della lettura non sono riuscito a individuare tutti quegli aspetti salienti che hanno contribuito alla fama di quest’opera.
Nel corso del romanzo emerge chiaramente la critica verso il nazismo e nei confronti di quel “mondo degli adulti” che non ha saputo resistere a tale (in vero, rozza) fascinazione e che anzi, l’ha accolta prontamente e con favore.  Mi è sembrato poi, che l’Autore stigmatizzasse il nazionalismo di per sé, criticandone gli eccessi sia di parte tedesca sia polacca. Personalmente, devo però ammettere di non essere stato in grado di cogliere tutti gli altri aspetti allegorici del romanzo, a partire dal simbolismo legato dalle varie fasi di crescita fisica del protagonista, dallo sviluppo della sua gobba, continuando con i riferimenti al periodo del dopoguerra caratterizzato sia dal fenomeno culturale dell’“espiazione” collettiva delle colpe della seconda guerra mondiale e del nazismo, sia, all’opposto, della “rimozione” delle stesse da parte del popolo tedesco. Questi elementi li ho scoperti poi dopo grazie a una ricerca personale che ho compiuto e che è stata stimolata dalle sensazioni ambivalenti che mi ha suscitato la lettura dell’opera.
Detto in altre parole, anche dopo aver affinato maggiormente la conoscenza del romanzo attraverso una ricerca più approfondita dei significati profondi che ci ha voluto trasmettere Günter Grass, continuo a ritenere la storia ben scritta ma troppo assurda e criptica per essere veramente piacevole oltre che istruttiva. Questo almeno per quei lettori che, come il sottoscritto, tendono a essere espliciti, concreti e vagamente impermeabili nei confronti del simbolismo. Rimango, infatti, dell’opinione, magari errata, che un buon romanzo sia tale anche perché immediatamente accessibile e comprensibile alle menti semplici.

venerdì 11 ottobre 2013

Una riflessione sul problema dell'immigrazione


Le recenti vicende legate alla tragedia di Lampedusa dove hanno perso la vita centinaia di migranti e le esternazioni di Grillo e Casaleggio, che sfiduciano la posizione di alcuni senatori M5s che hanno promosso un emendamento favorevole all’abolizione del reato di clandestinità, hanno riportato all’onere delle cronache il complesso problema della regolamentazione dell’immigrazione, riproponendo l’eterno dilemma fra il diritto dei migranti alla libertà di movimento e alla ricerca di un futuro migliore e quello delle popolazioni ospitanti, spaventate e spesso infastidite dal continuo flusso di forestieri in entrata e dalle possibili conseguenze culturali ed economiche di questa lenta “invasione”.
Dove stia il corretto punto di equilibrio fra le esigenze di libertà e la “difesa” del proprio territorio è cosa difficilissima da determinare e molto dipende da come vengono ordinati i valori etici, morali e culturali dei singoli individui. Non è neppure secondario il ricevere delle informazioni corrette; ad esempio come le seguenti:
-         Quanta percentuale del flusso migratorio rimane stabilmente nei luoghi di prima accoglienza e quanta parte, invece, si sposta altrove?

-         Quanto l’immigrazione permanente incide positivamente attraverso il proprio contributo economico e culturale rispetto a quanto si dimostra apportatrice di maggiori costi e disagi?

-         Esistono dei criteri oggettivi per determinare l’eccesso di pressione sulle risorse di un territorio determinato dall’incremento della popolazione?
Soprattutto però è necessario rispondere ad interrogativi importanti cominciando da quello principale: “E’ giusto limitare l’accesso al proprio territorio e mercato del lavoro ad altri individui solo perché privi dello status di cittadini?” e, se si, per quali motivi, richiamandosi a quali principi e secondo quali modalità?
Le risposte a questa semplice serie di domande non sono né semplici né scontate perché, appunto, presuppongono la misurazione soggettiva e psicologica di quanto ognuno di noi sia disposto a spartire, o meglio, condividere, le reali o anche solo immaginate “ricchezze” di un certo territorio e modello sociale che consideriamo "nostro" e il cui equilibrio rischia di essere messo in crisi dal flusso migratorio, ma che da esso, a ben vedere, potrebbe anche ricevere beneficio.

martedì 1 ottobre 2013

Enrico Letta: Il mio punto di vista sulla sua opera di governo


Comunque vada a finire l’attuale fase di crisi di governo, ho certamente aumentato di molto la mia stima personale per il capo dell’attuale esecutivo, Enrico Letta. Devo dire, innanzitutto, che non avevo certamente vissuto positivamente la nascita del suo governo che vedevo, al più, come un male necessario per superare rapidamente il caos creatosi a seguito del disastro elettorale prodotto dalle ultime elezioni politiche. Il governo però è andato avanti, magari fra mille compromessi, fra i quali qualcuno indigesto (il pasticcio dell’IMU, per esempio) conquistandosi progressivamente una sua credibilità sia sul piano interno sia su quello internazionale e, nel frattempo, dovendo fronteggiare non poche oggettive difficoltà; così compresso fra le lotte fratricide del PD, la disarmante e incomprensibile irresponsabilità del M5S e l’impasse del PDL, incapace di concentrarsi su altro che non siano le vicende personali di Berlusconi. Secondo la mia percezione personale, Enrico Letta nel corso del tempo ha cominciato effettivamente a dispiegare quelle capacità di paziente mediatore, che, sicuramente sono state alla base della sua nomina, ma, durante la sua azione di governo, ha anche mostrato di saper essere determinato facendo quindi mostra di quel binomio di forza e moderazione che sta alla base del successo di molti veri leader e, in questo, contrapponendosi in maniera netta al facile populismo di personaggi come Grillo e Berlusconi.
Entriamo in una fase caotica, dove tutto può succedere: nuove elezioni, un “Letta bis”, una ventilata scissione del PDL (che io accoglierei con estremo favore!), un ricambio dei vertici del PD … In mezzo a tutto ciò, terrò d’occhio l’ex “grigio” Enrico Letta cercando, con il peso modesto del mio potere di elettore, di creare un’occasione per dargli nuovamente spazio.

giovedì 26 settembre 2013

Il caso telecom è il problema delle "reti"


Riguardo alla vicenda Telecom è “scoppiato” il caso della rete (alleluia) e i nostri ineffabili politici si sono “improvvisamente” accorti del problema. E dire che il tema dello scorporo delle rete dovrebbe avere un carattere generale e, soprattutto, dovrebbe essere la prima cosa alla quale si pensa quando si attuano delle privatizzazioni di quei servizi che, tradizionalmente non ponevano problemi di questo genere in quanto pubblici e monopolisti.
Tanto per chiarire, quindi, il problema non riguarda solo la rete telefonica fissa, ma anche tutte le altre reti, a partire da quella della telefonia mobile (visto che l’argomento è all’ordine del giorno),  ma non solo, perché senza doverci pensare troppo, si arriva a comprendere che di “reti” ce ne sono tante e non tutte sono già state scorporate e portate sotto il controllo diretto o indiretto della Stato o di sue emanazioni (regioni, province, comuni, ecc.); cito ad esempio: la rete elettrica, quella autostradale, ferroviaria, telefonia fissa e linee dati, telefonia mobile, distribuzione del gas, acqua potabile, ecc..
Dovrebbe sembrare naturale, ma evidentemente non lo è, che le reti debbano rimanere in qualche modo sotto controllo pubblico (magari seguendo un modello come quello attuato con TERNA, la società che gestisce la rete elettrica), di cosa si parla sennò quando ci si riempie la bocca utilizzando il termine “infrastrutture” (per le quali, se non erro, abbiamo pure un ministero preposto!)?
Nel caso di Telecom, ovviamente il problema doveva porsi subito all’atto della privatizzazione (ed anche per la rete mobile, come ho già anticipato), in questo modo non ne staremmo parlando adesso e, soprattutto, non si aprirebbero i prevedibili dibattiti riguardo al valore della rete, sul reperimento delle risorse e sul veicolo che dovrà occuparsi della futura gestione (posso suggerire di ricorrere ad una società da quotare in borsa?). Nel caso in cui poi, l’operazione andasse in porto si porrebbe il problema di come uniformare la rete, per esempio spiegando come si intende agire nei confronto di coloro che, nel frattempo hanno sviluppato reti indipendenti ed anche, potenziali duplicazioni (es Fastweb nella rete fissa e “Tre” e Vodafone nella telefonia mobile) e chiaro infatti che, se la rete è giustamente da considerarsi strategica, essa deve anche garantire uniformità di accesso a tutti gli operatori di mercato e, dall’altra parte, non può “tollerare” sovrapposizioni (per di più fuori del controllo della sfera pubblica).

mercoledì 25 settembre 2013

Qualche riflessione sulle vendite di Telecom e Alitalia


L’esito presunto delle vicende Telecom e Alitalia, cioè il passaggio del controllo in mani straniere non è tanto preoccupante per finale annunciato; quello che invece inquieta è come il tutto è stato gestito dalla nostra classe imprenditoriale e politica. Non c’è nulla di intrinsecamente sbagliato, infatti, nel fatto che un’azienda nazionale passi di mano e finisca sotto controllo estero, anzi, nel gioco della globalizzazione, avviene spesso e gli esiti per l’occupazione locale e per lo sviluppo dell’attività non sono sempre negativi. A questo proposito, basta guardare a un esempio recente dove l’ottica dovrebbe apparire esattamente rovesciata, alludo a ciò che sta succedendo nel caso dell’acquisizione di Chrysler da parte della FIAT che è avvenuta con l’accordo del governo USA, dei sindacati e delle maestranze e che, ben lungi dal mettere in crisi l’eccellenza locale rischia semmai di mettere in pericolo la vocazione italiana della casa madre.
Dall’altra parte, accantonata per un attimo la favoletta della libertà imprenditoriale e della globalizzazione, è chiaro che uno Stato “come Dio comandi” cerca di darsi una politica industriale che passa anche attraverso una strategia di supporto e di controllo di quelle attività che esso ritenga “strategiche”.
Immancabilmente i governi italiani mostrano, invece, di non avere nessuna visione strategica che non sia la mera visione clientelare, pertanto, le operazioni gestite dalla nostra classe politica, spesso condotte sotto l’ombrello e la partitura orchestrata da Mediobanca, sono nel lungo termine (e spesso anche nel breve periodo) fallimentari traducendosi nell’erosione della capacità di sviluppo e di sopravvivenza delle realtà economiche oggetto di “ripartizione”.
Anche la nostra classe imprenditoriale non è ovviamente priva di difetti e, normalmente partecipa volentieri a queste operazioni di saccheggio purché non debba metterci soldi propri e capitali di rischio.
 L’Italia era una nazione che vantava una preminenza assoluta nella tecnologia della telefonia ma il passaggio di Telecom ai privati, compiuto senza nuovi apporti di capitali e sostanzialmente basandosi esclusivamente sull’indebitamento ha impedito per decenni di investire seriamente in ricerca e sviluppo facendo così perdere progressivamente all’azienda quella preminenza tecnologica e quelle risorse che potevano permettergli di essere agente aggregante anziché oggetto d’acquisizione. Tra l’altro, proprio il passaggio del controllo di Telecom avvenuto alla fine degli anni novanta ha comportato la vendita all’estero dell’Omnitel - Infostrada alla tedesca Mannesmann. Dal punto di vista del sistema Italia il danno è stato quindi duplice perché alla fine dell’operazione solo uno dei due principali operatori nazionali rimaneva sotto il controllo d’imprenditori nazionali che, invece, perdevano il controllo di un’azienda competitiva; Telecom (o meglio, Telco) invece, usciva dall’operazione azzoppata poiché zavorrata da una mole ingente di debiti. A peggiorare ulteriormente le cose vale anche il giudizio corrente secondo il quale, il beneficio ricavato dallo Stato per la privatizzazione fu largamente inferiore alle attese; in pratica, la Telecom fu, di fatto, svenduta con grave danno all’erario e alle tasche del contribuente. L’operazione riguardante Alitalia è pure stata peggiore, la società, animale politico per definizione e, insieme a “mamma” RAI sovrano ostello di nomine politiche e assunzioni per raccomandazione, non ha mai prodotto grandi utili ma, più spesso, consistenti perdite da ripianare, tutto poi si poteva definirla salvo che “strategica”. Venderla ad Air France per tempo non sarebbe poi stato neanche troppo un cattivo affare, ma di nuovo, sono entrate in gioco la nostra solita cordata raccogliticcia d’imprenditori nazionali e la politica (ed anche, visti i tempi, la tipica demagogia da campagna elettorale). Il risultato di tutto ciò sarà che, probabilmente, Alitalia sarà venduta al pretendente di sempre ma a un prezzo sensibilmente inferiore.
Altri esempi di questo tipo non sono difficili da trovare, basti pensare a com’è stato gestito il problema delle privatizzazioni nel modo bancario che ha introdotto la stortura delle fondazioni. Notevole anche l’esempio dell’ILVA che ci lascia il dilemma se abbandonare il settore dell’acciaio, condannare un’intera popolazione alla disoccupazione, oppure lasciarla al dissesto ambientale.
 Alla fine i conti, dunque, li pagano sempre i soliti noti: in primo luogo le maestranze, a seguire i contribuenti, prima o poi, però, finiremo di avere anche solo qualcosa da privatizzare ... e a quel punto? ...

venerdì 20 settembre 2013

Recensione: Il mondo fino a ieri – Che cosa possiamo imparare dalle società tradizionali


"Il mondo fino a ieri – Che cosa possiamo imparare dalle società tradizionali”, titolo originale: “The World Untill Yesterday. What Can We Learn from Traditional Societies”, di Jared Diamond, traduzione di Anna Rusconi, edizioni Giulio Einaudi, ISBN: 978-88-06-21452-4.  

Questa volta, l’Autore di “Armi acciaio e malattie” e di “Collasso” ha scritto un libro, nelle premesse, meno ambizioso di quanto ci aveva abituato in passato, ma non per questo meno interessante. In quest’opera Diamond non si occupa direttamente dell’origine e del destino della civiltà ma, facendo ampio ricorso ai suoi studi e alla sua personale esperienza sul campo si arma di lente d’ingrandimento e fa una sorta di comparazione tra il modo di vivere e le istituzioni di un certo numero di società tradizionali comparandole con ciò che succede nelle moderne società occidentalizzate, lo scopo è, da una parte quello di estrapolare e recuperare quei comportamenti che potrebbero contribuire a migliorare la nostra qualità di vita, dall’altra, quello di fornire una spiegazione razionale del comportamento delle popolazioni tradizionali e delle motivazioni che hanno portato a mutamenti comportamentali, culturali e istituzionali nelle società moderne o comunque caratterizzate da una maggiore complessità e densità della popolazione.

L’Autore pone l’accento su argomenti specifici che riguardano le società pre-moderne descrivendo, ad esempio: le diverse ragioni e modi attraverso i quali avviene la gestione del territorio, della proprietà, della giustizia civile e penale, le motivazioni delle guerre tribali, degli scambi, dei commerci e delle relazioni interculturali ponendo persino l’attenzione sui diversi criteri di valutazione del rischio fisico e ambientale. Vengono poi descritti i rapporti famigliari, le diverse tradizioni matrimoniali e i differenti atteggiamenti verso la cura degli anziani, le abitudini alimentari e gli effetti legati alla differenziazione culturale e linguistica. 

Ne viene fuori un libro molto interessante che non annoia mai e ci regala elementi preziosi di riflessione che possono mutare in meglio anche la nostra esistenza personale.

giovedì 12 settembre 2013

Siria e Medio Oriente: Qualche riflessione sui movimenti insurrezionali, dittature e ruolo dell'occidente


Leggendo i resoconti del giornalista della Stampa Domenico Quirico che si riferiscono alla sua prigionia in Siria rilevo, un po’ amareggiato, come l’evoluzione dei movimenti insurrezionali segua spesso il medesimo schema: parte fra mille ideali di uguaglianza e libertà, per poi precipitare in forme più o meno evidenti di banditismo. Parlando dei paesi islamici, questo è successo in Afghanistan, in Somalia, in Mali e, con le dovute differenze, in Libia e, ovviamente sta avvenendo in Siria. Forse questa situazione non toccherà l’Egitto ma, e qui si aggiunge un nuovo elemento di riflessione, se il paese sarà risparmiato da queste forme di balcanizzazione della lotta, non sarà tanto per le qualità morali dimostrate dalle opposte fazioni, ma solo perché, in questo caso, la giunta militare sembra aver ripreso più che in altre parti il controllo della situazione. Anche questa possibile eccezione, quindi, non fa altro che fornire conferma a uno schema che sembra ripetersi all’infinito e dove emerge chiaramente quanto sia difficile rompere il circolo vizioso che sembra prevedere, per certi paesi, solo l’alternativa fra varie forme di dittatura e il caos. Riguardo ai racconti di Quirico noto anche che, le uniche note positive (o almeno, non totalmente negative!) nei confronti dei propri carcerieri le ha riservate a quelli che, per noi laici e occidentali dovrebbero essere considerati i nostri arcinemici, cioè ai militanti di Al Nusra, la cellula siriana affiliata ad Al Quaeda, mentre, sempre basandosi sulle dichiarazioni del giornalista, il resto dei gruppi militanti è risulterebbe costituito per lo più solo da briganti privi di ogni ideologia e morale. Ciò fornisce un altro elemento di pessimismo alle mie riflessioni perché, se come ho dichiarato, l’esito di questi conflitti prevede sostanzialmente solo due finali possibili: il ritorno a qualche forma di dittatura o, in alternativa, la disintegrazione dell’autorità statale, si potrebbe anche aggiungere che il risultato che prevede la restaurazione delle forme autoritarie può, a sua volta, portare a due sole scelte: l’instaurazione di un regime militare che s’ispira a sedicenti valori “occidentali” di modernizzazione e laicità, oppure, l’ascesa di un regime teocratico. Nessuna di queste due forme è, ovviamente, auspicabile per noi, né tantomeno, saremmo avvantaggiati dal caos prodotto dall’ennesimo “stato fallito”, difficilmente però possiamo seriamente pensare di ottenere esiti diversi se non attraverso impopolari e onerose operazioni di peace keeping che mettano, di fatto, queste aree sotto controllo e sotto tutela. In conclusione, se non abbiamo la volontà, la forza e magari anche la supponenza e l’arroganza per percorrere una tale ipotesi, tanto vale tenersi accuratamente lontani da queste situazioni rimanendo il più possibile fuori dalla mischia.

martedì 10 settembre 2013

IMU e Service Tax: I soliti pasticci


La questione della tassa patrimoniale sulla prima casa evidentemente tocca qualche corda profonda nella psiche degli italiani (e non solo il portafoglio :-)). A mio avviso, infatti, riguardo a questo argomento si dimostrano totalmente irrazionali. Chiaramente, bisogna innanzi tutto tenere presente che il tema non è, almeno nel breve periodo, legato al livello globale dell’imposizione fiscale. Infatti, se da una parte è riconosciuto che il sistema faccia ormai fatica a digerire ogni nuovo incremento della pressione fiscale, dall’altra, è noto che il gettito dell’IMU dovrà essere sostituito, nella sostanza, da qualche nuovo tributo o dall’incremento di quelli esistenti. 
Personalmente, non riesco a capire come aumenti di imposta che colpiscano altri aspetti e settori possano sembrare preferibili. Sicuramente, non mi sembra che un ulteriore aumento dell’IVA sia auspicabile, non solo perché tale intervento finirebbe per essere fiscalmente regressivo nei confronti dei redditi più bassi, ma soprattutto perché si configurerebbe come un ulteriore incentivo all’evasione fiscale, mentre la tanto decantata “Service Tax” sembra studiata a tavolino più che altro per superare le difficoltà degli enti locali nel sopperire alla mancanza di gettito causato dalla soppressione dell’IMU e non certo per gestire le cose con maggiore efficienza. A questo proposito, posto che si parla di un’imposta sui servizi, cosa servirebbe, per esempio, permettere ai Comuni di fissare l’aliquota d’imposta della nuova tassa (TASI) in base alla rendita catastale? A onor del vero, il decreto prevede anche la possibilità di rifarsi al criterio della “superficie” occupata, ma, se il principio che sorregge la nuova imposintrodotto deve essere quello previsto dalle norme europee secondo le quali: “chi inquina, paga!”, tutto ciò non avrebbe alcun nesso con l’aliquota catastale e neppure, entro certi limiti, con la superficie degli stabili!
Certo, l’IMU si era dimostrata in parte iniqua, frutto più di un’operazione che aveva lo scopo di sopperire alle esigenze di cassa di breve periodo rispetto a quanto fosse pensata per riequilibrare le diverse fonti impositive; andava sicuramente ricalibrata tenendo conto del livello dei redditi (sarebbe bastato prevedere qualche forma di detraibilità in capo alla dichiarazione dei redditi!) e del numero dei famigliari, ma soprattutto, avrebbe dovuto basarsi su un sistema di rendite catastali efficiente che riflettesse le situazioni locali e gli effetti della crisi immobiliare. Detto ciò, però, il principio era giusto ed anche rispettoso dei tanto strombazzati (solo demagogicamente!), programmi di localizzazione delle risorse e federalismo fiscale.
Siamo dunque di fronte al solito italico pasticcio che, purtroppo, riflette la mancanza di responsabilità di buona parte della classe politica che continua a preferire gli slogan elettorali ad una seria opera di riforma.

venerdì 30 agosto 2013

Siria: che fare?


Bene ha fatto il nostro ministro degli esteri Emma Bonino a raffreddare gli animi rispetto ad un possibile intervento italiano in Siria. Laggiù la situazione è ancora più intricata che in Egitto ed è particolarmente difficile stabilire chi sia giusto, o anche solo, nostro interesse aiutare (si veda a questo proposito l’intervista a Edward Luttwak apparsa su la Stampa il 26 agosto dal titolo “Chiunque prevalga perde L’America” riportata qui sotto).

Il regime del presidente Assad è notoriamente autoritario, recentemente sospettato dell’uso di gas contro la popolazione civile (non certo una novità per ciò che riguarda la storia del medio oriente!), risulta implicato in tutti i principali episodi di destabilizzazione che hanno riguardato la storia libanese degli ultimi trent’anni; tra l’altro, ultimamente egli si è alleato con il movimento scita di Hezbollah, a sua volta appoggiato dall’Iran, retto da un regime non certo noto per le sue inclinazioni democratiche e, certamente, non certo estimatore dei principali valori occidentali.
Invece, il composito fronte di opposizione è formato da una numerosa galassia di sigle e fazioni, alcune delle quali, però, sono riconducibili niente meno che da al Quaeda; in ogni caso, lo zoccolo duro è formato da militanti ispirati dall’estremismo islamico di matrice sunnita, non certo gli alleati naturali di noi occidentali.
A mio avviso, c’è dunque ben poco da scegliere, nessuna delle due parti si merita né il nostro appoggio diretto, né, tantomeno, finirebbe per ringraziarci per averglielo dato.

La storia recente dovrebbe ormai avere insegnato ai nostri governanti (i quali, evidentemente hanno la memoria corta!) che ogni interferenza da parte nostra nella regione non fa che complicare la situazione. Dovremmo riconoscere di non avere il diritto e, soprattutto, la capacità di sciogliere il nodo gordiano che avvolge il medio oriente e l’intero mondo islamico e, pertanto, faremmo meglio ad evitare di metterci ulteriormente nei pasticci. Semmai rimane il problema della popolazione civile e. soprattutto, quello dei profughi, che, come il solito, vengono schiacciati ingiustamente in mezzo agli opposti despotismi e fanatismi.
Solo a loro, secondo il mio parere, dovrebbe essere rivolta l’attenzione dell’occidente, il quale, al posto di buttare soldi in interventi armati dovrebbe semmai mettere più proficuamente mano al portafoglio (probabilmente anche risparmiando rispetto ai costi di un intervento militare!) per sopperire alle loro esigenze immediate. Un’azione esclusivamente di natura umanitaria non solo ridurrebbe gli effetti negativi di questa immane tragedia, ma contribuirebbe anche a farci riguadagnare stima in un area dove certo non godiamo di una buona nomea.
 
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Allego il testo dell'intervista apparsa su La Stampa il 26 agosto intitolata “Chiunque prevalga perde L’America”: 

«Obama sta facendo la cosa giusta in Siria: resistere agli stupidi che cercano di spingerlo all’intervento». Edward Luttwak ha scritto un provocatorio editoriale sul «New York Times», in cui sostiene che gli Stati Uniti perderebbero in ogni caso, se una delle due parti vincesse la guerra. Quindi devono puntare al «pareggio permanente», che logorerebbe nemici dell’America come l’Iran, Hezbollah, Assad e al Qaeda.

Perché la vittoria di Assad sarebbe un disastro?

«Vorrebbe dire il successo di Iran, Hezbollah e gli sciiti più estremisti. Nemici giurati degli Usa, a cui non possiamo consegnare la Siria».

Perché non sarebbe utile neppure il successo dei ribelli?

«Sono una miriade di gruppi diversi, tra cui i fanatici islamici legati ad Al Qaeda, i talebani e i salafisti stanno prendendo il sopravvento. È gente che ammazza i cristiani, anche solo perché la loro squadra ha perso una partita di calcio. Se prendono la Siria, diventa una base per il terrorismo internazionale».

Se l’attacco chimico di mercoledì scorso verrà confermato, Obama potrà resistere ancora all’intervento?

«Certo. Finora sono state ammazzate oltre centomila persone con i proiettili convenzionali, e non siamo intervenuti; adesso dovremmo farlo, perché mille vittime sono state uccise dalle armi chimiche?».

Non le pare un ragionamento cinico, nei confronti dei civili che vengono massacrati?

«Al contrario, è un ragionamento realistico in loro difesa. Se una delle due parti vince, l’altra viene massacrata: i sunniti in caso di successo da parte di Assad; gli sciiti se vincono i gruppi estremisti legati ad al Qaeda. È vero che la gente sto morendo, ma la carneficina diventerebbe ancora più grave se qualcuno prendesse il sopravvento».

Molti criticano Obama, accusandolo di non aver avuto mai una strategia in Siria e Medio Oriente.

«Dicono una fesseria. La strategia di Obama era puntare sull’aiuto della Turchia, per appoggiare gli elementi moderati che all’inizio si erano rivoltati contro il regime, in modo da far cadere Assad e sostituirlo con un governo più amico. È la strategia che ha cercato di realizzare in tutto il Medio Oriente, appoggiando i musulmani moderati per dividerli da quelli più estremisti. Non ha funzionato perché la Turchia non è stata all’altezza, e i moderati siriani si sono dimostrati incapaci».

Ma il «pareggio permanente» a quale soluzione porta?

«Dobbiamo aiutare i ribelli quando Assad sta per vincere, e frenarli quando stanno vincendo loro. Così il regime siriano, l’Iran, Hezbollah, gli sciiti più estremisti, i salafisti, e i fanatici sunniti vicini ad al Qaeda e ai talebani, si logoreranno in una lunga guerra tra di loro, senza avere tempo e risorse per attaccare l’Occidente. Quando non avranno più forza, forse potremo riprendere il controllo. Quella zona del mondo, però, è un inutile covo di serpenti, dove non c’è neppure il petrolio. Non esiste alcuna ragione per cui agli americani convenga di metterci i piedi. Fra tre o quattro secoli, forse, quando torneranno a essere la grande civiltà che sono stati in passato».

lunedì 19 agosto 2013

Recensione: Abbasso Euclide – Il grande racconto della geometria contemporanea


"Abbasso Euclide – Il grande racconto della geometria contemporanea”, di Piergiorgio Odifreddi, edizioni Mondadori ISBN: 978-88-04- 62302-1. 

“Abbasso Euclide”, come anticipato dallo stesso Autore nelle prime pagine dell’opera, non va letto a detrimento del grandissimo matematico vissuto nel terzo secolo a.C. e padre della geometria classica; va invece considerato come un incitamento ad allargare la nostra conoscenza riguardo ai cambiamenti che hanno interessato quest’ambito di studi a partire dal diciottesimo secolo.
L’Autore prova a trascinare il lettore, magari, come il sottoscritto, ormai immemore di nozioni assimilate in un lontano passato, alla scoperta delle nuove geometrie moderne che spaziano in universi multidimensionali e si svolgono in forme strane, variopinte e vagamente aliene, ma che scopriamo essere spesso sotto i nostri occhi e a portata di mano, o persino … sulle nostre tavole (basta pensare ai cavolfiori!): solidi che si svolgono in più di tre dimensioni, “stringhe”, “nastri” e “nodi” dalle proprietà bizzarre, forme affascinanti con superfici infinite ma capienza finita e i misteriosi frattali.
Un libro molto bello, magari non sempre “facile” e non sempre completamente comprensibile, ma comunque alla portata di tutti (garantito dal sottoscritto!) colmo d’indispensabili esempi, illustrazioni e bellissime riproduzioni che insegnano ad apprezzare l’arte, soprattutto quella più astratta e moderna (caspita non sono tutte solo tele “imbrattate”! E io che pensavo ... :-)) e senza le quali, personalmente, mi sarei presto smarrito.  

Alla fine ti viene da chiederti dove saremmo se a scuola le materie scientifiche fossero insegnate attraverso questi metodi narrativi. Non ho dubbi riguardo alla risposta, sicuramente saremmo “più avanti”!

Da ex “somaro” (“ex” solo per raggiunti limiti di età), i miei complimenti all’Autore.
 
p.s. leggetelo alla sera! Personalmente ho fatto bellissimi sogni popolati di tetraedri e dodecaedri colorati :-).

mercoledì 7 agosto 2013

Recensione: Perché le Nazioni Falliscono – Alle origini di prosperità, potenza e povertà


"Perché le Nazioni Falliscono – Alle origini di prosperità, potenza e povertà”, titolo originale: ”Why Nations Fails”, di Daron Acemoglu e James A. Robinson, traduzione di Marco Allegra e Matteo Vegetti, edizioni Il Saggiatore, ISBN: 978-88-428-1873-1. 

La ricerca di valide teorie che riescano a spiegare le differenze che sussistono fra le varie nazioni in termini di sviluppo economico e politico è un’attività in continua evoluzione e una fonte inesauribile di dibattito. Fra le ipotesi sviluppatesi nel corso del tempo, hanno avuto un certo successo alcune spiegazioni che cercavano di far risalire tali diversità a aspetti  ambientali o geografici, altre, a fattori culturali, altre ancora, stigmatizzando l’incapacità delle istituzioni locali di adeguarsi alle esigenze imposte dal “mercato”.
 
Quest’opera, invece, propone un nuovo punto di vista sviluppando una teoria che, nella mia esperienza, ho trovato originale e molto convincente. Per gli Autori il maggiore o minore successo delle nazioni dipende dalla capacità delle stesse a instaurare un circolo virtuoso basato su una relazione molto stretta che unisce l’evoluzione politica e istituzionale alla crescita economica.
In particolare, secondo la terminologia sviluppata nel corso dell’opera, la prosperità tende a beneficiare quei paesi che hanno dato origine a istituzioni politiche ed economiche “inclusive”, vale a dire rappresentative, democratiche, liberali e competitive; al contrario, i paesi sottosviluppati sono per lo più riconducibili a un quadro politico ed economico di tipo “estrattivo”, cioè caratterizzato da istituzioni oligarchiche o di assolutismo politico tale da permettere lo sfruttamento della maggior parte delle risorse e della popolazione a esclusivo beneficio di un’elite ristretta.
Detto in parole più semplici, gli Autori sostengono che là dove la collettività ha avuto successo nel perseguire sia un certo livello di centralizzazione, sia un elevato grado di rappresentatività e di pluralismo nel campo delle istituzioni politiche, tale processo è stato accompagnato anche da una significativa e, soprattutto, diffusa crescita economica.

Gli Autori, ovviamente, mettono in guardia dalle eccessive semplificazioni e avvertono che le combinazioni di variabili che s’intrecciano in una relazione non gerarchica che vede combinarsi crescita economica, forme di condivisione del potere ed evoluzione verso forme di pluralismo politico sono numerosissime e, pertanto, non è possibile entro certi limiti, individuare con precisione le leve e le azioni che pongono in essere un circolo virtuoso di sviluppo. Tra l’altro, essi affermano chiaramente, facendo ricorso a non pochi esempi storici più o meno recenti, che anche le società di tipo “estrattivo”, quelle cioè basate sullo sfruttamento a favore delle elite dominanti, possono garantire periodi anche molto lunghi di sviluppo economico, esse però sono tutte condannate a incontrare un loro limite insito nelle loro forme politiche conservatrici che le porterà inevitabilmente al ristagno e alla decadenza. A esse, infatti, mancherà l’applicazione continua di quella “distruzione creatrice” (secondo la definizione data dell’economista Schumpeter) che garantisce il rinnovamento continuo dell’economia attraverso l’evoluzione della tecnologia ma che, dall’altro lato, causa inevitabilmente anche l’alternanza delle elite al potere. 

Un libro appassionante e illuminante che reinterpreta il passato, giustifica il presente e fornisce qualche elemento in più per scrutare nel futuro.

venerdì 2 agosto 2013

Berlusconi condannato in Cassazione: La fine del ventennio?


A seguito della definitiva condanna in Cassazione per l’evasione fiscale dei diritti Mediaset, forse possiamo dire che il ventennio berlusconiano sia giunto finalmente al suo crepuscolo. Spero sinceramente che questo non porterà a nuove aspre contrapposizioni politiche, anzi, mi auguro che Berlusconi si ritiri “a vita privata” senza troppi clamori. Dopo di ciò sarebbe auspicabile che si desse corso alla tanto attesa riforma elettorale e si tornasse al voto; liberi, questa volta, di sciogliere i ranghi di una lunga, logorante contrapposizione.

sabato 20 luglio 2013

Recensione: I Guardiani della notte – La trilogia


"I Guardiani della notte – La trilogia”, titoli originali: ”Nočnoj dozor” (Night Watch); “Dneznoj dozer” (Day Watch); “Sumere Nij Dozor” (Dusk Watch), di Sergej Luk’janenko, traduzioni di Nadia Cicognini, Cristina Moroni, Matteo Falcucci, Leo Sorcetti, edizioni Mondadori, ISBN: 978-88-04-60041-1. 

Anton è un uomo dalla vita apparentemente normale, ma in realtà è un “Altro”, una particolare mutazione in grado di utilizzare la magia, sorta di energia naturale che permea il mondo. Gli Altri sono una minoranza, ma non sono rarissimi, vivono spesso ignari della propria natura in mezzo agli altri esseri umani ma, una volta scoperti da loro affini, vengono “iniziati” e acquisiscono l’abilità di penetrare nel Crepuscolo, una dimensione magica accessibile solo a loro e che determina anche l’inclinazione di tutti quelli che vi accedono per la prima volta, l’appartenenza alla Luce, oppure alle Tenebre.
 
Anton è un mago della Luce, vive nella moderna Russia a Mosca e fa parte della “Guardia della Notte”, un particolare corpo di polizia che, all’insaputa del resto del genere umano, è incaricato di vigilare sulle creature delle Tenebre e sull’operato delle sue controparti, i membri della “Guardia del Giorno”, che, anch’essi pattugliano le vie della città per assicurare il rispetto del Patto fra Tenebre e Luce con il fine di mantenere l’equilibrio fra le due forze.

Questo perché, dopo millenni di lotta senza quartiere, le forze della Luce e delle Tenebre hanno stipulato un accordo che le obbliga a mantenere l’equilibrio che è fatto rispettare dalle due Guardie o, dove occorra, grazie alla mediazione e all’intervento di una terza temibile giuria neutrale, l’”Inquisizione”.

Bella idea, raccontata in modo scorrevole e abbastanza coinvolgente. Potenti personaggi dalle debolezze fin troppo umane dominano le nostre vite lavorando in corpi e uffici che assomigliano anche troppo ai nostri per le loro (stra)ordinarie storie di gerarchia, burocrazia, gelosie, amori, ferie e premi in denaro. Sullo sfondo, una Russia moderna fatta di nuovi ricchi, piccoli mafiosi, sfavillanti grattacieli e fatiscenti palazzi dell’era sovietica e, soprattutto, … tanta vodka.

lunedì 24 giugno 2013

Recensione: Pericolo Pakistan


"Pericolo Pakistan”, titolo originale:”Pakistan on the Brink”, di Ahmed Rashid, traduzione di Bruno Amato, edizioni Feltrinelli, ISBN: 978-88-07-17253-3. 

Ultimo libro pubblicato sull’argomento da Ahmed Rashid, giornalista e riconosciuto esperto dell’area centro-asiatica. L’opera, come sempre interessante e assai documentata, è incentrata sui problemi di Pakistan e Afghanistan, ma è anche una denuncia della relativa incapacità dell’amministrazione USA nel trovare la via di una politica coerente che permetta la stabilizzazione e la conseguente riduzione del suo impegno militare nell’area. La situazione è difficilissima: le nazioni occidentali vedono l’approssimarsi della fine del loro intervento militare in Afghanistan e, complici la crisi economica e la pressione dell’opinione pubblica interna difficilmente prevarrà la scelta di prolungarne l’impegno; l’Afghanistan, ora retto dal deludente e corrotto governo del presidente Karzai, appare ben lungi dall’essere pacificato e, solo ultimamente, sembra essersi aperto qualche spiraglio di dialogo che possa portare a un accordo politico e di pacificazione con i talebani; il Pakistan, vittima delle sue contraddizioni interne e dell’incapacità della sua leadership civile e di quella militare, rischia, invece, di precipitare in una situazione da “Stato Fallito” mettendo a repentaglio la stabilità dell’intera Asia centrale. 

Un libro bello, interessante e deprimente che, sulla scia dei precedenti “Caos Asia” (ISBN: 9788807171574) e “Talebani” (ISBN: 9788807170638), scritti dal medesimo Autore, mette in luce l’incompetenza, la corruzione e i tanti errori attuati da tutti i principali attori coinvolti.

mercoledì 19 giugno 2013

Recensione: Ai Lavoratori - ai lavoratori di Pozzuoli, alle "Spille d'oro"


"Ai Lavoratori”, di Adriano Olivetti, edizioni di Comunità, ISBN: 978-88-98220-00-7.
 
Tu puoi fare qualunque cosa tranne licenziare qualcuno per motivo dell’introduzione dei nuovi metodi perché la disoccupazione involontaria è il male più terribile che affligge la classe operaia”. Questa frase, rivolta dal padre Camillo al figlio durante uno dei processi di ristrutturazione concernente la fabbrica di Ivrea, riassume in tutta la sua forza la particolare visione imprenditoriale che li caratterizzò entrambi, incentrata sul concetto di responsabilità dell’impresa nei confronti della propria comunità di appartenenza.
 
In questo breve testo sono ripresi due discorsi indirizzati da Adriano Olivetti alle maestranze: il primo pronunciato in occasione dell’inaugurazione dello stabilimento Olivetti di Pozzuoli nel 1955, il secondo tenutosi a Ivrea nel 1954 in occasione della cerimonia di consegna delle spille d’oro, l’onorificenza che veniva distribuita ai lavoratori in occasione dei venticinque anni di attività presso l’azienda.
 
In ambedue le occasioni, viene affermato che il ruolo della fabbrica non è unicamente quello di creare lavoro e ricchezza ma trova la sua giustificazione nell’opera di elevazione della vita materiale ma anche spirituale della collettività presso la quale essa è collocata. Questa è la ragione per la quale la stessa struttura architettonica del luogo di lavoro deve essere studiata per essere a misura d’uomo, sicura, accogliente ma anche “bella”, esteticamente integrata ed elemento di valorizzazione del paesaggio.

Tutto ciò, unito a una filosofia che premia la permanenza a lungo termine nell’azienda, favorisce la crescita per percorsi interni, sanziona la ricerca del mero profitto o della sua “massimizzazione” come unico criterio di “governance” e condanna l’eccessiva sperequazione fra la quota dei profitti che deve essere retrocessa al personale a titolo di “indennizzo” rispetto a quanto spetti alla dirigenza (niente megastipendi e superbonus!) o agli azionisti.
Stiamo parlando di pensieri elaborati a partire dagli anni quaranta del novecento e che non possono non stupire tanto essi appaiano moderni e attuali.