lunedì 22 agosto 2016

Recensione: "Il Pollice del Violinista"


“Il Pollice del Violinista”, titolo originale: “The Violinist’s Thumb – And Other Lost Tales of Love, War, and Genius as Written by Our Genetic Code”, di Sam Kean, Giovanni Muro, edizioni Adelphi, ISBN 978-88-459-3060-7.

Paganini fu un grande violinista, ma alcuni ipotizzano che le sue eccezionali capacità dipendessero anche dal fatto che fosse dotato di dita estremamente lunghe e flessibili, caratteristica che porta il nome di aracnodattilia. Egli, per esempio era in grado di torcersi il pollice tanto da arrivare a toccarsi il polso del medesimo braccio. Godette però di salute cagionevole; soffriva forse di sindrome marfanoide? Il cervello di Einstein ha qualche aspetto eccezionale che ne possa giustificare il genio? Tra l’altro, avete idea di che fine abbia fatto tanta materia grigia? In che formula genetica risiede l’eccezionalità degli esseri umani rispetto agli altri primati? Abbiamo molti più geni delle scimmie? Perché i Neanderthal si estinsero? Potremo e, soprattutto, ha senso clonarci? Qual è l’origine, la storia e il bilancio del costoso progetto di ricerca sul genoma umano (HGP) ormai concluso fin dal 2003? Quali pericoli etici e morali o quali benefici ha apportato? Ed altro ancora …

Sam Kean ha la grandissima capacità di stupire e incuriosire parlando di scienza. Dopo il “Cucchiaino scomparso” (9788845927355, Adelphi) che trattava delle meraviglie della chimica e dalla storia della tavola periodica, ci racconta in modo divertente l’avventura della ricerca genetica  partendo dagli albori, alle prese con piselli, sperma di salmone e moscerini della frutta fino alle recenti scoperte, passando per il progetto HGP, tanto discusso quanto costoso, che ha consentito la prima mappatura del genoma umano (o meglio … la prima mappatura completa di UN PARTICOLARE essere umano!), raccontandoci, nel contempo altre cose divertenti e meravigliose, ad esempio, storie e avventure del nostro lento divenire esseri umani e del nostro sodalizio genetico con virus e batteri.

Lo sapete che stavamo per estinguerci e che, nel DNA c’è la prova di tutto ciò? … Leggere per credere!

venerdì 19 agosto 2016

Recensione: La Storia di Kullervo


“La Storia di Kullervo”, titolo originale: “The Story of Kullervo”, di J.R.R Tolkien, traduzione di Luca Manini e Stefania Marinoni, edizioni Bompiani, ISBN 978-88-452-8125-9.

Ispirandosi al “Kalevala”, un poema epico costruito sulla base di canti e racconti popolari finlandesi, Tolkien scrisse ancora giovane “La Storia di Kullervo”, un racconto di poche decine di pagine che vede come protagonista tragico un “eroe” che, diciamolo, non appare per nulla tale. Kullervo, infatti, è “… rozzo, lunatico, scontroso e vendicativo oltre che fisicamente poco attraente …”, come viene efficacemente descritto nella prefazione dell’opera.

La storia da un punto di vista della trama e della narrazione non è quindi né molto interessante né coinvolgente, ma costituisce comunque un documento importante e interessante per valutare la profondità e la lenta maturazione dell’Autore verso i temi che sfoceranno nel corpus incentrato sulla “Terra di Mezzo”.

In questo testo sono in effetti già delineati chiaramente alcuni elementi che mettono quest’opera in relazioni con alcune realizzazioni importanti e più mature dell’Autore, in particolare, il manoscritto sembra la fonte di ispirazione dalla quale trarrà origine la saga di “Túrin Turambar”, inserita all’interno del “Silmarillon” e poi ulteriormente rielaborata ne “I Figli di Hurin”.

Il testo e i commenti sono chiari e interessanti e alla portata di tutti i lettori (compreso il sottoscritto J), consiglierei però questo libro solo ai curiosi o a chi vuole approfondire l’esegesi dell’opera tolkieniana.  

martedì 16 agosto 2016

Recensione: La via del ritorno


“La via del ritorno”, titolo originale: “Der Weg zurück“, di Erich Maria Remarque, traduzione di Chiara Ujka, edizioni Neri Pozza, ISBN 978-88-545-0704-3.

Siamo nel 1918, dopo quattro anni di guerra di vita di trincea Ernst torna a casa insieme ai resti della sua compagnia, trentadue uomini rispetto ai cinquecento che si sono avvicendati nel corso del conflitto, gli altri, caduti o mutilati. Partito volontario appena qualche anno prima insieme all’intera sua classe di coscritti delle superiori sulle ali dell’entusiasmo e degli effetti della propaganda nazionalista, si rende presto conto, già durante il lento ritorno a casa, non solo dell’inutilità della guerra e del sacrificio suo e dei propri commilitoni, ma anche di essere stato profondamente cambiato ed anche irrimediabilmente “rovinato” dall’esperienza del conflitto.

La Germania è allo sfascio, sfibrata dallo sforzo bellico e dilaniata dalle tensioni politiche e sociali. Il sacrificio di tanti giovani combattenti e dei tanti mutilati viene presto dimenticato dalla popolazione civile e i reduci, ormai così abituati a sopravvivere alla giornata e ad accontentarsi di un’esistenza precaria, trovano impossibile pianificare le proprie vite, ragionare in termini di “futuro” e reinserirsi nelle attività di ogni giorno. Essi non riescono neppure a rinunciare alla violenza o alla rudezza dei modi che caratterizzavano la vita di trincea e trovano insopportabili le convenzioni e le ipocrisie della vita civile. Persino il dialogo famigliare risulta difficoltoso o impossibile e, solo il cameratismo fra ex combattenti sembra dare un minimo di conforto ad una generazione che si sente irrimediabilmente alienata, tradita e perduta.

Il seguito di “Niente di nuovo sul fronte occidentale” è veramente un capolavoro. Per me, anche se meno conosciuto, esso finisce per risultare decisamente superiore al primo, per altro, già bellissimo libro di Remarque. L’opera è incentrata sul problema del disagio dei reduci e della difficoltà del loro reinserimento. Descrive in maniera veramente mirabile l’effetto corrosivo della guerra sulla mente degli uomini i quali, abituati durante lo scontro a cambiare e, spesso, a sovvertire le più comuni regole di convivenza civile, non riescono più ad accettare le norme, gli scopi e le convenzioni dell’esistenza civile di ogni giorno. Essi riescono a tornare ad un’esistenza (apparentemente) normale solo a costo di grandissimi sforzi e, in particolare, solo nel momento in cui siano in grado di rimuovere, dimenticare o, quanto meno, accantonare l’esperienza bellica. Invecchiati precocemente, essi sono condannati ad essere degli alienati sia che il loro disagio rimanga celato, sia che esso divenga manifesto. Incapaci di descrivere la propria esperienza ai non combattenti, finiscono per sempre condannati a condividerla, riviverla e ricordarla solo fra ex-commilitoni, unici altri depositari delle comuni esperienze, degli orrori ed anche dei pochi valori umani emersi durante l’esperienza estrema della guerra.