sabato 30 giugno 2012

Recensione: Assalto all'infanzia

“Assalto all’infanzia”, titolo originale: “How Big Business Targets Children”, di Joel Bakan, traduzione di Stefano Valenti, edizioni Feltrinelli, ISBN 978-88-07-17228-1.

L’infanzia, periodo della vita del quale solo recentemente (poco più di un secolo) si è riconosciuta l’importanza e, tra l’altro, prevalentemente solo presso quelle società civili sufficientemente prospere (in pratica, le nazioni occidentali), subisce più pesantemente delle altre fasi della vita gli scombussolamenti prodotti dalle scelte e dai mutamenti originati dal nostro ambiente e dalla cultura globale e liberista. Il feto, poi il bambino e infine l’adolescente sono soggetti più dell’individuo completamente formato gli effetti dell’inquinamento ambientale, delle mode e dei vizi dei genitori o veicolati dal resto della società.
Secondo l’Autore, tale situazione è in continuo peggioramento anche a causa di un profondo mutamento che si è prodotto a partire dai primi anni ottanta del novecento durante i quali si è passati da un approccio che tutelava l’infanzia attraverso una serie di norme legali pubbliche che imponevano limiti stringenti alle attività delle corporations, a una progressiva deregulation che, in nome del liberismo, ha aperto al settore privato il business della gioventù sempre più vista come target allettante per svariati generi di prodotti e servizi. Contenuti multimediali, video games, social networks, junk food, medicina infantile orientata a “Scoprire” patologie mentali sostanzialmente inesistenti e a introdurre farmaci pericolosi o poco testati (si pensi agli effetti del talidomine), ricerche mediche e scientifiche prezzolate, costante sottostima degli effetti dell’inquinamento ambientale, pessimi servizi educativi, sfruttamento sessuale e (soprattutto ora) la chimera del taglio dei costi del settore pubblico, sono le armi che usa un settore aziendale privato sempre più orientato alla rapacità ed esclusivamente concentrato sul business. Con uno specifico taglio orientato verso i pericoli dell’infanzia, l’Autore riprende un tema a lui caro già affrontato nell’opera “The Corporation”, dove, di fatto, è stigmatizzata la “Naturale” predisposizione delle aziende a cercare il proprio tornaconto a onta di ogni seria considerazione sociale, etica e morale. Si tratta, di fatto, del rovesciamento del concetto della “Mano Invisibile” di Adam Smith. Tale punto di vista, che a volte appare un tantino esagerato, più spesso appare concreto e motivato nonché pervaso da un consistente fondo di verità.

giovedì 28 giugno 2012

Recensione: La Ragazza di fuoco

“La Ragazza di fuoco”, titolo originale: “Catching Fire”, di Suzanne Collins, traduzione di F. Paracchini e S. Brogli, edizioni Mondadori, ISBN 978-88-04-60352-8.

Seconda parte della saga degli Hunger Games. Katniss, la giovane protagonista vincitrice dell'ultima edizione dei giochi, per sopravvivere al truculento reality insieme al compagno Peeta, ha conquistato il favore dell’audience ma forzato la mano agli organizzatori, gettando involontariamente una sfida al sistema di potere. Tornata a casa, scoprirà di essere diventata un simbolo per la ribellione che cova e lentamente si accende nei distretti, mentre nel frattempo deve destreggiarsi fra le insidie del governo di Capitol City, sempre più intenzionato a trovare un modo per eliminare definitivamente la giovane “Ghiandaia” ribelle. Per il presidente Snow, la soluzione sembra trovarsi costringendo Katniss a partecipare a una nuova e speciale sessione degli Hunger Games, dalla quale non è previsto che questa volta lei possa uscirne viva. Nel frattempo esplode la rivolta!

La storia continua a essere abbastanza scorrevole e avvincente, ma il libro si presenta come elemento di passaggio verso il gran finale che si compirà solo nel terzo romanzo e il lettore percepisce questo fatto chiaramente. Nel frattempo la trama è diventata meno credibile (l’impero malvagio messo in ginocchio dalla giovane eroina!), un po’ scontata (di nuovo la “Fossa dei leoni”?!), mentre il triangolo amoroso della protagonista comincia ad apparire un po’ noioso, passionalmente fiacco (i protagonisti sembrano francamente assai imbranati, se i sedicenni sono così, non dovrò preoccuparmi troppo per i figli che crescono!) e troppo centrale e sopravvalutato rispetto alla gravità dei fatti che stanno maturando. In pratica, il tipico sequel, sopportabile ma non proprio un capolavoro.

martedì 19 giugno 2012

Recensione: Hunger Games

“Hunger Games”, titolo originale: “The Hunger Games”, di Suzanne Collins, traduzione di Fabio Paracchinia, edizioni Mondadori, ISBN 978-88-04-62161-4.
Da un’America sopravvissuta a una serie di calamità naturali, è scaturita una “Civiltà” diretta da una modernissima, scintillante e corrotta metropoli, Capitol City. Essa domina tirannicamente su dodici distretti, pretendendo in virtù di un antico atto di ribellione che la popolazione di ognuno dei territori conceda annualmente due giovani, un uomo e una donna, fra i dodici e i diciotto anni perché partecipino a un reality televisivo dove, come gladiatori, dovranno uccidersi a vicenda fino a che ne sopravvivrà solo uno dei contendenti. Questa sarà il destino che dovrà affrontare Katniss, giovane donna del dodicesimo distretto.
Una bellissima sorpresa! Ed anche una piacevole novità rispetto a un genere che ormai consideravo assai prevedibile e ripetitivo. Infatti, era da anni che non prendevo in mano un libro fantasy e ormai mi ero rassegnato all’idea di aver superato i limiti di età per questo genere di letture. Alla fine però ero curioso, volevo capire le ragioni di tanto successo, volevo sapere perché i ragazzi ne erano entusiasti e dubitavo di potermi a mia volta appassionare. L’ho cominciato e l’ho letto in un fiato!
Per tutti i “Vecchietti” come me … Si lo so, per noi che abbiamo visto: “ ... i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser …”, tutto è ormai è un po’ un “deja vu”; molti potrebbero obiettare che la trama di Hunger Games non è poi così eccezionale, se solo ci si ricorda del romanzo di Stephen King (allora Richard Bachman) o del film omonimo “The Running man”, eppure credetemi Hunger Games merita!

Recensione: Verità, bellezza, bontà – Educare alle virtù nel ventunesimo secolo

“Verità, bellezza, bontà – Educare alle virtù nel ventunesimo secolo”, titolo originale: “Truth, Beauty and Goodness Reframed”, di Howard Gardner, traduzione di Virginio B. Sala, edizioni Feltrinelli, ISBN 978-88-07-10474-9.
Verità, bellezza e bontà vengono solitamente accostate a gradi più o meno alti di “Civiltà”, ma la loro definizione non risulta né agevole né stabile nel corso della storia. Nella prima parte del libro, per ognuna delle virtù in oggetto, l’Autore prova a fare un’analisi della situazione attuale tenendo soprattutto presenti gli effetti che i media digitali e il processo di globalizzazione hanno sulla definizione di tali concetti e sulla loro percezione da parte di un’estrema eterogeneità di soggetti. Ne esce un quadro che, se da una parte prefigura una serie di tensioni e difficoltà da parte dell’utilizzatore delle informazioni sempre più disorientato dalla grande disponibilità di fonti, spesso però non correlate e non di rado mutualmente contrastanti, dall’altra vede anche gli aspetti positivi di questo fenomeno. Il ricercatore attento può, infatti, valersi rapidamente di una pluralità di accessi e di stimoli tali da consentire una rapida comparazione delle informazioni di origine diversa e da ciò può scaturire sia la possibilità di farsi delle opinioni molto affidabili sugli eventi ricercati, sia favorire la diffusione, il mescolamento e la conoscenza di nuovi gusti e tendenze. Secondo l’Autore, grazie alla personale consapevolezza che si ha dello stato attuale delle conoscenze scientifiche e storiche e delle basilari regole d’uso e della morale, risulta comunque possibile stabilire con un rilevante grado di certezza e un adeguato livello di consenso cosa effettivamente si debba intendere con i termini “Vero”, “Bello” e “Giusto” in un certo momento e luogo. È quindi fugato il dubbio suggerito da parte del pensiero post-modernista che tutto sia esclusivamente “relativo” e quindi soggettivo. E’ però nell’ambito della sfera personale del soggetto che va creata quella capacità critica che porta al riconoscimento delle virtù quando esse sono incontrate e valutate. Se da una parte la tale capacità deve essere in un certo qual modo dinamica e rimanere aperta alle novità, dall’altra, deve basarsi su una cultura morale, storica e scientifica consolidata. E’ per questo che, nella seconda parte del libro, partendo dall’esperienza neonatale per poi seguire i successivi stadi legati all’infanzia, all’adolescenza e ai vari gradi caratterizzanti ormai l’età matura, l’Autore si sofferma sulle modalità in cui sono percepite le virtù durante le varie fasi evolutive dell’individuo. Sempre a questo proposito, facendo riferimento sia ai nuovi studi delle neuroscienze che sembrano ammettere la capacità delle cellule nervose cerebrali di rigenerarsi e di riconfigurarsi in una nuova serie di connessioni neurali e, constando quanto sia cresciuta negli ultimi decenni l’aspettativa di vita di molti esseri umani, Il libro fornisce anche un quadro ottimistico riguardo alla capacità individuale di affinarsi continuamente nel campo della pratica e del riconoscimento delle tre virtù citate.

giovedì 14 giugno 2012

Recensione: Il Giovane Holden

“Il Giovane Holden”, titolo originale: “The Catcher in the Rye”, di J.D. Salinger, traduzione di Adriana Motti, edizioni La Biblioteca di Repubblica, ISBN 84-96075-08-7.
Pubblicato nel 1951, è considerato uno dei capolavori di J.D. Salinger. Il romanzo vede come protagonista il giovane Holden Caulfield, un adolescente sedicenne dal carattere sensibile, problematico, ma soprattutto dotato di un particolare senso critico che lo porta spesso a porsi in contrapposizione con l’ambiente che lo circonda. Il romanzo si svolge nell’arco di un fine settimana, durante il quale il protagonista, appena cacciato dal college (per l’ennesima volta) ritorna a casa a New York compiendo fisicamente e psicologicamente un percorso parabolico che lo vedrà prima perdersi nelle proprie contraddizioni per poi ritrovare un punto di partenza (anche grazie all’intervento e all’affetto della sorellina Phoebe) che, nelle ultime pagine del romanzo, s’intuisce fruttuoso.
Nonostante la chiara fama sia del libro sia dell’Autore non sono riuscito a trovare quest’opera molto interessante. Temo però che la delusione sia, almeno in parte dovuta al linguaggio del libro che mi è apparso datato (lo “slang” adolescenziale degli anni cinquanta adesso appare ridicolo!) forse anche a causa di una traduzione che potrebbe non essere più al passo con i tempi (ma ovviamente per giudicare bisognerebbe prima leggere il testo originale). Ad esempio, già il titolo originale “The Catcher in the Rye” appare effettivamente difficilmente traducibile (e questo viene spiegato nell’introduzione dell’edizione italiana) eppure l’immagine trasmette molto chiaramente alcuni aspetti della personalità di Holden che invece, nel corso della traduzione, a mio avviso, si perdono.

giovedì 7 giugno 2012

Recensione: Sua Santità – Le Carte Segrete di Benedetto XVI

“Sua Santità – Le Carte Segrete di Benedetto XVI", di Gianluigi Nuzzi, edizioni Chiarelettere, ISBN 978-88-6190-095-0.

La decisione di acquistare il libro è maturata dopo che, per più di una settimana, non sono riuscito a capire nulla di quanto era riportato sui quotidiani (in questo caso soprattutto La Stampa) rispetto alle vicende, fra loro intrecciate, del cosiddetto “Vatileak”, dei “corvi” in Vaticano, dell’arresto del maggiordomo del Papa e delle dimissioni del banchiere Gotti Tedeschi dalla sua carica presso lo IOR, la ben nota (e chiacchierata) banca vaticana. Sui giornali si è fatto un gran parlare di fughe di notizie e di documenti riservati nonché di lotte di fazione fra i sostenitori del Segretario di Stato vaticano Tarcisio Bertone e i suoi oppositori, oppure ancora di regolamenti di conti fra “Falchi” conservatori e “Colombe” intenzionate a portare a termine un’opera di risanamento morale all’interno della Chiesa e della Curia romana in particolare. Alla fine però non sono proprio riuscito ad ottenere un quadro convincente e neppure a capire esattamente quali fossero i documenti oggetto di tanto polverone e, tanto meno, di quale fosse il loro esatto contenuto. Pertanto, alla fine mi sono arreso rassegnandomi a comprare direttamente il libro.

In conclusione. ritengo di aver fatto la scelta giusta, infatti, penso che valga la pena di leggere l’inchiesta di Nuzzi. Devo comunque aggiungere che, in virtù degli argomenti trattati, il libro non può essere certamente definito né “Bello” né tanto meno “Divertente”; è invece più appropriato definirlo: credibile, illuminante, utile e interessante ma anche (spiace un po’ dirlo) un tantino morboso!
L’indagine svolta dall’Autore é, a mio parere, convincente e, soprattutto, tutti i documenti sono riportati integralmente in appendice al libro. A mio giudizio, Nuzzi spiega in maniera plausibile le ragioni e i modi attraverso i quali egli è venuto in possesso della documentazione e nel corso dell’opera i suoi commenti appaiono precisi e, per quanto possibile, neutrali rispetto ai vari argomenti trattati.
Per finire, forse è bene precisare che, in fin dei conti il materiale raccolto non produrrà grandi sconvolgimenti in quei lettori che siano sufficientemente informati o che abbiano già un atteggiamento critico riguardo parte delle istituzioni ecclesiastiche; dall’altra parte invece è possibile che possa infastidire quei credenti maggiormente fiduciosi nell’integrità della propria ecumene. Questi ultimi dunque, si ritengano doppiamente avvertiti!

venerdì 1 giugno 2012

Recensione: La Compagnia delle Indie – La Prima Multinazionale

“La Compagnia delle Indie – La Prima Multinazionale”, titolo originale: “Edge of Empire”, di Maya Jasanoff, traduzione di Irene Ibigail Piccinini, edizioni Il Saggiatore, ISBN 978-884281400-9.

E’ bene premettere che raramente mi è capitato di incontrare un titolo così fuorviante. Nel caso dell’edizione italiana esso proprio non ha nulla a che vedere con il contenuto del libro e sembra proprio appiccicato malamente dall’editore per destare interesse commerciale. Quello che però mi è apparso singolare è che nemmeno l’originale inglese è particolarmente evocativo. Il libro dovrebbe intitolarsi: “Albori del collezionismo d’arte e di reperti storici ed etnici nell’Inghilterra imperiale”, o qualcosa del genere, evidentemente però, messo in questo modo il libro perderebbe di attrattiva perché sembrerebbe dedicato a dei lettori di nicchia (ecco svelate le furberie dell’editore!) e questo sarebbe un peccato perché, superata la sorpresa e capito il taglio dato dall’Autore, per altro ben spiegato dall’introduzione, l’opera finisce per essere abbastanza godibile, utile e curiosa.
Ma di cosa si parla infine? L’Autore descrive la situazione storica a cavallo fra il settecento e l’ottocento incentrando la narrazione sull’antagonismo imperiale di Inghilterra e Francia per il dominio globale, ma soprattutto la loro lotta per il possesso e il controllo strategico del continente indiano e dell’Egitto, quest’ultimo importante proprio per il suo particolare ruolo geografico come crocevia verso l’Oriente. Per buona parte del periodo, la competizione militare ed economica fra i due paesi venne portata avanti per procura attraverso l’operato delle compagnie commerciali. Alla narrazione però viene dato un taglio particolare, perché le vicende storiche sono narrate attraverso la vita e l’esperienza dei principali attori: Robert Clive, il vincitore della battaglia di Plassey, archetipo del “Nababbo”, Benoit de Boigne, Claude Martin, Bernardino Drovetti (al quale dobbiamo il nucleo centrale del museo egizio di Torino!), Henry Salt e tanti altri che non solo furono i protagonisti, ormai per lo più sconosciuti di questa lotta, ma che si distinsero per il loro ruolo di personaggi sospesi fra due mondi e due culture e che, attraverso il collezionismo non solo cercarono un modo per arricchirsi, per ostentare il proprio successo e per raggiungere l’agognato status sociale al quale ambivano, ma che, magari involontariamente, fecero da ponte fra le varie culture dando lo spunto iniziale per lo studio, la valorizzazione e la conservazione di quei reperti che tuttora formano i nuclei centrali delle principali collezioni private e museali.