martedì 27 dicembre 2016

Recensione: Il Terzo Reich al Potere: 1933 – 1939

“Il Terzo Reich al Potere: 1933 – 1939”, di Richard J. Evans, titolo originale: “The Third Reich in Power: 1933 – 1939”, traduzione di Alessio Catania, edizioni Mondadori, ISBN 978-88-04-51042-0.

Un’opera notevole che ricostruisce con precisione gli anni in cui il nazismo prese è stabilizzò il potere sulla nazione tedesca.

L’Autore approfondisce il contesto storico, economico, sociale e ideologico che portarono il nazismo al potere e ne permisero il suo consolidamento e mette in evidenza gli strumenti attraverso i quali tutto ciò fu reso possibile.

Si tratta quindi di una lettura interessantissima e che andrebbe meditata perché i fattori citati e combinati nel corso del saggio non sono per nulla irripetibili e, con le dovute differenze, ma a seguito di contesti simili, permetterebbero anche oggi l’instaurarsi di regimi autoritari altrettanto pericolosi.

Per quanto riguarda il giudizio generale su questo libro ci si può dunque fermare qui.

Da questo punto in poi volevo invece aggiungere alcuni aspetti che hanno stuzzicato la mia curiosità rispetto a questo dettagliato lavoro di ricostruzione. Li elenco in maniera incompleta e in ordine sparso e avvertendo che questi elementi, di per sé, non sono per forza da ritenere prevalenti rispetto ad altri all'interno dell’opera:
- Mi ha colpito il rovesciamento di alcuni stereotipi che, ammetto, avevo in parte assimilato io stesso. In particolare, pensavo che l’avvento del nazismo avesse dato una propulsione alla diffusione della cultura scientifica. Scopro con stupore che, al contrario (ma in fondo logicamente) il sistema scolastico, quello universitario e la ricerca scientifica (a parte quella finalizzata agli scopi bellici) ebbero molto a soffrire sotto il regime. In linea più generale, il nazismo era abbastanza avverso agli intellettuali e a qualsiasi forma di modernismo, in questo caso, forse ben più del fascismo. Questo valeva in particolare per tutte le forme di arte e culturali ad eccezione forse per l’architettura monumentale.
- Pensavo che la burocrazia tedesca fosse più efficiente della media, proprio perché improntata e finalizzata ad un tipo di controllo totalitario. Anche su questo punto, pare che la verità fosse assolutamente diversa e, tra l’altro, pare fossero molto alti i livelli di inefficienza dovuti a pratiche di nepotismo e corruzione.
- Mi ha impressionato il contesto culturale attraverso il quale prosperò il cosiddetto darwinismo sociale, che sicuramente ebbe un ampio seguito almeno pan europeo (se non mondiale, essendo che non ne erano immuni né gli Stati Uniti né il Giappone) e produsse effetti oggi difficilmente comprensibili sulle politiche sanitarie e sulle pratiche eugenetiche portate avanti in diversi paesi (alcuni dei quali “insospettabili”).
- Continuo a rimanere allibito di fronte al fenomeno del “Culto della personalità”, ieri come oggi. Veramente in contesti evoluti come quello della Germania (o anche in Italia!) ci sono persone che credono e credettero al mito dell’infallibilità, all’uomo della Provvidenza. Nella Germania hitleriana, questo aspetto assunse persino il rango di norma di legge! Questo è un concetto che sfugge completamente alla mia mente di scettico.
- Per quanto ne conosca le radici storiche e l’origine culturale, faccio fatica a comprendere appieno come possa aver avuto presa un antisemitismo così radicale, soprattutto in un contesto come quello tedesco dove la minoranza ebraica era ben integrata (contrariamente a quanto avveniva in Polonia, per esempio). Più in generale, non riesco a raccapezzarmi sul come si potesse veramente basare un’ideologia sul mito della “Razza” (magari il concetto di “Civiltà” o “Cultura” lascerebbe più spazio in questo senso!), concetto di per sé dogmatico, para-religioso e assolutamente privo di consistenza scientifica, storica e, men che meno, biologica e archeologica.

In conclusione, c’è poco da fare! Confrontarsi con l’ideologia nazista e sui tanti compromessi che implicò la sua accettazione più o meno entusiasta, in altre parole, fare lo sforzo di identificarsi con il popolo tedesco dell’epoca, ci costringe a riflettere sugli abissi di ignoranza e sulla pusillanimità che alberga in ognuno di noi ma ci consente, forse, di non rifare eventualmente i medesimi errori.

Mai come per i regimi nazifascisti trovo valido il detto di George Santayana: “Coloro che non ricordano il passato sono condannati a ripeterlo”, ad esso è necessario avvinghiarsi come ad un valido ancoraggio in vista della tempesta. 

venerdì 23 dicembre 2016

Recensione: Le otto montagne

“Le Otto Montagnei”, di Paolo Cognetti, edizioni Einaudi, ISBN 978-88-06-22672-5.

È la storia di un’amicizia che lega due coetanei appartenenti a due ambienti diversi, ma è anche il racconto di un rapporto padre-figlio un po’ problematico, in fondo, ruvido e poco comunicativo come le montagne che fanno da sfondo alla vicenda. Uno dei protagonisti è un cittadino, figlio di un genitore un po’ chiuso e, forse anche per questo innamorato della fatica fisica e della tensione agonistica necessaria per godersi l’asprezza tipica dell’alpe d’alta quota; il secondo è un montanaro, un marghé (margaro) che divide il suo tempo fra le malghe e le scorrerie nei boschi e fra le baite in rovina, testimoni di un mondo sempre più in abbandono. Due mondi contigui ma molto differenti, soprattutto nell’Italia degli anni ottanta (anche se in realtà, la storia sembra riflettere un periodo ancora meno recente, quello degli anni sessanta, dove effettivamente le due Italie, quella rurale e quella delle grandi città sembravano veramente due universi differenti). Il loro legame si sviluppa da bambini durante le vacanze estive e va avanti fra alti e bassi fino all’età matura, diventando via via più saldo e profondo.

Bel romanzo veramente, scorrevole e avvincente, anche se il finale risulta un po’ prevedibile e a me, personalmente, sgradito (ma come finire, sennò, un libro così?); in più, a ben vedere qualcosa della storia non quadra. Innanzi tutto, l’ambientazione; io ho avuto l’impressione che sarebbe stata più realistica inquadrandola qualche anno prima (almeno un decennio), questo però, in fondo non mi sembra importante; anche i caratteri dei personaggi, però, mi sono sembrati un po’ troppo netti e, a mio avviso, un po’ stereotipati. … Questo però per andare a cercare il pelo nell’uovo! Perché, ripeto, questo è un romanzo che vale la pena leggere.


Bella invece la montagna, non solo perché si tratta anche delle le “mie” montagne o, quantomeno, di luoghi che conosco abbastanza bene (Torino e il Canavese sono a due passi dal massiccio del Rosa!),  ma soprattutto perché essa viene presentata per quel che è, non solamente come un mondo idilliaco di bei paesaggi e natura, ma anche come luogo povero e desolato, inospitale, deserto, pietroso, gelido, pericoloso e potenzialmente ostile. Un posto estremo al confine con il cielo da dove scappare o ove rifugiarsi, comunque lontano da tutto ciò c’è di buono e cattivo nel nostro modo di vivere da cittadini; un altro mondo appunto, non necessariamente un mondo migliore.

mercoledì 23 novembre 2016

Recensione: Tre camerati


“Tre camerati”, titolo originale: “Drei Kameraden“, di Erich Maria Remarque, traduzione di Chiara Ujka, edizioni Neri Pozza, ISBN 978-88-545-0705-0.

Ultimo romanzo della trilogia iniziata con “Niente di nuovo sul fronte occidentale” per proseguire con “La via del ritorno”. Il romanzo si svolge alla fine degli anni venti in una Germania flagellata dal dissesto economico, dalla disoccupazione e dal progressivo inasprimento dello scontro politico. Tre ex combattenti la cui amicizia si è cementata nelle trincee della Grande Guerra sbarcano il lunario cogestendo un’officina meccanica e guidando taxi per arrotondare i magri guadagni. Intorno a loro, una comunità di reduci e di emarginati che, in un senso o nell’altro, costituiscono quasi una famiglia. Nella vita randagia e priva di obiettivi di uno di essi entra una donna che offre al protagonista la dirompente discontinuità di una grande storia di amore. La nuova arrivata, ben lungi dal turbare il clima di amicizia, reciproco sostegno e comprensione che accomuna i tre protagonisti e la comune ad essi collegata, finirà per cementarne ulteriormente la coesione facendo risaltare ulteriormente il grande senso di appartenenza e lo spirito di corpo di questi ex commilitoni.

Nel romanzo permangono i temi principali già emersi ne “La Via del Ritorno”; la vita dei reduci rimane inesorabilmente condizionata dalle esperienze della guerra; abituati a sopravvivere alla giornata e ad accontentarsi di un’esistenza precaria essi trovano impossibile pianificare le proprie vite e ragionare in termini di “futuro”. Il reinserimento in una vita normale è anche precluso dalla forte instabilità politica ed economica che mina ogni possibilità di sottrarsi ad una esistenza “alla giornata”; pertanto, solo il legame fra camerati, unico elemento positivo emerso dall’esperienza totalizzante del conflitto che, per altro, ha distrutto ogni sensazione e ragione di normalità, si erge a collante e ancoraggio per personaggi che, da soli, sarebbero condannati ad un inesorabile naufragio.

Insieme invece, la compagnia di reduci combatte un altro genere di guerra contro le comuni avversità di una società che non sa offrire nulla né ad essi, né agli altri. I protagonisti, quasi con naturalezza, finiscono per compiere atti di generosità e solidarietà che sfiorano l’eroismo e che non possono che commuovere.

Personalmente ho trovato che, dei tre romanzi della trilogia “Tre camerati” sia forse quello che mi è piaciuto di meno. Con questo però, intendo dire che, dopo due autentici capolavori, è seguita una terza opera che è “solo” molto bella!

giovedì 10 novembre 2016

Trump è il nuovo Presidente USA: Un commento


Donald Trump è stato eletto Presidente degli Stati Uniti, evviva la Democrazia! Il risultato non era previsto dai guru dei sondaggi e dagli strateghi dell’immagine ma, chissà perché era stato paventato ed era ritenuto prevedibile da molti “signor nessuno” dotati semplicemente di buon senso! Beh inutile parlare di tutto ciò ex post, quello che fatto è fatto! Un aspetto che però, per me, risulta interessante è il verificare che ora tutti si affrettano a constatare che Hillary Clinton, effettivamente, aveva aspetti tali che avrebbero potuto pregiudicare la sua elezione (ma dai!); peccato che, fino all’altro ieri molte di queste caratteristiche sembravano esattamente le ragioni per le quali essa appariva particolarmente adatta al ruolo; specularmente, improvvisamente i difetti di Trump appaiono ora geniali o naturali doti da comunicatore vittorioso. Che buffo! Sembra di leggere certi giornali finanziari che rimasticano continuamente le stesse notizie per illudersi di spiegare sia i picchi sia le depressioni di ciò che è solo normale volatilità di borsa! Io ne traggo l’ennesima riprova che, tendenzialmente i soldi spesi per pagare strateghi e consulenti della comunicazione, sondaggisti e altri sedicenti esperti in materia siano sostanzialmente soldi buttati. Ma soprattutto, mi viene in mente che “Ci sono più cose in cielo e in terra Orazio di quante ne sogni la tua filosofia”, come ribadirebbe Shakespeare con il suo “Amleto” riconducendo tutti i soloni ad una maggiore modestia … Pertanto, forse è persino malinconicamente consolante osservare che anche tutti gli sforzi di comunicazione del mondo, in taluni casi, non bastano sempre a trascinare il proverbiale “popolo bue” (che sarà poi così ottuso?) per la cavezza ove vorrebbe portarlo l’establishment di turno; ogni tanto (e sempre più spesso) “Anche le formiche nel loro piccolo si incazzano” come recitava l’affascinante titolo di un libro uscito anni fa (che personalmente non ho letto).

Certo non sono contento, ma grazie a Dio, oggi non sono americano (in altri giorni avrei magari voluto esserlo!)! Se fossi stato tale, per queste elezioni sarei stato un fan di Sanders e poi un sostenitore freddo e deluso della Clinton, affiliato “forzato” di un personaggio che, comunque non mi avrebbe rappresentato. Ovviamente avrei perso ed oggi sarei incazzato e depresso. Un “déjà vu”, la stessa logica perversa che mi ha portato per anni ad incassare una sconfitta dietro l’altra sostenendo, contro natura e cultura, la patetica e immeritevole sinistra italiana contro Berlusconi (io che ero e che mi sento ancora repubblicano), famigerato e per molti aspetti affascinate personaggio nostrano che non, a caso, è tra le muse ispiratrici del neo Presidente eletto.

Dunque non fasciamoci ancora la testa perché non ce la siamo ancora rotta e cominciamo a riconoscere, per altro, come Trump non meriti solo ipocrite congratulazioni, ad esso, infatti, andrebbe anche tributato quel rispetto che emerge, anche a denti stretti, nei confronti di chi vince “Tirando dritto” (Ahi che infausta, ma calzante citazione!). a modo suo e contro tutti i pronostici…

Infine, per noi italiani, l’elezione di Trump costituisce, dal punto di vista dell’immagine, una buona notizia. Da oggi possiamo legittimamente aspirare a non essere più il benchmark di riferimento per rimarcare a livello mondiale il punto più basso della supposta irresponsabilità elettorale di un popolo (insieme agli inglesi, ovviamente, che fino a ieri ci contendevano validamente il trofeo!), mentre tutto ciò sarebbe stato clamorosamente ribadito in caso di vittoria della Clinton. Ma soprattutto, per chi non l’avesse ancora notato, siamo anche la testimonianza vivente che si può sopravvivere a tutto e quindi, anche i più depressi fra gli elettori demarcatrici, hanno già la possibilità di ripartire con un certo ottimismo perché si sa, dopo un Berlusconi può giungere infine la salvezza attraverso un bel governo Monti, Letta o Renzi che loro si, risolvono veramente i problemi! (beh, ironia a parte ammettiamolo … Renzi un po’ ci prova!).

E allora sediamoci comodi e aspettiamo che il “Sole sorga” come direbbe Obama, su questo infatti ci si può ancora ragionevolmente contare e please no panic! Perché in fondo chissà cosa ci riserva il futuro, ricordiamoci infatti che personaggi come Ronald Reagan alla fine hanno lasciato pesino un buon ricordo!

lunedì 24 ottobre 2016

Recensione: La Legge del Sangue - pensare e agire da nazisti


“La Legge del Sangue – pensare e agire da nazisti”, titolo originale: “la loi du sang. Penser et agir en nazi”, Johann Chapoutot, traduzione di Valeris Zini, edizioni Einaudi, ISBN 978-88-06-22712-8.

Un saggio bellissimo che ci guida alle radici della cultura nazista spiegandone i dogmi, le origini fattuali, i riferimenti culturali e perfino (il che mi è apparso stranamente curioso!), la sua insospettabile coerenza interna.

Si perché, una volta accettati i dogmi fondanti (per me molto fantasiosi) della preminenza di una razza nordica originaria e naturalmente “superiore” sul piano genetico e etico, della purezza del sangue e di una forma radicale di darwinismo naturale e sociale, si finisce per considerare come coerente un mondo all’incontrario che riscrive la storia attraverso una chiave di lettura che racconta di una guerra totale apocalittica e plurimillenaria fra culture e razze diverse, finalizzata al dominio del proprio spazio vitale e alla conservazione della purezza dei caratteri raziali originali. In questo contesto, tutto è ricompreso nei concetti di popolo, razza, sangue e suolo; l’individualismo come l’universalismo sono illusioni, errori o vizi del pensiero, mentre è importante solo ciò che preserva e rafforza la comunità raziale del “Popolo” (Volk). Da qui consegue l’odio per gli allogeni, la condanna dell’aborto, il ricorso all’eugenetica, la pianificazione dell’aggressione territoriale e la pratica del genocidio. Per la morale nazista tutto ciò è frutto di “Scelte”, ma soprattutto trattasi di azioni necessarie, coerenti e virtuose finalizzate alla prevalenza in una lotta per la sopravvivenza disperata e totale che non ammette né cedimenti né dilemmi etici e morali.

Un vero tour nelle catacombe dell’animo umano.

   

venerdì 2 settembre 2016

Fertility Day, pensioni, previdenza, migranti ... e tante altre cose che vorreste capire meglio!


In Italia infuria la polemica sul “Fertility day”, mentre in Danimarca è stata condotta una campagna (di successo, pare!) finalizzata alla procreazione. In realtà, un po’ in ogni parte nel “vecchio occidente si predica e si incita per un aumento del tasso di natalità, non c’è dubbio servono più bambini …, sotto sotto “bianchi” preferibilmente, ma questo, per pudore non viene detto J!
Ma non siamo già circa sette miliardi? Non dovremmo semmai pianificare e, magari, tendere a divenire un po’ meno?
Non scherziamo, questi sarebbero discorsi da babbei che veramente credono che ciò che conti non sia solo spiegabile dagli indicatori di crescita economica. In particolare, tutto questo da fare è, ovviamente, e soprattutto orientato a scongiurare il gap demografico che vede la presenza percentuale degli anziani ampliarsi sempre più a scapito delle nuove generazioni … un bel problema! E perché? (pongo la domanda perché ho già 50 anni … non vorrei, in effetti, cominciare a costituire un “problema” per la società in cui vivo).
A parer mio, in questa vicenda siamo presi tutti quanti in giro, giovani, meno giovani e anziani. Cercherò ora di portare qualche elemento per spiegare il perché.
I temi sul tavolo sono fondamentalmente due, dei quali uno sbandierato e l’altro sottaciuto.
Il tema sempre citato fa leva, come è noto, sull’equilibrio del welfare e, in particolare del sistema pensionistico (non parlerò invece, e forse si dovrebbe, di quello sanitario!); i vecchietti campano troppo (mannaggia a loro!) e i giovani sono troppo pochi (ma comunque troppi per avere tutti un lavoro!); così, diamine! Lo capirebbe chiunque,  il sistema non regge finanziariamente.
Eh????
Apparentemente il ragionamento non fa una grinza. In realtà “grinze” e “pecche” ce ne sono eccome in questo modo di pensare che nasconde la mancanza di volontà e l’incapacità dei governi andati e presenti di gestire un gravissimo errore strutturale di natura finanziaria che nasce dal passato, quando i sistemi pensionistici, anche e soprattutto per ragioni politiche, o meglio, elettorali, non erano basati su sistemi contributivi, ma distribuivano denaro in funzione, non tanto dei versamenti dei contribuenti, ma degli ultimi (e più alti) stipendi in vigore al termine dell’attività lavorativa. A questo poi si aggiungevano e si aggiungono altri oneri addossati al sistema pensionistico: in passato, vantaggi riservati soprattutto ai dipendenti pubblici ai quali si permetteva di pensionarsi ancora in età giovanissima, godendo di fatto, di rendite magari non elevate ma comunque semi-eterne; c’erano poi pensioni sociali distribuite con “largesse”, sussidi di disoccupazione, casse integrazioni ed altre prebende tutte distribuite a piene mani attingendo alle casse che si dovevano occupare di “previdenza” e non di “assistenza” e fu così che “prendi – prendi”, alla fine si è creata una montagna di debiti da pagare!
Intendiamoci subito! È giustissimo che uno Stato civile si occupi sia di garantire le rendite pensionistiche dei lavoratori, sia di gestire tutte le altre forme di rendita (pensioni sociali, assegni di integrazione dei redditi, assegni di invalidità, ecc.) e gli ammortizzatori sociali (sussidi di disoccupazione, cassa integrazione, ecc.), ma è strutturalmente sbagliato mescolare il frutto dei contributi dei lavoratori (di fatto comparabile a dei programmi personali di rendita e risparmio finanziario) agli altri interventi di assistenza che, ovviamente, non vanno fatti attingendo alle casse previdenziali ma che vanno gestiti sotto responsabilità dei governi in carico quando e se ci sono i denari per sostenerli, indebitandosi magari, perché no! Se questo è necessario, ma sempre distinguendo chiaramente le scelte e le finalità e, soprattutto, le responsabilità.
Ma perché fin da subito non si sono fatte le cose per bene?
È noto che, soprattutto in passato, nessuno aveva voglia di affrontare razionalmente e strutturalmente questi temi, e poi diciamolo, per la classe politica era, ed è, bello poter distribuire denaro a tutti gli elettori senza farsi problemi per un “doman” per il quale, notoriamente “non v’é certezza” (teniamo conto, tra l’altro che si era in piena competizione con quei cattivoni barbari che stavano in agguato dietro il “Muro” pronti a stigmatizzare alla luce del “sol dell’avvenire” ogni segno di debolezza dell’odioso e plutocratico sistema capitalista!).
Per farla breve, la popolazione era in crescita, c’era il baby boom e le economie occidentali erano in pieno sviluppo, per quanto si spendesse c’era comunque un esercito di nuovi lavoratori che ripianavano il buco e, se, e sottolineo “se” le cose fossero andate avanti così, non ci sarebbero stati problemi …
Ahi! Sembra che un po’ tutti noi abbiamo delle difficoltà a comprendere i meccanismi legati alla “capitalizzazione composta” e, un po’ per propaganda, un po’ per innato ottimismo un po’ perché in fondo ragioniamo tutti sulla base del “après moi le déluge” , proprio non riusciamo ad accettare che, capitalizzando e capitalizzando, i mucchietti divengono presto montagne impossibili da scalare! E poi, ormai si è capito, le economie in sviluppo hanno forti accelerazioni (tutti noi rimpiangiamo i “favolosi trent’anni”) per poi tornare (quando va bene) a sonnecchiare. Le tigri rifiatano dopo la gran corsa, i leoni si sdraiano all’ombra per riposare e digerire … così fanno pure le economie!
Dunque arriviamo al punto. Ne in passato e neanche adesso, le nostre pensioni (o meglio, l’effettiva possibilità di percepire una qualsivoglia pensione) dipendevano e dipendono effettivamente dai soldi che abbiamo versato nel corso della vita lavorativa, questo, semplicemente, perché tali denari e/o i loro frutti, in gran parte non ci sono più! Certo, non dovrebbe essere così, ma così è perché, semplicemente, i soldi che abbiamo accantonato attraverso i versamenti, quelli che dovrebbero essere da qualche parte in cassaforte, oppure investiti in meravigliosi veicoli d’investimento (e qui ci sarebbe di nuovo da ridere e da ridire!) sono già stati spesi per pagare le attuali rendite pensionistiche, quelle degli “altri”, dei già pensionati, per essere più chiari, ancora prima che noi li versassimo.
Ciò che è cambiato è solo il metodo in base al quale si può fare la “previsione” di quanto ci verrà di pensione che, ora, contrariamente dal passato, dipende effettivamente dai contributi versati e da altri calcoletti. Ripeto, però, i soldi nostri non ci sono! Sono già stati spesi, ed è per questo che, ogni due per tre, salta fuori qualcuno a dire che, andando avanti così, il sistema non reggerà, che bisogna allungare l’età pensionabile e/o … e qui finalmente veniamo al dunque! Che ci servono più migranti e più bambini! Leggessi, più “contribuenti”.
Ecco il punto, ci servono migranti e/o bambini (che divengano poi lavoratori), che poi effettivamente trovino impiego (cosa ancora da vedersi, oggigiorno!) e versino contributi alle casse previdenziali sempre più esangui! Perché, in fondo, qui sta il punto, il sistema si regge ancora sulla fondamento marce di chi l’ha costruito.
Veniamo però adesso al tema sottaciuto.
Abbiamo visto che ci servono migranti e/o bambini per risolvere i nostri problemi di strutturale insolvenza. Diciamolo subito, i migranti, di norma giungono da noi già in età lavorativa, ci piaccia o no, cominciano spesso fin da subito a contribuire alla soluzione di questo problema perché, nonostante le dicerie ed anche qualche fatto, i più vengono da noi per lavorare (e se lo fanno in nero non è colpa loro ma dei datori di lavoro!). Da qui nasce una certa ambiguità della classe politica verso questa genia che, da una parte si vuole perché utile e dall’altra si teme perché invisa agli elettori.
I migranti, infatti, risolvono dei problemi ma ne creano altri … non sono tutti bellissimi (come noi per altro), spesso sono troppo abbronzati e non sono sempre dei Lords portandosi dietro quelle che per noi sono un sacco di cattive abitudini da correggere (diamine! Manco sanno stare sulla spiaggia in costume da bagno, per esempio!), i bambini, invece … beh effettivamente non lavorano da subito, ma almeno possiamo crescerceli come “noi altri” che in fondo ci piace di più! “Moglie e buoi dei paesi tuoi!” dicevano saggiamente i nostri nonni! Se poi ci sono altri problemi come la mancanza di nidi e strutture, uno scarso supporto per le famiglie e qualche difficoltà declinata al femminile per conciliare lavoro e prole, poco male … ci penseremo.
 Andate e moltiplicatevi!  

lunedì 22 agosto 2016

Recensione: "Il Pollice del Violinista"


“Il Pollice del Violinista”, titolo originale: “The Violinist’s Thumb – And Other Lost Tales of Love, War, and Genius as Written by Our Genetic Code”, di Sam Kean, Giovanni Muro, edizioni Adelphi, ISBN 978-88-459-3060-7.

Paganini fu un grande violinista, ma alcuni ipotizzano che le sue eccezionali capacità dipendessero anche dal fatto che fosse dotato di dita estremamente lunghe e flessibili, caratteristica che porta il nome di aracnodattilia. Egli, per esempio era in grado di torcersi il pollice tanto da arrivare a toccarsi il polso del medesimo braccio. Godette però di salute cagionevole; soffriva forse di sindrome marfanoide? Il cervello di Einstein ha qualche aspetto eccezionale che ne possa giustificare il genio? Tra l’altro, avete idea di che fine abbia fatto tanta materia grigia? In che formula genetica risiede l’eccezionalità degli esseri umani rispetto agli altri primati? Abbiamo molti più geni delle scimmie? Perché i Neanderthal si estinsero? Potremo e, soprattutto, ha senso clonarci? Qual è l’origine, la storia e il bilancio del costoso progetto di ricerca sul genoma umano (HGP) ormai concluso fin dal 2003? Quali pericoli etici e morali o quali benefici ha apportato? Ed altro ancora …

Sam Kean ha la grandissima capacità di stupire e incuriosire parlando di scienza. Dopo il “Cucchiaino scomparso” (9788845927355, Adelphi) che trattava delle meraviglie della chimica e dalla storia della tavola periodica, ci racconta in modo divertente l’avventura della ricerca genetica  partendo dagli albori, alle prese con piselli, sperma di salmone e moscerini della frutta fino alle recenti scoperte, passando per il progetto HGP, tanto discusso quanto costoso, che ha consentito la prima mappatura del genoma umano (o meglio … la prima mappatura completa di UN PARTICOLARE essere umano!), raccontandoci, nel contempo altre cose divertenti e meravigliose, ad esempio, storie e avventure del nostro lento divenire esseri umani e del nostro sodalizio genetico con virus e batteri.

Lo sapete che stavamo per estinguerci e che, nel DNA c’è la prova di tutto ciò? … Leggere per credere!

venerdì 19 agosto 2016

Recensione: La Storia di Kullervo


“La Storia di Kullervo”, titolo originale: “The Story of Kullervo”, di J.R.R Tolkien, traduzione di Luca Manini e Stefania Marinoni, edizioni Bompiani, ISBN 978-88-452-8125-9.

Ispirandosi al “Kalevala”, un poema epico costruito sulla base di canti e racconti popolari finlandesi, Tolkien scrisse ancora giovane “La Storia di Kullervo”, un racconto di poche decine di pagine che vede come protagonista tragico un “eroe” che, diciamolo, non appare per nulla tale. Kullervo, infatti, è “… rozzo, lunatico, scontroso e vendicativo oltre che fisicamente poco attraente …”, come viene efficacemente descritto nella prefazione dell’opera.

La storia da un punto di vista della trama e della narrazione non è quindi né molto interessante né coinvolgente, ma costituisce comunque un documento importante e interessante per valutare la profondità e la lenta maturazione dell’Autore verso i temi che sfoceranno nel corpus incentrato sulla “Terra di Mezzo”.

In questo testo sono in effetti già delineati chiaramente alcuni elementi che mettono quest’opera in relazioni con alcune realizzazioni importanti e più mature dell’Autore, in particolare, il manoscritto sembra la fonte di ispirazione dalla quale trarrà origine la saga di “Túrin Turambar”, inserita all’interno del “Silmarillon” e poi ulteriormente rielaborata ne “I Figli di Hurin”.

Il testo e i commenti sono chiari e interessanti e alla portata di tutti i lettori (compreso il sottoscritto J), consiglierei però questo libro solo ai curiosi o a chi vuole approfondire l’esegesi dell’opera tolkieniana.  

martedì 16 agosto 2016

Recensione: La via del ritorno


“La via del ritorno”, titolo originale: “Der Weg zurück“, di Erich Maria Remarque, traduzione di Chiara Ujka, edizioni Neri Pozza, ISBN 978-88-545-0704-3.

Siamo nel 1918, dopo quattro anni di guerra di vita di trincea Ernst torna a casa insieme ai resti della sua compagnia, trentadue uomini rispetto ai cinquecento che si sono avvicendati nel corso del conflitto, gli altri, caduti o mutilati. Partito volontario appena qualche anno prima insieme all’intera sua classe di coscritti delle superiori sulle ali dell’entusiasmo e degli effetti della propaganda nazionalista, si rende presto conto, già durante il lento ritorno a casa, non solo dell’inutilità della guerra e del sacrificio suo e dei propri commilitoni, ma anche di essere stato profondamente cambiato ed anche irrimediabilmente “rovinato” dall’esperienza del conflitto.

La Germania è allo sfascio, sfibrata dallo sforzo bellico e dilaniata dalle tensioni politiche e sociali. Il sacrificio di tanti giovani combattenti e dei tanti mutilati viene presto dimenticato dalla popolazione civile e i reduci, ormai così abituati a sopravvivere alla giornata e ad accontentarsi di un’esistenza precaria, trovano impossibile pianificare le proprie vite, ragionare in termini di “futuro” e reinserirsi nelle attività di ogni giorno. Essi non riescono neppure a rinunciare alla violenza o alla rudezza dei modi che caratterizzavano la vita di trincea e trovano insopportabili le convenzioni e le ipocrisie della vita civile. Persino il dialogo famigliare risulta difficoltoso o impossibile e, solo il cameratismo fra ex combattenti sembra dare un minimo di conforto ad una generazione che si sente irrimediabilmente alienata, tradita e perduta.

Il seguito di “Niente di nuovo sul fronte occidentale” è veramente un capolavoro. Per me, anche se meno conosciuto, esso finisce per risultare decisamente superiore al primo, per altro, già bellissimo libro di Remarque. L’opera è incentrata sul problema del disagio dei reduci e della difficoltà del loro reinserimento. Descrive in maniera veramente mirabile l’effetto corrosivo della guerra sulla mente degli uomini i quali, abituati durante lo scontro a cambiare e, spesso, a sovvertire le più comuni regole di convivenza civile, non riescono più ad accettare le norme, gli scopi e le convenzioni dell’esistenza civile di ogni giorno. Essi riescono a tornare ad un’esistenza (apparentemente) normale solo a costo di grandissimi sforzi e, in particolare, solo nel momento in cui siano in grado di rimuovere, dimenticare o, quanto meno, accantonare l’esperienza bellica. Invecchiati precocemente, essi sono condannati ad essere degli alienati sia che il loro disagio rimanga celato, sia che esso divenga manifesto. Incapaci di descrivere la propria esperienza ai non combattenti, finiscono per sempre condannati a condividerla, riviverla e ricordarla solo fra ex-commilitoni, unici altri depositari delle comuni esperienze, degli orrori ed anche dei pochi valori umani emersi durante l’esperienza estrema della guerra.

giovedì 28 luglio 2016

Recensione: Mio fratello rincorre i dinosauri - Storia mia e di Giovanni che ha un cromosoma in più

"Mio fratello rincorre i dinosauri - Storia mia e di Giovanni che ha un cromosoma in più", di Giacomo Mazzariol, edizioni Einaudi, ISBN 978-88-06-22952-8.

Consiglierei, innanzitutto, di dare un'occhiata al video di YouTube, che è un po' il sia il prologo, sia l'epilogo di questa bella storia che vede come protagonisti due fratelli, dei quali, uno affetto dalla sindrome di Down.
Il video si intitola "The simple interview":

https://m.youtube.com/watch?v=0v8twxPsszY

Da essa nasce questo libro, a mio avviso, bello, semplice, diretto e, aggiungerei, inaspettatamente ottimistico.




giovedì 7 luglio 2016

Recensione: La Grande Guerra nel Medio Oriente – La caduta degli Ottomani 1914 – 1920


"La Grande Guerra nel Medio Oriente – La caduta degli Ottomani 1914 – 1920”, titolo originale: “The Falls of the Ottomans: The Great War in the Middle East, 1914 – 1920”, di Eugene Rogan, traduzione di Giuseppe Bernardi, edizioni Bompiani, ISBN 978-88-452-8157-0.
Una bella ricostruzione dei fatti che, a partire dall’anteguerra, dal conflitto italo- turco del 1912 e dalle due guerre balcaniche si snoda attraverso le diverse campagne condotte, con alterne vicende, dall’esercito ottomano durante la Prima Guerra Mondiale.
Nel contempo, l'Autore inserisce all'interno della descrizione degli eventi bellici la spiegazione delle principali e convulse vicende politiche e sociali che caratterizzarono tale periodo, ivi compresa la questione armena e il suo tragico epilogo, e che portarono alla crisi l’impero e il sultanato ottomano per poi costituire, nel dopo guerra quegli elementi che furono alla base della nascita della Turchia moderna, creando i presupposti per l’istituzione del regime repubblicano sotto la ferrea guida di Mustafa Kemal, eroe di Gallipoli e della rinascita turca.
Nel corso dell’opera si ritrova non solo la ricostruzione dei principali eventi bellici, dove spesso l’esercito ottomano si comportò con onore mettendo in scacco o almeno in seria difficoltà le potenze occidentali, ma anche la chiave di lettura di situazioni che fanno sentire i loro effetti anche ai giorni nostri e che riguardano, ad esempio, l’assetto caucasico e la questione armena; le innaturali linee di frontiera tracciate fra i paesi arabi a seguito della frammentazione dell’impero e frutto più di accordi più o meno sotterranei, dell’avidità e insensatezza delle nazioni vincitrici rispetto a quanto possano essere considerate rispettose di una qualsiasi logica geopolitica; la questione ebraica e, infine, gli effetti e i rischi dell’utilizzo (da entrambe le parti) della miscela esplosiva della Jihad come arma di guerra e come elemento disintegratore del fronte interno dell’avversario
Da leggere!  

giovedì 30 giugno 2016

Brexit: qualche riflessione sul caso scozzese


In aggiunta alla gravità del fatto in sé, il Brexit sta ponendo fortemente il problema della Scozia che, in maniera compatta ha scelto il “Remain” per tutti i collegi elettorali (in questo distinguendosi anche dal caso nord-irlandese!). Questo fatto rischia di rendere ancora più complicata una vicenda che ha già ampie possibilità di agire in senso destabilizzante.

In particolare, adesso si rischia un pericoloso cortocircuito: la Scozia, allo stato attuale, per rimanere nella UE dovrebbe rendersi indipendente, oppure, per salvaguardare la sua posizione, si dovrebbe trovare una soluzione per mantenere all’interno della Comunità l’intero Regno Unito, contravvenendo però la volontà popolare e l’esito democratico delle elezioni.

A mio avviso, la seconda soluzione non dovrebbe essere percorsa per nessun motivo, soprattutto perché non conviene neanche a noi “Unionisti”. A questo punto, violare il responso popolare, anche trovando appigli legali per farlo, creerebbe ulteriore risentimento e esporrebbe la costruzione europea agli attacchi di tutte le forze politiche nazionaliste. Politicamente quindi, non è solo giusto rispettare la decisione del popolo britannico ma, piuttosto, è utile preoccuparsi dei possibili contraccolpi che ne potrebbero derivare qualora si cercasse di agire in senso contrario che,  “de facto” se non “de jure”, creerebbe pericolosi precedenti per la democrazia stessa. C’è poi da aggiungere che l’autopunizione che dovrà subire il popolo britannico potrebbe essere salutare per tutti (noi) e, un po' opportunisticamente, potrebbe essere un buon stimolo per rivitalizzare il processo politico pro-unitario.

Neanche la prima soluzione, però, è auspicabile e, soprattutto, non può essere attivamente promossa o supportata dalla UE che, non può rischiare di essere accusata di fomentare la disgregazione dei propri vicini.

Per salvare “capra e cavoli, dunque, secondo il mio parere, il Regno Unito deve essere allontanato dalla Comunità, ma dall’altra è necessario fare tutti gli sforzi per rimanere inclusivi nei confronti di chi ha dimostrato in maniera così compatta e manifesta la sua lealtà nei confronti dell’Unione. Dunque, per la Scozia ci si dovrebbe cercare di inventare qualcosa di nuovo che non implichi, almeno formalmente la secessione e che ne permetta la permanenza in seno alla UE. Penso che la soluzione non possa che passare attraverso un accordo con Londra che, anch’essa dovrebbe essere interessata a salvare le apparenze di un Regno Britannico “Unito” che, oramai è a forte rischio di disintegrazione. Tale scappatoia dovrebbe basarsi su un processo che preveda l’attenuazione dei legami politici fra Scozia e Inghilterra grazie ad un processo di “devolution” che allarghi i poteri del parlamento di Edimburgo e che, eventualmente, preveda maggior impermeabilità territoriale fra i due territori britannici.

In sintesi, in qualche modo, seppur metaforicamente, sarà un po’ necessario ricostruire il Vallo di Adriano, in questo caso, però i legionari dovranno essere schierarsi dall’altro lato del limes.

domenica 26 giugno 2016

Recensione: Esodo – storia del nuovo millennio


“Esodo – storia del nuovo millennio”, di Domenico Quirico, edizioni Neri Pozza, ISBN 978-88-545-1163-7.
Quirico sceglie di descrivere il fenomeno migratorio attraverso una serie di brevi istantanee scattate in alcuni fra i punti di snodo che meglio lo rappresentano: i porti di partenza dei migranti sulle coste turche e tunisine, i colli di bottiglia davanti ai “muri” di Melilla e delle frontiere balcaniche, i campi d’accoglienza italiani o francesi, i luoghi di partenza, dispersi nel mezzo del Sahel, fin oltre la fascia equatoriale dell’Africa, nel mezzo del Medio Oriente dilaniato dalle guerre civili e prostrato dalla povertà.
Attraverso la descrizione, le interviste, le esperienze dei migranti, delle loro famiglie e delle comunità che li hanno finanziati e che, spesso, ne hanno appresa la morte e/o il fallimento, il fenomeno viene efficacemente umanizzato; ricondotto ad esperienze, emozioni, ragioni e spiegazioni che riguardano singoli individui, ognuno con la propria storia, e non a una folla inquieta o, peggio ancora, ad un’orda pericolosa.
Quirico è commuovente, come lo sono i casi e le persone che egli descrive, ma la componente emozionale, però,  è anche il punto debole dell’opera, perché la colloca entro i due estremi entro i quali è sempre affrontato il problema. Da una parte c’è chi paventa la fiumana, che guarda ai numeri, che vede solo la “foresta”, semina odio e paura e vorrebbe interventi drastici per arginare il flusso migratorio; dall’altra ci sono i buonisti, quelli, che, enfatizzando l’aspetto umano, che tracciano paralleli con la nostra storia, invitano candidamente all’accoglienza e all’altruismo (o almeno, a ridurre l’egoismo) vedendo in ogni uomo un singolo “albero”. Essi, in fondo come gli altri, non forniscono argomentazioni convincenti per affrontare un fenomeno che semplicemente non può essere solamente arginato, ma gestito e incanalato attraverso strategie di breve e di lungo periodo, con interventi presso i luoghi di arrivo, ma anche di partenza, con umanità, ma anche attraverso politiche interne e relazioni esterne che necessitano di chiarezza, senso di giustizia, ma anche di determinazione.
Forse dopo Brexit, l'Europa potrebbe proprio ripartire da qui, attraverso la formulazione di una visione veramente unitaria per affrontare uniti questo fenomeno.

venerdì 24 giugno 2016

BREXIT !!!!


La scelta degli inglesi per il Brexit è certamente una cattiva notizia. Sicuramente lo è per i britannici in toto che, a parer mio, scelgono di ancorarsi al passato anziché provare a collaborare insieme agli europei “continentali” per migliorare il futuro di tutti ma che, soprattutto, rischia di dilaniare il Regno Unito riportandolo territorialmente ad una situazione medioevale, posto che, il voto ha esacerbando le opposte posizioni di scozzesi e nord irlandesi rispetto a quelle del resto degli inglesi.

Certamente non è una buona notizia nemmeno per l’economia e per i mercati finanziari che, già traballanti e alla ricerca disperata se non di un rilancio, ma almeno di un po’ di stabilità, sicuramente non troveranno giovamento da questa ennesima turbolenza foriera di troppe incognite e variabili.

Paradossalmente, invece, potrebbe non essere una notizia totalmente cattiva per il resto d’Europa, perché, diciamolo senza troppa diplomazia, spesso gli inglesi in tema di europeismo hanno remato più contro che pro!
In ogni caso ... tutti noi però sappiamo che l’Europa sia ben lungi dall’essere perfetta e siamo consci che la costruzione politica e sociale dell’Unione è stata fin ora troppo sacrificata sull’altare delle sole esigenze economiche e finanziarie. Nessun cittadino europeo vede troppo di buon occhio il fatto di relegare l’Unione al semplice ruolo di fabbricatore di leggi farraginose o come ente esclusivamente preposto alla salvaguardia e alla libera circolazione degli interessi finanziari delle élite e pertanto, questo scossone, potrebbe essere l’occasione per riaprire veramente il dibattito politico e attuare una stagione di riforme che riconsegni veramente l’Europa politica e sociale agli europei.

 ... Perché l’Europa è bellissima, anche solo come idea! E' bello respirarla, sentirla sulla pelle, prendere l’aereo e il treno senza chiedersi e senza quasi sapere se stai passando una linea di confine oppure no, per arrivare in altri luoghi dove, comunque, puoi andare in giro tranquillo sentendoti un po’ a casa, circolare sereno sentendoti un cittadino tutelato dalle leggi, circondato da istituzioni alle quali, in fondo, ti puoi rivolgere ed affidare con fiducia mentre, alla pari con gli altri, poi godere del piacere e dei vantaggi della nostra libertà, cultura e civiltà che solo qui, e lo dico senza vergogna, esistono veramente e hanno la possibilità di resistere e prosperare!

martedì 21 giugno 2016

Torino 2016 - la caduta


Torino, 20 giugno 2016. E così la cittadella infine è caduta di fronte all’assalto del “turco”. Eppure il cielo oggi è azzurro e tutto è tranquillo. Dov'è l'imperatore nelle sue vesti cremisi?
Pochi se lo aspettavano, i più, ovviamente attendevano il solito tenace assedio, ma alla fine pure, la solita vittoria degli assediati, magari sul filo di lana, forse aprendo l’ultimo barile di polvere, ma con la conferma che, ad onta dei critici, le mura erano salde, i comandanti capaci ed esperti, le truppe motivate. E invece no! Come fu per Costantinopoli, i tempi cambiano e se nulla viene fatto, infine le vecchie mura crollano, si viene travolti, si cade come antichi alberi, da fuori ancora apparentemente vigorosi, ma ormai minati all'interno.
Non c’erano giovani a difendere i bastioni e molti un po’ meno giovani hanno disertato alla chetichella, uno a uno attraverso un segreto e sotterraneo gocciolio. Alcuni, più pragmatici, forse già calcolato che si, forse con il turco si può ben trattare...
Questa volta, come sempre in fondo, non sono bastati i vecchi crociati stanchi.

Ma caduto l’impero la vita continua, vedremo se il nuovo vento ottomano saprà far meglio della cara vecchia, appiccicosa e polverosa afa.

In ogni caso, non sarebbe la prima volta che una svolta sia partita da qui.

martedì 7 giugno 2016

Comunali 2016: Torino, un'analisi personale


Sul tema delle elezioni amministrative, mentre si parla molto dell’exploit del M5s, mi sembra che si stia dando poca enfasi al fenomeno dell’astensione. A Torino, le percentuali di votanti è scesa sotto il 60% (57,17%) rispetto al già non lusinghiero 66,53% della precedente tornata. Di fatto, quindi, l’insieme degli eletti rappresenterà poco più del 50% dei cittadini e il sindaco che verrà, anche facendo riferimento al più votato (e al di là del risultato del ballottaggio), otterrà il suo incarico sulla base di una rappresentanza che non arriva al 25% dei potenziali elettori del primo turno (quello che conta!). Se questa è democrazia! Certo, il fenomeno dell’astensionismo è in crescita un po’ ovunque, ma nessuno sembra realmente interessato a cercare di arginare il fenomeno, tanto c’è la comoda scusa del qualunquismo.

Tra l’altro, secondo la mia opinione, il successo del Movimento è frutto esattamente di due fenomeni convergenti: da una parte, l’opposizione, volente o nolente si sta catalizzando intorno all’unico soggetto politico che comincia a far prospettare reali possibilità di successo (e forse di cambiamento), dall’altra, l’astensionismo erode i voti dei partiti tradizionali molto di più di quanto anche il PD, per sua parte, sia disposto ad ammettere. In altre parole, non sono solo i candidati di destra allo sbando che disertano le urne, ma anche la fascia meno conservatrice della compagine di centro-sinistra.

Attenzione, non sto parlando di nostalgici dell’estrema sinistra, ideologia ormai chiaramente relegata al ruolo di reperto archeologico, ma di potenziali sostenitori DEM alla “Sanders” (ormai anch’egli sull’orlo della squalifica!) che, ben lontani da spinte utopiche e/o rivoluzionarie, invocano un cambio di paradigma, un ritorno a forme di riformismo sostenibile ma magari non necessariamente conformi ai dogmi e ai “paletti” imposti dall’establishment sia di “destra” che di “sinistra”, ormai, per altro, poco distinguibili fra loro.

Io penso che a Torino non sia un caso che oggi l’M5s sia divenuto il primo partito, conquistando una tradizionale cittadella della sinistra. Senza voler togliere nulla alla figura di Piero Fassino, egli mi sembra distante, anche solo per “raggiunti limiti d’età” dall’archetipo dell’eroe cittadino con la miccia in mano capace di fermare da solo l’invasore. E qui viene il punto! Il PD, da vero partito conservatore, ha puntato nuovamente sull’”uomo in grigio”, forse affidabile, ma sicuramente un po’ opaco. Forse il PD avrebbe dovuto trovare un’alternativa più giovane, dinamica e vivace da contrapporre alla “frizzante” ma anche rassicurante figura di Chiara Appendino, ma questo sembra esattamente il problema dei partiti tradizionali: mancanza di talenti, di iniziative di carisma e, mi sembra pure, di idee.

mercoledì 1 giugno 2016

Recensione: Il Grande Disegno


“Il Grande Disegno”, titolo originale: “The Grand Design”, di Stephen Hawking e Leonard Mlodinow, traduzione di Tullio Cannillo, edizioni Mondadori, ISBN 978-88-04-61001-4.
Mentre viene ripercorso il tortuoso processo di sviluppo della conoscenza scientifica che ci ha portato ad elaborare l’attuale nostra visione dell’ambiente fisico e, più in generale, dell’universo, si fa il punto sugli studi che si sforzano di ricomprendere in un’unica spiegazione le “forze” che dominano la nostra fisica, o meglio, la nostra realtà:
- La gravità;
- l’elettromagnetismo;
- la forza nucleare debole;
- la forza nucleare forte.
Mai come oggi, forse per la prima volta dagli albori dell’umanità, si intravvede realmente la possibilità di arrivare ad una teoria scientifica che incorpori e sintetizzi tutte queste leggi e che, conseguentemente, possa spiegare tutta la realtà fisica sottesa ai nostri sensi o meno, passando dal ’”molto piccolo” (è il caso di parlare d’infinitesimo?), fino al “molto grande” (o infinito?).
In questo quadro ci si sofferma sui grandi contributi derivanti dagli studi della fisica quantistica che, se da una parte hanno permesso di compiere grandi passi avanti riguardo alla comprensione della realtà “molto piccola” (fisica atomica e sub-atomica), dall’altro, hanno anche creato un certo “subbuglio” e direi anche “disagio”, soprattutto di matrice esistenzialista e filosofica, scalfendo il granitico determinismo predittivo che sembrava sottendere la fisica newtoniana. La fisica quantistica, infatti, ha ormai sdoganato concetti mentalmente scomodi come il principio di “indeterminazione” (Heisemberg) o quello di “somma delle storie” (Feynman) e altri ancora che, almeno apparentemente, sembrano lasciare la realtà in balia del “caso”, concetto che a molti ricorda “l’assenza di scopo”.
Quasi Inevitabilmente, quando si parla di determinismo scientifico, casualità e caos o delle teorie che riguardano le origini dell’universo, si finisce per intavolare discussioni riguardo il nostro destino, per mettere in discussione la centralità e la finalità della razza umana e infine, per tirare in mezzo Dio e il suo eventuale disegno! Forse troppo se si è genuinamente alla ricerca di risultati concreti …
In sintesi, ho trovato che questo libro, grazie anche allo stile divulgativo, semplice e scorrevole che lo contraddistingue, risulti sicuramente valido per approfondire la nostra conoscenza della fisica moderna. Diversamente però ad altra letteratura relativa a questi temi, esso ha, a mio avviso, il difetto di venire un po’ appesantito dal mescolamento di temi scientifici, filosofici e teologici, dei quali non se ne sente assolutamente il bisogno e che appaiono più che altro come un rovello interiore dell’Autore.

martedì 31 maggio 2016

Recensione: Niente di nuovo sul fronte occidentale


“Niente di nuovo sul fronte occidentale”, titolo originale: “Im Westen nichts Neues” di Erich Maria Remarque, traduzione di Stefano Jacini, edizioni Neri Pozza, ISBN 978-88-545-1167-5.
“Niente di nuovo sul fronte occidentale” è un romanzo autobiografico. Attraverso il racconto del protagonista, Paul Bäumer, viene descritto il tragico destino di un’intera classe liceale, arruolatasi in blocco per partecipare alla Grande Guerra sull’onda dell’entusiasmo interventista. Paul, insieme ai compagni scoprirà presto la differenza fra gli orrori della guerra e l’immaginario eroico e patriottico, frutto delle sue fantasie, ma anche attivamente instillatogli dai professori e dalla propaganda.
Il libro, per me è un capolavoro che merita tutta la fama che gli viene comunemente accordata.
Trovo che il contenuto e il messaggio essenziale del romanzo sia efficacemente riassunto dall’Autore stesso che nella dedica iniziale scrive:” Questo libro non vuol essere né un atto d’accusa né una confessione. Esso non è che il tentativo di raffigurare una generazione la quale – anche se sfuggì alle granate – venne distrutta dalla guerra”.
In effetti, quest’opera si discosta molto, per esempio da un altro bellissimo romanzo del genere come “Un anno sull’altopiano” del nostro Emilio Lussu. Trovo anzi che le due opere costituiscano un insieme straordinariamente complementare: il primo più introspettivo, si sofferma sul disagio psicologico dei combattenti e lascia prefigurare lo sradicamento dei reduci; mentre il secondo, apparentemente più oggettivo, descrive con una dose inimitabile di sobrietà l’insensatezza della guerra, dei comandi e della vita di trincea.

sabato 21 maggio 2016

Recensione: Il sangue del sud – antistoria del risorgimento e del brigantaggio


“Il sangue del sud – antistoria del risorgimento e del brigantaggio”, di Giordano Bruno Guerri, edizioni Mondadori, ISBN 978-88-04-60330-6.
Da anni è in atto un’opera di ripensamento della storia risorgimentale finalizzata a superare una certa impostazione ideologica che non ammetteva ombre riguardo al processo di unificazione nazionale. L’Autore aggiunge un tassello importante a questa attività di ricerca attraverso un’analisi meditata del fenomeno del cosiddetto “Brigantaggio”, Tale fenomeno, particolarmente evidente fra il 1861 e il 1865, fu volutamente associato e assimilato a forme di banditismo e delinquenza comune dalle nuove élite al potere dell’Italia post-unitaria, ma in realtà assunse le caratteristiche e le dimensioni di una vera e propria guerra civile.
L’Autore va alla ricerca delle cause sociali, economiche e culturali all’origine di questo movimento aggiungendo le biografie dei più noti briganti e la descrizione dei fatti che li resero famosi.
Interessanti le conclusioni, perché l’onda lunga del conflitto sociale e culturale che fu alla base del fenomeno insurrezionale del brigantaggio, le profonde divisioni ideologiche che ne furono in parte la causa e le fratture che ne derivarono, hanno influenzato non poco la nostra storia moderna e, ancora oggi, possono essere messe in relazione con un certo grado di differenza e diffidenza reciproca che continua a contrapporre fra loro gli stessi italiani (spesso un po’ restii a sentirsi veramente tali), ma che soprattutto, tende ad allontanarli dal loro rapporto con le autorità, spesso percepite come estranee, aliene se non persino “nemiche”.

domenica 1 maggio 2016

Recensione: ’L’isola del silenzio


“’L’isola del silenzio”, di Angelica Faina e Tono Mucchi, edizioni Bookabook, ISBN: 978-88-99557-01-0.
Durante una breve vacanza su Leros, isola greca del Dodecaneso, una turista italiana, Vittoria, visita un piccolo museo locale e si ritrova ad osservare, stupita una foto risalente al periodo della Seconda Guerra Mondiale. L’immagine è identica ad una in possesso della sua famiglia e ritrae un suo zio, Tommaso, allora giovane ufficiale medico, insieme ad un gruppo di colleghi coetanei appena prima l’inizio della guerra. Il parente, in effetti risulta disperso durante la guerra (quindi ormai dato per morto), proprio sul fronte greco. Tutto sembrerebbe esaurirsi con una semplice coincidenza curiosa ma coerente fino a che, nella medesima visita, spunta una nuova foto di gruppo, successiva al periodo bellico che sembra ritrarre il medesimo uomo, vivo e vegeto e in abiti civili...
A questo punto, in Vittoria scatta qualcosa, una molla che la porterà a voler prolungare il soggiorno al solo scopo di ricostruire caparbiamente questo piccolo mistero della sua vita famigliare … e le sorprese non mancheranno.
Gli Autori di nicchia riservano spesso piacevoli sorprese e quest’opera è esattamente uno di questi casi. La lettura, infatti, è risultata assai piacevole e scorrevole, forse grazie all’ambientazione che, a me è risultata particolarmente famigliare (sono un assiduo frequentatore delle isole greche), sarà per la storia, costruita sulla base di una trama ben architettata, realistica, coerente e sufficientemente intrigante,
Sicuramente meritevole di qualche attenzione.

domenica 10 aprile 2016

Recensione: ’Il mito della dieta: la vera scienza dietro a ciò che mangiamo


“’Il mito della dieta: la vera scienza dietro a ciò che mangiamo”, titolo originale: “The Diet Myth: The Real Science Behind What We Eat”, di Tim Spector, traduzione di Francesca Pe’, edizioni Bollati Boringhieri, ISBN: 978-88-339-2691-9.

L’Autore, docente di epidemiologia e ricercatore genetico, in particolare dedito allo studio dei gemelli, ha incentrato questo saggio sul complesso rapporto che sussiste fra i nostri geni, l’alimentazione e la nostra numerosa popolazione di ospiti microbici.

Riguardo all’alimentazione, solo ultimamente si comincia a tenere conto dell’importanza e delle complesse iterazioni fra la nostra flora batterica e le nostre abitudini, ivi incluse soprattutto, ma non esclusivamente, quelle alimentari. Nel contempo, non sono pochi gli studi scientifici che ormai si soffermano sull’importanza del nostro sistema gastro-intestinale. Esso ormai viene considerato alla stregua di un secondo cervello sia in virtù della sua complessità sistemica, sia ai fini della sua importanza per il controllo delle funzionalità organiche e, in particolare, del sistema immunitario. Infine, risulta sempre più chiara la relazione esistente fra il nostro benessere fisico e la numerosa popolazione di “microbi” benevoli o potenzialmente patogeni che vivono in costante simbiosi con noi, ma che in particolare, rivestono un ruolo fondamentale nel regolamento della nostra digestione. Proprio ad essi, a questi piccoli ma fondamentali ospiti è dedicato questo saggio che ne pone in evidenzia l’importanza e che ha l’ambizione di stimolare il lettore ad una gestione più consapevole del proprio specifico “zoo” e a spingerlo a ricercare attraverso la “dieta” un “parterre” favorevole ad arricchirne la biodiversità promuovendo soprattutto lo sviluppo delle varietà benefiche.

E' opportuno sottolineare che l’Autore utilizza il termine “dieta” più con il significato di “regime alimentare” rispetto a quanto venga utilizzato per “regime dimagrante” (ma anche quest’ultimo argomento finisce per essere ampiamente preso in considerazione all’interno dell’opera), di conseguenza, buona parte del saggio è dedicata a sfatare i non pochi luoghi comuni che caratterizzano, la nostra sempre più scarsa cultura alimentare. L’Autore non si astiene dal formulare una pesante condanna della moderna industria del settore, spesso direttamente responsabile di disturbi di origine alimentare divenuti ormai epidemiologici (come ad esempio il diabete) e comunque spesso consapevolmente impegnata in attività di disinformazione; ma tende anche a ridimensionare le aspettative di moltissimi regimi alimentari cosiddetti “salutistici”. Il messaggio centrale è quello di differenziare il più possibile la nostra dieta e, soprattutto di “ascoltarci”, ovvero di ricercare con maggior attenzione quegli alimenti che personalmente sembrano esserci maggiormente benefici, perché, in estrema sintesi, non esiste un solo modo per alimentarsi correttamente, ma ognuno deve e può ricercare la propria personale ricetta per ottenere un maggior benessere e, non dimentichiamolo, più soddisfazione da ciò che mangia.

giovedì 10 marzo 2016

Recensione: Disuguaglianza – Che cosa si può fare? (Inequality. What can be done)


“Disuguaglianza – Che cosa si può fare?”, titolo originale: “Inequality. What can be done?” Anthony B. Atkinson, traduzione di Virginio B. Sala, editore Raffaello Cortina, ISBN: 978-88-6030-788-0.
La disuguaglianza di reddito e di opportunità, dopo un periodo di calo relativo avvenuto per buona parte del novecento è di nuovo in crescita quasi dappertutto. La svolta, nei paesi industrializzati è avvenuta, un po’ ovunque, a partire dagli anni ottanta del medesimo secolo e a partire da allora, il fenomeno appare inarrestabile e quasi “naturale” perché ritenuto intrinsecamente legato alla globalizzazione.
La crescente polarizzazione della ricchezza è ormai un fattore ampiamente visibile e misurabile attraverso indicatori specifici quali il noto e forse abusato coefficiente di Gini. Questo fenomeno è pertanto oggetto di ampi dibattiti politici, non solo relativamente al tema scontato dell’equità, ma soprattutto, perché non sono pochi quelli che ne temono le ripercussioni negative sulla vita democratica e sulla stabilità e coesione delle nostre società civili.
Nel corso dell’opera, l’Autore sviluppa un’analisi pragmatica e intelligente che, unisce sia aspetti teorici, sia proposte pratiche e che, in un certo senso, si integra alla perfezione con un altro saggio di recente grande successo mediatico, “Il capitale nel XXI° secolo” di Thomas Piketty.
Atkinson mette insieme una precisa analisi storica e statistica dei fattori che hanno inciso e possono modificare il livello della diseguaglianza e cerca di dimostrare, secondo il mio parere, con successo, che la montante sperequazione non è un fenomeno ineluttabile legato a fattori esogeni incontrastabili. Secondo l’Autore ad essa ci si può e ci si deve opporre, e tale risultato può essere ottenuto attraverso l’applicazione di specifiche politiche redistributive.
Buona parte del saggio è quindi dedicato ad illustrarne alcune attraverso una precisa ricetta di politica socio-economica costituita da una serie di proposte, soprattutto di natura fiscale, tra di esse interdipendenti ma non necessariamente da applicare “in toto”. Devo ammettere che non tutte mi hanno pienamente convinto, ma aggiungo che, nel complesso, mi sono, invece trovato d’accordo con il quadro generale, le tesi e gli obiettivi espressi dall’Autore.

venerdì 4 marzo 2016

Recensione: Mai avere paura – vita di un legionario non pentito


“Mai avere paura – vita di un legionario non pentito” di Danilo Pagliaro e Andrea Sceresini, editrice ChiareLettere, ISBN: 978-88-6190-711-9.
L’Autore è un militare, volontario nella Legione Straniera francese e prossimo alla pensione dopo aver svolto un servizio più che ventennale nel corpo.
Egli racconta la sua esperienza.
Si parte quindi dalle spiegazioni di una scelta, quella dell’arruolamento in legione, che è, sicuramente anticonformista, ma che nulla ha a che fare con l’esaltazione, il “machismo”, o peggio, con uno spirito da guerrafondaio, ma forse, più con l’irrequietezza d’animo dell’Autore, da sempre, per sua ammissione, attirato dall’idea della divisa e cresciuto nel culto dello “spirito di servizio”.
Lo scrivente si sofferma a descrivere le modalità dell’arruolamento in legione, ivi compresa la prassi dell’”identité déclarée” (identità dichiarata) che permette alle reclute di liberarsi, almeno momentaneamente, del proprio passato per mettersi completamente al servizio della Francia; poi si passa a parlare dell’addestramento che egli considera duro ma “giusto”, perché finalizzato a mettere preventivamente in luce i limiti fisici e psicologici delle reclute acciocché non emergano con possibili conseguenze tragiche nel corso della vita operativa. Molto però ruota intorno alla descrizione dello spirito di corpo e di comunità che anima i legionari, sentimento attivamente promosso dalla struttura stessa del corpo che si pone l’obiettivo esplicito di accogliere la recluta in una sorta di famiglia allargata, e di occuparsi di lei anche dopo il termine del servizio attivo.
Insomma, nella legione l’Autore ha trovato la sua ragione di essere e lo dichiara chiaramente con una certa fierezza.
Brevi passi illustrano anche il suo impegno operativo, perché è bene non dimenticare che la Francia e, in particolare il corpo della legione, sono stati impegnati intensamente in molti teatri operativi negli ultimi venticinque anni: Balcani, Centrafrica, Congo, Camerun, Costa d’Avorio, Comore, Mali, solo per citarne alcuni.
In sintesi, io ho trovato questo libro interessante, secco, sincero e asciutto, scevro di fronzoli e vanagloria. Certo, non un’opera d’arte della letteratura … ma questo era nelle aspettative!

Sottolineo che l’avevo scelto sperando di trovare una descrizione un po’ più approfondita dell’impegno della legione in terra africana, teatro che sarà sempre più importante nei prossimi decenni ai fini della cosiddetta “sicurezza globale” (che poi sarebbe essenzialmente la “nostra” di europei!). Da questo punto di vista, il testo risulta piuttosto scarno e deludente, perché l’Autore non si dilunga sui particolari del suo impegno operativo (immagino, anche per una sorta di senso del “pudore”) né in particolari analisi di tipo strategico o geopolitico. In ogni caso, questa supposta mancanza (più un errore di valutazione da parte mia, ammetto!) non inficia assolutamente il contenuto di questa interessante testimonianza che scorre veloce senza mai annoiare.