venerdì 31 gennaio 2014

Recensione: Dieci Miliardi _ Il Mondo dei nostri figli


“Dieci Miliardi _ Il Mondo dei nostri figli”, titolo originale: “Ten Billion”, di Stephen Emmott, traduzione di Bruno Amato, edizioni Feltrinelli, ISBN: 978-88-07-17262-5.
Il libro affronta un argomento interessante, quello riguardante il sempre più accelerato aumento della popolazione mondiale e i suoi possibili effetti sulla sostenibilità delle risorse planetarie. L’Autore appartiene alla schiera dei pessimisti e, in versione moderna ripropone, facendo un grande sfoggio di dati di ogni tipo, gli scenari già previsti dall’economista e demografo Thomas Robert Malthus (1766-1834).
Per alcuni versi, appartengo anch’io alla schiera dei “pessimisti”, questo però non vuol dire che uno sia disposto a digerire libri di questo genere né a sviluppare un argomento di tale portata in modo così dozzinale e, aggiungerei, infantile.
Per me questo libro ha un solo pregio, quello di aver accumulato moltissimi dati statistici (non a caso l’autore dirige un centro di studi computazionali!) che effettivamente potrebbero costituire un buon punto di partenza per analizzare e sviluppare l’argomento.
L’opera ha invece molti difetti. Lo stile di scritture è elementare e l’impressione non è quella di leggere un saggio sull’argomento, ma di sfogliare una collezione di slide! La stessa impostazione grafica è irritante, poche righe per pagina, scritte a caratteri cubitali che riportano dati statistici a frasi che suonano come slogan; non vera sintesi quindi, ma semplice banalizzazione!
Si poteva cominciare a tutelare l’ambiente risparmiando un po’ di carta! Peccato, perché l’idea era buona e questi argomenti, che ci piacciano o no, dovremmo, presto o tardi, cominciare ad affrontarli davvero.

giovedì 23 gennaio 2014

Recensione: Il Castello dei Destini Incrociati


“Il Castello dei Destini Incrociati”, di Italo Calvino, edizioni Mondadori, ISBN: 978-88-04-39027-5.
Il libro in realtà contiene due racconti: “Il Castello dei Destini Incrociati” e “La Taverna dei Destini Incrociati”. Entrambe le storie sono costruite nel medesimo modo: un certo numero di viaggiatori si ritrova al Castello (o nella Taverna) dopo aver attraversato una selva densa di pericoli. A causa di qualche arcano tutti i viandanti hanno perso l’uso della parola e, avendo a disposizione solo un mazzo di carte di tarocchi, cominciano a illustrare le loro peripezie in modo figurato disponendole su un tavolo comune e aiutandosi con la mimica, lasciando l’interpretazione delle carte ai presenti. Rapidamente viene a crearsi una griglia e un intreccio di carte che può essere letto dall’alto al basso, da destra a sinistra dando diversi significati alle medesime carte in funzione dell’ordine di apparizione in ogni vicenda e che racchiude tutte le storie dei protagonisti presenti.
Bisogna dire che l’idea è assolutamente geniale ma, alla fine, il susseguirsi dei vari racconti non mi ha appassionato. La mia ipotesi è che effettivamente, la necessità di rendere l’effetto dei “Destini incrociarti” grazie all’intreccio di tutte le carte disposte a mano a mano dai protagonisti, abbia limitato molto le opzioni disponibili all’Autore. A peggiorare le cose devo aggiungere che il racconto della “Taverna” si sviluppa sulla medesima idea di quello del “Castello” (seppur con storie diverse) e, pertanto, anche la trovata originalissima alla base dei due racconti finisce per apparire un po’ stucchevole. Effettivamente, leggendo quanto è riportato nell’introduzione,  pare che lo scopo dell’Autore riguardo al secondo racconto fosse soprattutto quello di adattare l’idea e le metodologie impiegati nel primo alla nuova situazione e, tra l’altro, utilizzando un diverso tipo di mazzo di Tarocchi, i cosiddetti “Marsigliesi”.
Devo dire che dall’Autore del “Barone Rampante” mi aspettavo di più.

 

mercoledì 22 gennaio 2014

Contro l'ITALICUM!


Sinceramente sono abbastanza deluso dall’”Italicum”, il nuovo sistema elettorale in corso di elaborazione proposto da Renzi e, in sintesi, sono abbastanza concorde con i critici di tale impostazione (si veda ad es. la critica di Aldo Bozzi riportata su La Stampa di oggi, 22 gennaio 2014) che attribuiscono a quest’architettura le caratteristiche di un “Super porcellum”.
Prima di criticare la proposta, però, vorrei partire invece dai punti che mi trovano d’accordo. Personalmente sono ideologicamente favorevole al metodo proporzionale, che ritengo l’unico effettivamente rappresentativo. Infatti, in base ai diversi significati che si possono dare al termine “Democrazia”, per mio conto, è proprio il concetto di rappresentatività che andrebbe maggiormente salvaguardato e tenuto presente. La vita democratica si presta, però a molte altre interpretazioni e l’enfasi può ben venire posta su altri aspetti, ad esempio quello della governabilità. Se si tiene conto anche di questo concetto, se non altro per aggiungere all’idealismo una certa dose di pragmatismo, devo anch’io arrendermi all’evidenza che dimostra quanto il panorama politico italiano sia eccessivamente frammentato. In altre parole, in Italia ci sono troppi partiti, per lo più irrilevanti, o peggio, strumentali e artificiosi.
In questo contesto, il modello elettorale spagnolo può effettivamente essere preso come base di partenza anche da noi. Il sistema si presenta come un metodo proporzionale puro, ma la suddivisione del territorio in collegi elettorali molto piccoli garantisce effettivamente i seguenti risultati:
-          Premia i partiti che riescono ad ottenere buone performance su tutto il territorio nazionale.

-          Premia i partiti molto radicati almeno su di una parte del territorio.

-          Finisce per penalizzare i partiti diffusi ma con poco seguito.

Se a tutto ciò si aggiungesse, per ogni circoscrizione e per ogni lista un congruo numero di candidati in modo da permettere agli elettori di esprimere delle preferenze, dal mio punto di vista, il sistema potrebbe andare bene così. Al limite, se lo si ritiene proprio necessario, si potrebbe anche aggiungere un’ulteriore piccola soglia di sbarramento (es. 2%?) in modo da “potare” tutto ciò che non ha né rilevanza nazionale né locale, ma ritengo che, già la suddivisione del territorio in piccole aree elettorali risolva, di fatto, già il problema.
Un sistema di questo genere, ovviamente, non garantisce che alla fine emerga una maggioranza assoluta e, pertanto, la governabilità non sarebbe automaticamente garantita. Questo però è esattamente il risultato che vorrei ottenere per evitare situazioni come il “ventennio berlusconiano” dove il governo è stato retto da una compagine governativa che non rappresentava la maggior parte dei consensi. A me sembra quindi naturale e democratico che non si possa appropriarsi in esclusiva del governo del paese se non nei casi in cui questa sia effettivamente la volontà della maggior parte dell’elettorato. In pratica, secondo il mio parere, quando non si vince con le proprie forze, è necessario allearsi con altri e quindi “trattare” il proprio programma per renderlo accettabile anche agli alleati post elettorali.
Il tema delle alleanze introduce un altro elemento; secondo me, le coalizioni ante voto non dovrebbero essere incentivate, ma anzi, disincentivate se non (meglio) effettivamente vietate. Esse sono, a parer mio solo un escamotage per superare gli scogli del maggioritario e, svelano più le divisioni (già presenti nello stesso partito nel gioco delle “correnti”) che le convergenze. Di conseguenza, per me, l’elettore dovrebbe essere costretto a votare per un unico simbolo e solo a elezioni avvenute si dovrebbe parlare di accordi o, meglio, di alleanze.
Da questi elementi è facile a questo punto capire quali siano gli aspetti problematici che, personalmente, attribuisco all’”Italicum”, in sintesi:
1)      Sono contrario a qualsiasi modello che preveda premi di maggioranza. Se non si ottiene la maggioranza dei voti, è necessario governare attraverso una coalizione. Nel caso si torna alle urne.

2)      Alla presenza di circoscrizioni piccole, sono contrario all’imposizione di soglie minime rilevanti (anche perché inutili!).

3)      Sono contrario alla possibilità di istituire alleanze ante voto e, semmai, discriminerei queste ultime e non i singoli simboli in caso d’imposizione di soglie minime.

4)      Sono contrario alle liste bloccate; per quanto ristrette gli elenchi di candidati devono permettere di esprimere una scelta e deve essere irrilevante l’ordine di presentazione dei candidati all’interno della lista.

martedì 21 gennaio 2014

Recensione: Licenza per un Genocidio – I “Protocolli dei Savi Anziani di Sion


“Licenza per un Genocidio – I “Protocolli dei Savi Anziani di Sion” e il mito della cospirazione ebraica”, titolo originale: “ Warrant for Genocide: The Myth of the jewish World Conspiracy and the Protocols of the Elder of Zion”, di Norman Cohn, traduzione di Laura Felici, edizioni Castelvecchi, ISBN-10: A000186445.
Si tratta della ripubblicazione ancora attualissima di un saggio uscito nell’ormai lontano 1966. Lo studio si basa sull’analisi di un variegato corpus di pubblicazioni antisemite che cominciarono ad apparire nel diciannovesimo secolo ma che trovarono un’amplissima diffusione durante il primo trentennio del ventesimo. Esse si condensarono in diverse versioni dei “Protocolli dei savi anziani di Sion” e nel “Discorso del rabbino”, raccolte di falsi attribuiti a non meglio precisate “autorità” della comunità ebraica, che furono adattate in funzione dell’ideologia dell’”autore/curatore/traduttore” e del paese nel quale erano diffuse. Questi testi, redatti da personaggi ambigui e, almeno secondo i nostri standard, sostanzialmente invasati e squilibrati, avevano lo scopo principale di convincere i lettori dell’esistenza di un complotto mondiale ordito dagli ebrei allo scopo di assicurarsi il dominio sul pianeta.
 Le prime versione di questi documenti videro la luce in Francia, ma fu in Russia, anche grazie alla collaborazione fattiva del servizio segreto zarista (la Okhrana), nei primi anni del novecento che i “Protocolli” assunsero una forma grossomodo organica, per poi diffondersi largamente dopo la rivoluzione russa in Europa e Stati Uniti (in questo caso avvalendosi anche di personaggi autorevoli come l’imprenditore Henry Ford!) e, soprattutto, in Germania, trovando lì terreno fertile anche grazie alla diffusione della cultura völkisch e ottenendo l’entusiasta supporto ideologico del partito nazista e, dopo, delle autorità del Terzo Reich.
La falsità di tutta questa documentazione fu ampiamente dimostrata già nei primi decenni del novecento in almeno due occasioni ma queste operazioni di trasparenza non bloccarono sostanzialmente la diffusione di questi scritti se non nei Paesi, dove gli organi di stampa e le autorità si mossero attivamente per svelarne la falsità. La prima clamorosa smentita a questo riguardo fu pubblicata per opera del Times di Londra che riuscì a individuare il testo ispiratore dei “Protocolli”. Essi furono sostanzialmente ricopiati in ampie parti e adattati alla meglio al nuovo soggetto sulla base di un libro di satira politica, il “Dialogue aux enfers entre Machiavel et Montesquieu”, scritto da Maurice Joly e rivolto contro la figura di Napoleone III°. Tali argomenti vennero sostanzialmente ribaditi durante un processo intentato a Berna nel 1934 dalla comunità ebraica svizzera nei confronti degli editori e diffusori della versione che circolava all’interno della Confederazione; in quell’occasione i giudici definirono i “Protocolli” : “ …. ridicole assurdità …”.
Interessante la tesi finale dell’Autore che spiega l’ossessione diffusa per questi testi attribuendo al fenomeno la caratteristica di una psicopatia di massa. Essi effettivamente contribuirono a portare alla luce un diffuso pregiudizio inconscio frutto dell’avversione della cultura cristiana nei confronti dell’ebraismo al quale si mescolavano elementi e paure moderne legate ai cambiamenti politici e socio-economici. Non a caso, gli ebrei malvagi dei “Protocolli” si prestarono a tantissime trasfigurazioni, spesso in mutuo contrasto fra loro; basti pensare che la loro supposta congiura dovesse appoggiarsi contemporaneamente su: democrazia, capitalismo, bolscevismo, liberismo e congiure massoniche, il tutto coordinato da una struttura gerarchica e impenetrabile! Un vero guazzabuglio di opposti.

sabato 11 gennaio 2014

Recensione: Difendere la Terra di Mezzo

“Difendere la Terra di Mezzo”, di Wu Ming 4, edizioni Odoya, ISBN: 978-88-6288-193-7.

Si tratta di un bellissimo saggio sulle opere dello scrittore inglese John Ronald Reuel Tolkien, autore dell’ormai famosissimo “Il Signore degli Anelli” e di un intero “corpus” di opere dedicato al mondo fantastico della “Terra di Mezzo”. Per altro, Wu Ming 4 ci ricorda che Tolkien non fu solo l’inventore del genere fantasy, anzi, nel corso della sua esistenza fu certamente la sua figura di eminente studioso che prevalse sulla sua fama di scrittore, tanto che, la maggior parte dei suoi scritti incentrati sul mondo di sua invenzione furono pubblicati postumi dal figlio. In vita, Tolkien si distinse soprattutto come erudito filologo, linguista ed esperto di letteratura anglosassone.
Il curriculum del padre del genere fantasy non è di secondaria importanza ai fini della discussione sul valore delle opere dedicate al suo universo fantastico; fin dal suo apparire, infatti, romanzi come “Lo Hobbit” e “Il Signore degli Anelli” furono largamente snobbati dalla critica letteraria e relegati al filone della letteratura per ragazzi e di “evasione” e, persino “Il Silmarillion” fece molta fatica ad accreditarsi come opera appartenente al filone dell’epica al pari di capolavori come l’Iliade o il Beowulf.  
Wu Ming 4 ha poi il merito di affrontare e dirimere definitivamente un aspetto tutto italiano legato alle opere di Tolkien, cioè la loro supposta appartenenza alla letteratura di “destra” e di area cattolica. L’Autore affronta il tema con un grande equilibrio ammettendo che le opere del creatore della Terra di Mezzo includono molti aspetti che possono essere fatti risalire alla simbologia cristiana (Tolkien, era un fervente cattolico!) e riconoscendo che uno degli obiettivi dell’autore inglese era proprio quello di sviluppare il tema morale ed etico nei personaggi di sua invenzione. Dall’altra parte, però, Wu Ming 4 dimostra che il mondo tolkeniano non si presta a facili semplificazioni, spesso i personaggi si presentano con caratteristiche molto eterogenee che mischiano valori moderni a quelli tradizionali e anche l’invenzione più genuina della saga, cioè, la razza degli Hobbit sembra lontana anni luce dalla mitologia eroica verso la quale si è identificata per anni certa parte della “destra” giovanile. Quello che invece sembrava stare a cuore all’autore inglese è l’enfasi su concetti molto profondi, individuali ed anche molto moderni come: il senso di responsabilità e del dovere, la libertà di scelta ed anche al libero arbitrio; il coraggio e la tenacia dei singoli; il senso di giustizia; il rifiuto della violenza anche se praticata a “fin di bene” e i rischi del potere quando esso è eccessivo.
Niente male veramente! Personalmente non posso che ringraziare Wu Ming 4 per avermi restituito più bello che mai un mondo che, a distanza di trent’anni, cominciavo a dimenticare e che, grazie all’Autore, avrei voglia di cominciare a riscoprire con occhi da adulto.

lunedì 6 gennaio 2014

Recensione: Il Grande Declino – Come crollano le istituzioni e muoiono le economie


“Il Grande Declino – Come crollano le istituzioni e muoiono le economie”, titolo originale: “The Great Degeneration”, di Niall Ferguson, traduzione di Carla Lazzari, edizioni Mondadori. ISBN: 978-88-04-63110-1.
Il “Grande Declino” tratta di un tema attualmente molto di moda, cioè delle ragioni della perdita di preminenza  dei paesi occidentali rispetto al resto del mondo. Il saggio parte idealmente dalla definizione dello “Stato stazionario”, la condizione riguardante un paese in precedenza ricco che ha cessato di crescere, descritta da Adam Smith (1723 – 1790) nella sua “Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni”. Tale definizione, un po’ paradossalmente, viste le condizioni di oggi, all’epoca riguardava la situazione dell’impero cinese.
 Nello “Stato stazionario” l’economia langue, i salari rimangono stabili o tendono a decrescere, la mobilità sociale è notevolmente ridotta. La ricchezza tende a concentrarsi nelle mani dell’elite. Le classi dominanti difficilmente, corrono il  rischio di vedere erose le proprie posizioni di rendita e anzi, tendono a instaurare situazioni di monopolio e ad appropriarsi e a espropriare le proprietà del “ceto medio”. Per molti versi, nota l’Autore, la definizione data da Dam Smith è applicabile all’attuale situazione socio-economica della maggior parte dei paesi occidentali; ma dove vanno ricercate le cause di tutto ciò? Quali sono i meccanismi che si sono inceppati e quali i rimedi?
Ferguson individua la causa più visibile della stagnazione nel problema del debito pubblico eccessivo e nella conseguente attività di “deleveraging” tesa a ridurne l’ammontare. Egli, però avverte da subito che l’eccessiva enfasi su questo problema non fornisce spiegazioni sufficienti a giustificare questa fase di ristagno e propende per una spiegazione che prenda in considerazione più elementi insieme e, a questo fine, dedica un capitolo specifico a ognuna delle “scatole nere” che, a suo dire, costituiscono il fulcro delle nostre società e le basi del successo della cultura occidentale: la democrazia, comprendendo con questo termine non solo i meccanismi di rappresentanza politica e di divisione del potere, ma anche il resto delle istituzioni legate al welfare; il capitalismo, la “Rule of Law” e la società civile.
Le conclusioni dell’Autore sono che le ragioni del ristagno occidentali vanno ricercate in una serie abbastanza complessa di concause e cofattori. In questa lista egli inserisce: l’ipertrofia delle nostre istituzioni, la rottura del patto fra generazioni, l’incapacità della classe politica e della società civile nell’accettare la necessità di riportare in equilibrio le finanze pubbliche, gli errori della “deregulation” ai quali si contrappone l’illusione di pervenire a un sistema di regolamentazione veramente efficiente ed efficace, la crescente complicazione del sistema burocratico, legale e fiscale, la crisi della società civile e dell’associazionismo …
Riguardo al mio punto di vista, posso solo aggiungere che, per quanto questo saggio di Ferguson contenga non poche riflessioni molto interessanti e, nell’insieme sia chiaro e scorrevole, mi è apparso un po’ sottotono rispetto a quanto l’Autore mi ha abituato in passato.