lunedì 29 dicembre 2014

Recensione: Anatomia delle Brigate Rosse – Le Radici Ideologiche del Terrorismo Rivoluzionario


“Anatomia delle Brigate Rosse – Le Radici Ideologiche del Terrorismo Rivoluzionario” di Alessandro Orsini, edizioni Rubbettino, ISBN: 978-88-498-2853-5.
 
Premetto di non aver mai approfondito molto il tema della stagione del terrorismo politico europeo che ha caratterizzato la seconda metà del novecento. Questi eventi li ho sempre considerati “fatti”, mai “storia” e, avendoli vissuti, seppur indirettamente, semplicemente respirando il clima di quegli anni, li ho sempre considerati parte delle mie esperienze e dei miei ricordi e, stimandoli già sufficientemente noti, non ho mai pensato (erroneamente) di doverli analizzare più precisamente.

 Il terrorismo me lo ricordo prima come una serie di sensazioni insieme forti e vaghe, come sono quelle che possono essere captate, ma non pienamente comprese, da un bambino (sono nato nel 1965). Poi, un po’ più grande, come fenomeno legato a eventi esterni e pericolosi dei quali bisognava tenere conto; basti pensare che, tutte le mattine, in “branchi” vocianti, percorrevamo Via Asti (a Torino) per andare a scuola ma, giunti ai margini del lungo muraglione della caserma La Marmora, dove si allestì l’aula bunker e si tenne il maxi processo contro il nucleo storico delle BR, calava il silenzio. I nostri genitori ci avevano fatto il lavaggio del cervello: non urlate, non correte, non “sfottete”, non vi fermate, camminate sul lato opposto al muro della caserma, non vi avvicinate al portone, insomma, … non “fate i cretini”! Vedevamo i poliziotti davanti al portone e sugli spalti, stavano immobili, infagottati nel giubbotto antiproiettile. Si capiva che non erano statue perché vedevamo sbuffare il fiato gelato del loro respiro, ma per il resto non c’era un movimento, non si sentiva un rumore. Portavano la mitraglietta M12 un po’ sul davanti, canna rivolta verso il basso, entrambe le mani sull’arma, pronti a imbracciarla. Sapevamo che avevano il colpo in canna, che erano tesi e nervosi … eppure tutto era immobile, congelato. Ho altre reminiscenze “forti” legate al terrorismo. Per esempio, ricordo vivamente l’attentato alla stazione di Bologna, quello alla scuola di Amministrazione Aziendale di Torino, il giorno del referendum per confermare le “leggi Cossiga” (accompagnai mia nonna ai seggi!)… ma per me, il terrorismo rimane indissolubilmente legato alla sensazione di freddo, silenzio e immobilità che permeava quel tratto particolare di via Asti, oppure a quella vaga sensazione di disagio e tensione che ancora mi coglie quando incappo negli ormai sporadici posti di blocco dei carabinieri.

In età più matura ho inevitabilmente letto libri e articoli collegati al terrorismo di destra e sinistra e, a questo soggetto, si è aggiunto il tema del terrorismo di natura religiosa, tutto ciò, non in funzione di un vero interesse per quest’argomento, ma come semplice conseguenza di un fenomeno che è, semplicemente troppo legato alla nostra storia alla politica e alla cronaca recenti per poterlo ignorare. Non avevo, però, mai letto opere e saggi che si occupassero nello specifico della figura del terrorista, del suo mondo, della sua estrazione sociale e culturale, delle sue motivazioni psicologiche e dei suoi obiettivi. Da questo punto di vista il saggio dell’Autore è illuminante, convincente oltre che sconvolgente.

Per l’Autore i terroristi di sinistra e di destra, per non parlare di quelli esplicitamente religiosi, appartengono alla corrente delle sette gnostiche. Questo fa di loro dei soggetti molto più complessi, diversi e pericolosi rispetto a quanto siano normalmente considerati dall’opinione pubblica. L’approccio dello gnostico, quando si manifesta in un processo attivo, si basa sul presupposto di essere tanto “illuminati” quanto incompresi. Egli è un “eletto” un “puro”, unico depositario, insieme a pochi intimi, di una verità superiore che gli altri individui non riescono o non vogliono scorgere. Il suo modo di ragionare è strettamente dualistico o, come spiega l’Autore, “binario”: zero o uno, bianco o nero, puro o impuro, tanto peggio e tanto meglio … Chi non sta dalla parte del terrorista è automaticamente un nemico, qualsiasi cosa egli dica o faccia e va sterminato. Da qui nasce l’odio viscerale del terrorista soprattutto nei confronti di qualsiasi forma di riformismo, colpevole di allontanare le prospettive dell’inevitabile sovvertimento e rivoluzione. L’obiettivo, infatti, è nientemeno che salvare e purificare il mondo dai suoi mali (il quale è, inevitabilmente corrotto e decadente!), al fine di creare una società perfetta di pace e amore (e di norma, rigorosamente egualitaria). Per raggiungere tale fine, ogni mezzo può essere impiegato a partire, ovviamente, dalla violenza e dallo sterminio fisico dell’avversario che, come si è appena visto, è visto come un soggetto irrimediabilmente corrotto e che viene, pertanto, completamente disumanizzato solo per il fatto di non aderire acriticamente all’ideale gnostico del momento. Per gli gnostici è quindi “normale” e necessario prevedere di sterminare milioni d’individui al fine di purificare la società dai soggetti “infetti”. In sintesi, dal punto di vista psicologico è semplicistico e riduttivo pensare a questi soggetti come semplici “pazzi” o come “criminali” (magari prezzolati), mentre è quasi certamente più corretto collocarli fra i veri e propri “alienati” (inteso nel senso di personaggi “ai margini”). In sintesi, forse la pericolosità del terrorista gnostico consiste proprio nel fatto di considerarsi troppo “puro” e “perfetto” rispetto alla “massa” che lo circonda.

Rispetto a una prospettiva sociale e storica, l’Autore ci fa notare come le forme violente dello gnosticismo siano parte integrante della nostra cultura e, pertanto, rimane costante il rischio che esse, una volta debellate si ripresentino. Molti degli aspetti culturali e delle idee dalle quali deriva il repertorio violento delle sette gnostiche traggono origine da concetti e da aspirazioni che, in linea di principio sono considerati positivi, condivisibili o, quantomeno, accettabili e che stanno spesso alla base sia della visione etica e morale del cristianesimo, sia del pensiero liberale e illuminista: uguaglianza, libertà civili e religiose, equità economica, diritti civili e individuali, … Lo gnostico, però porta all’estremo l’applicazione di questi concetti ambendo a trasformarli in icone assolute da realizzare perfettamente, ad ogni costo e senza alcun compromesso. Pertanto, ad esempio, dalle forme di predicazione di stampo chiliastico e dalle esigenze di rigenerazione della chiesa spesso si sono originati movimenti improntati alla violenza sociale e politica e, anche la Rivoluzione francese, per altro fortemente ispirata dal pensiero illuminista, ha avuto la sua fase degenerativa rappresentata dal Terrore promosso dai giacobini. Il riferimento culturale per eccellenza del terrorismo di sinistra fu invece un'altra ideologia “millenarista” cioè il marxismo-leninismo che fu (è!), secondo l’Autore un vero è proprio “credo” gnostico.

In appendice, è anche presente un’interessante anche se succinta panoramica del fenomeno del “brigatismo nero” e dei suoi riferimenti culturali che, curiosamente, ma forse non così inaspettatamente, in alcuni casi coincidono con quelli dei brigatisti di sinistra (ad esempio convergendo sulla figura del rivoluzionario nichilista Sergej Gennadievič Nečaev!).

Decisamente un bel saggio, del quale ne consiglio vivamente la lettura!

mercoledì 24 dicembre 2014

Recensione: La Bestia Dentro di Noi – Smascherare l’Aggressività


“La Bestia Dentro di Noi – Smascherare l’Aggressività” di Adriano Zamperini, edizioni Il Mulino, ISBN: 978-88-15-25358-3.
L’Autore sviluppa una tesi che contrasta sia con quanto spesso correntemente accettato a livello sociale, sia con quanto sostenuto da un’ampia parte del mondo scientifico. Egli, in sintesi, sostiene, che non esista nessuna vera e propria prova che dimostri scientificamente come l’aggressività dei singoli esseri umani debba per forza far parte del nostro patrimonio genetico e biologico. La violenza e l’aggressività del singolo non sarebbero oggettivamente spiegabili né come risultato di un antico retaggio animale e, in particolare, il frutto di reazioni istintive che troverebbero origine nelle parti più “antiche” del nostro cervello, né attraverso il frutto di particolari combinazioni genetiche, né, tantomeno, analizzando il contrasto fra il processo di evoluzione e selezione biologica della specie rispetto al più rapido ritmo di cambiamento delle nostre strutture sociali. La violenza, quindi, sarebbe più spiegabile come una scelta dei singoli in parte consapevole. Tale reazione, in linea di principio, sarebbe prodotta da particolari situazioni di tensione sociale e/o ambientale che, tra l’altro, non sono necessariamente il frutto di combinazioni casuali, ma, più spesso, il risultato di scelte e modelli culturali attivamente promossi dai gruppi sociali e persino dalle autorità (ad esempio, l’odio verso il “nemico”). In pratica, la violenza è più spesso frutto del contesto sociale e il risultato di un particolare clima culturale, spesso consapevolmente costruito perché essa si manifesti e sia sostanzialmente accettata, più di quanto possa essere fatta risalire a un’origine naturale, evolutiva o genetica.
Per l’Autore, quindi, la violenza non ha scuse, non è innata ma, in sintesi, è più che altro un problema sociale che va affrontato secondo un approccio socio-culturale teso a rimuoverne gli alibi e le cause.
Un buon saggio e un punto di vista interessante che accolgo con generale favore ma, mantenendo qualche personale riserva (… sarà a causa del mio retaggio “scimmiesco”?! :-)).

domenica 14 dicembre 2014

Recensione: Uccideresti l’Uomo Grasso? Il dilemma etico del male minore


“Uccideresti l’Uomo Grasso? Il dilemma etico del male minore”, titolo originale: “Would You Kill The Fat Man? The Trolley Problem and What Your Answer Tells Us about Right and Wrong”, di David Edmonds, tradotto da Gianbruno Guerrerio, edizioni Raffaello Cortina, ISBN: 978-88-6030-697-5.
Si tratta di uno dei tanti casi estremi e paradossali prodotti dalla filosofia morale: “Un carrello ferroviario fuori controllo corre verso cinque uomini che sono legati sui binari: se non sarà fermato li ucciderà tutti e cinque. Vi trovate su un cavalcavia e osservate la tragedia imminente. Tuttavia, un uomo molto grasso, un estraneo, è in piedi accanto a voi: se lo spingete facendolo cadere sui binari, la notevole stazza del suo corpo fermerà il carrello, salvando cinque vite, anche se lui morirà. Voi uccidereste l’uomo grasso?”
Bella domanda! Soprattutto quando si esplorano anche le diverse e divertenti varianti comprese nel saggio che tendono a precisare lo scenario e a prevenire le diverse scappatoie morali che l’interlocutore cerca di mettere rapidamente in atto per “evitare” di uccidere l’uomo grasso!
Mentre per i filosofi l’argomento appare così appassionante da aver dato origine a una vera e propria branca della filosofia morale chiamata, appunto, “Trolleyology” (da “Trolley” = Vagone o Carrello), per le persone comuni, lo scenario appare un po’ per quel che è, cioè una forzatura un po’ troppo assurda o, al più, una storiella accattivante buona per movimentare la conversazione di una serata fra amici.
Ciò non toglie nulla alla bellezza di questo saggio che, nello svolgere le sue tesi, non solo riprende le diverse posizioni filosofiche sull’argomento, aggiungendo anche qualche considerazione in base ai risultati ottenuti dagli studi delle ormai sempre presenti neuroscienze ma che, soprattutto, riporta qualche caso storico nel quale il dilemma del “Male Minore” ha dovuto effettivamente essere soppesato nelle scelte operate da chi doveva prendere delle decisioni che implicassero il bene di alcuni a scapito di altri.
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A titolo di piccola curiosità, per chi volesse riflettere su qualche altro caso reale, posso segnalarne uno che, personalmente, ho trovato molto interessante. Potete trovare una descrizione di questo fatto in un libro che ho molto apprezzato: “Giustizia, il nostro bene comune” di Michael Sandel (ISBN 978-88-07-10454-1), l’episodio è riportato nel capitolo “I caprai afghani”. Da questa vicenda è stato recentemente tratto anche un film: “Lone Survivor” (2013) che, purtroppo, lascia spazio solo all’azione e nulla lascia trapelare del dilemma morale e del caso umano che l’ha reso famoso.
La storia in breve è la seguente:
Nel giugno 2005 una piccola squadra delle forze speciali della marina USA s’infiltra in territorio afghano con l’intento di localizzare un capo talebano e il suo gruppo costituito da un centinaio di combattenti. Durante l’operazione i militari vengono casualmente in contatto con alcuni caprai del luogo che sono rapidamente catturati. Gli afghani sono civili disarmati e vengono resi completamente innocui, ma gli incursori non hanno la possibilità di immobilizzarli (sono privi di corde o manette) per un tempo sufficiente a cambiare posizione e far perdere le loro tracce. Lasciandoli liberi i militari si esporrebbero al rischio che i civili segnalino la loro presenza ai guerriglieri talebani. Nasce una discussione fra gli elementi della squadra, qualcuno suggerisce di eliminare i pastori inermi ma il caposquadra Martin Luttrell si oppone e, alla fine, i civili sono liberati.
La storia purtroppo non ha un lieto fine. Poco tempo dopo aver liberato i pastori, il piccolo gruppo si trova braccato da una nutrita schiera di guerriglieri talebani. La maggior parte dei fanti di marina perde la vita nello scontro e anche fra i soccorritori, arrivati nel frattempo, si registrano perdite consistenti.
 Martin Luttrell sopravvivrà al combattimento e scriverà una biografia dove, secondo quanto riportato sul saggio di Sandel, affermerà essersi pentito della decisione presa di liberare i civili anziché procedere a sopprimerli.
Questo è un finale che lascia nell’inquietudine ma che, personalmente, riesco ben a comprendere e, nel frattempo mi rifiuto di giudicare e stigmatizzare.
Tutto ciò, in effetti, appare molto più tragico, più pregnante e meno salottiero rispetto alle storie di scambi da azionare, botole da aprire e spinte da assestare che attengono ai diversi scenari di ’“Uccideresti l’Uomo Grasso”!

Recensione: Ciulla, Il Grande Malfattore


“Ciulla, Il Grande Malfattore”, di Dario Fo e Piero Sciotto, edizioni Ugo Guanda Editore in Parma, ISBN: 978-88-235-0952-8.
I due Autori ricostruiscono la storia di Paolo Ciulla, anarchico omosessuale nato a Caltagirone nel 1867. Egli, dopo una vita da inquieto giramondo spesa a cercare di dimostrare le proprie abilità artistiche e a sfuggire ai pregiudizi del tempo, finirà per acquisire fama e pubblico riconoscimento durante il processo intentatogli nel 1922 e che lo vide imputato e condannato come falsario.
Paolo Ciulla, del quale non si conserva oggigiorno che un solo disegno e che, secondo i contemporanei, sarebbe dovuto essere riconosciuto come uno dei migliori artisti del tempo, riusciva a produrre biglietti falsi che nemmeno i periti della Banca d’Italia riuscivano a rilevare come tali!
Il libro è bello, scorrevole e divertente senza essere però un capolavoro. Probabilmente gli Autori hanno dovuto inventare e immaginare molto di un personaggio riguardo al quale, in fondo, rimangono poche testimonianze e fonti documentali.
Quello che, personalmente, ho apprezzato è la lezione di storia e di morale che gli Autori impartiscono parallelamente alla ricostruzione della vita del protagonista. Mentre, infatti, si svolge la storia di Paolo Ciulla e si narra del suo impegno artistico e sociale, e, pure delle sue non poche stramberie, scorrono le malefatte dei nostri “padri della patria”. Sono gli anni della bolla edilizia di Roma Capitale (non vi fa venire in mente nulla riferito ai giorni nostri?) e dello scandalo della Banca Romana, istituto abilitato a emettere carta moneta e che, per ironia della sorte, vista la professione del protagonista di questo libro, emise denaro falsificato per coprire le ingenti perdite derivanti dall’esplosione della bolla immobiliare. Sono anche gli anni della guerra doganale con la Francia, dell’infinita crisi economica e dell’immigrazione massiccia, della sconfitta di Adua e della repressione del movimento anarchico e delle agitazioni operaie e contadine, a cominciare da quella dei Fasci siciliani (1891-1894) che vide anche Ciulla fra i coinvolti, per finire alla nota ed efferata repressione dei moti di Milano, stroncati dal generale Bava Beccaris.
Per i nostalgici dei “Bei tempi andati” arriva quindi dagli Autori un messaggio amaro che non potrebbe essere più chiaro: In Italia, rispetto al modo di agire dei nostri politici e governanti, nulla è cambiato dall’Unità ai giorni nostri e Ciulla, con le sue perfette imitazioni dei biglietti da 500 lire (circa 750 euro di oggi!) è solo una scusa per ricordarcelo.

martedì 9 dicembre 2014

Cittadinanza e Valori: Qualche spunto di riflessione


I fatti riguardano una famiglia Anglo –Pakistana; il padre è nato a Newcastle da genitori pakistani e i figli sono nati tutti in Inghilterra. Tutti quanti hanno dunque una doppia cittadinanza: inglese e pakistana. La famiglia, da due anni in Pakistan, è in odore di terrorismo e uno dei componenti, una ragazza di circa vent’anni, ha appena raggiunto il marito in Siria per combattere la Jihad.
Il Governo inglese, nel timore di attentati terroristici ha revocato la cittadinanza a tutti i membri della famiglia ad eccezione della madre e di un figlio portatore di handicap. Io mi chiedo: “E’ giusto tutto ciò?”.
E’ bene premettere che, innanzi tutto, si tratta di un provvedimento previsto dalle leggi inglesi e, pertanto, legittimo. Lo stato britannico ha infatti la facoltà di revocare la cittadinanza nel caso di minacce alla sicurezza nazionale; mi domando però se una tale norma debba essere considerata etica, soprattutto, nel momento in cui si applichi a soggetti che hanno acquisito la cittadinanza in base allo “jus soli” e, ancora di più, che abbiano tale status da più generazioni. Quante generazioni ci vogliono per essere considerato veramente inglese (o italiano)? E, pertanto per essere trattato come un semplice delinquente (seppur altamente pericoloso) e non come uno straniero? La cittadinanza è un diritto acquisto, un dovere o una semplice “qualità” dell’individuo? E poi, altre domande … cosa sarebbe successo se i soggetti implicati non avessero avuto anche la cittadinanza pakistana? E se fossero proprio stati inglesi da generazioni? Magari biondi, anglicani da sempre e poi “fulminati” recentemente da una conversione all’Islam (ci sono anche neoconvertiti “europeissimi” nelle file dell’ISIS!)? Quali sono i precedenti storici (purtroppo ci sono!) in cui dei soggetti sono stati costretti ad assumere lo status di apolidi? Dove ha portato questa politica?
Sono interrogativi nei confronti dei quali, sinceramente, non penso di avere ancora né risposte definitive né tantomeno idee chiare. E’ difficile, infatti, bilanciare ragione, rabbia, paura, orgoglio nazionale, senso di appartenenza, spirito di accoglienza, rispetto della libertà individuale, ma anche senso del dovere, fedeltà allo Stato e lealtà verso i propri concittadini.
Questi fatti però devono fare riflettere perché, forse è giunto finalmente il momento di domandarci seriamente chi siamo e cosa vogliamo dalla nostra cultura che, penso si possa tranquillamente definire con orgoglio come “europea”. Se però vogliamo anche definire i nostri valori come “superiori” e non semplicemente come “diversi” rispetto ad altri, abbiamo la responsabilità di dare risposte ponderate a domande difficili in modo che esse siano adeguate a questi obiettivi ambiziosi in termini di esempio e di civiltà.

lunedì 8 dicembre 2014

Recensione: Congo


“Congo”, titolo originale: “Congo Een Geschiedenis”, di David Van Reybrouck, traduzione di Franco Paris, edizioni Feltrinelli, ISBN: 978-88-07-49177-1.
Un libro semplicemente bellissimo, che riassume la storia della Repubblica Democratica del Congo dai rapporti con i primi esploratori, missionari e coloni portoghesi nel XV secolo per arrivare fino ai giorni nostri.
Ci sono moltissimi aspetti per i quali io penso che questo saggio sia veramente eccezionale e che lo fanno primeggiare fra un genere di letteratura che, normalmente è già di per sé, di buon livello e si caratterizza per la serietà e la precisione degli autori. “Congo” è ben documentato e questo, è di per sé una specie di “minimo sindacale” per opere di questo genere; è anche scritto molto bene, lo stile e scorrevole e avvincente, in linea con la storia esotica, caotica e altalenante di questo immenso crocevia di uomini, acque e natura selvaggia. Ma la cosa che più mi ha colpito è che l’Autore è riuscito a fare della ricerca sul campo la protagonista assoluta di questo racconto dove ogni capitolo si dispiega sempre dalle interviste ai protagonisti, soggetti di tutte le età ed estrazione sociale. Il protagonista di questo racconto è dunque l’uomo con i suoi ricordi e le sue vicissitudini personali.
La storia comincia da Nkasi, un congolese nato nel 1882 (!!!) e che, ancora nel 2008, a più di 120 anni, ha la lucidità di riportare in vita, attraverso i suoi ricordi, il Congo delle origini; quello che rimane nel nostro immaginario attraverso i racconti di Stanley, che parla d’indigeni seminudi, della tratta degli schiavi e della prima penetrazione all’interno del bacino idrografico ad opera di missionari e trafficanti di avorio, degli intrallazzi di re Leopoldo del Belgio volti ad appropriarsi di un territorio immenso, grande quanto un continente.
 Seguono gli anni dello Stato Libero del Congo (1885-1908), proprietà personale del re, in quegli anni cominciano a sorgere i primi centri abitati, embrioni delle attuali metropoli e vengono costruite le prime infrastrutture, ad esempio la ferrovia che collegherà Kinshasa (allora Léopoldville) alla costa. E’ anche il periodo dello sfruttamento della popolazione finalizzato alla ricerca della gomma; rimarranno tracce profonde di questa fase estremamente dispotica e violenta non solo nella memoria storica e collettiva della popolazione, ma anche nella letteratura, ad esempio attraverso un capolavoro come “Cuore di tenebra” di Josef Conrad.
Nel 1908 la casa regnante del Belgio è costretta a cedere il controllo di questo immenso territorio che, fino allora, aveva retto come una compagnia privata e forse anche come una proprietà feudale. Si passa al dominio coloniale belga (Congo Belga 1908-1960) che vede l’instaurarsi di un regime paternalistico apportatore sì di sviluppo, ma anche di sfruttamento e che, soprattutto, istituzionalizzerà forme di segregazione e distinzioni etniche del tutto artificiose creando così i presupposti per le divisioni e i contrasti che ancora affliggono ai giorni nostri questa nazione sterminata. Emergono fatti a me sconosciuti e storie meravigliose, come quella di Simon Kimbangu (1889 -1951) che fondò il Kimbanguismo, una forma di cristianesimo autoctono che oggi conta circa diciassette milioni di fedeli (fonte wikipedia); oppure il racconto delle epiche quanto sconosciute gesta della “Force pubblique” che, attraverso ben due guerre mondiali combattute da vincitori (ben diversamente dal destino incontrato dalla madrepatria!), catapulterà molti congolesi fuori dal Paese, sui campi di battaglia europei e fino all’altro capo del Mondo, nel folto della giungla birmana. Da questa scuola usciranno alcuni dei protagonisti della storia del Paese a cominciare da quel Mobutu Sese Seko (1930 – 1997) che, a partire dal 1965 e fino al 1997 reggerà le sorti dello Stato congolese (lo Zaire).
Giunge infine l’agognata indipendenza (30 giugno 1960), troppo presto per trasmettere senza traumi il potere a un’elite locale che il colpevole paternalismo belga non è riuscito nel frattempo a preparare adeguatamente.  Scoppia il caos, e il prevalere degli interessi personali e le interferenze internazionali, tese ad appropriarsi delle immense ricchezze minerarie del Paese, porteranno alla guerra civile e alla frammentazione dello Stato. Sono gli anni della secessione del Katanga, promossa dalle mire personali di Moise Tshombé (1919 – 1969) e appoggiata dalla potenza economica delle Union Minière.
Nel 1965 Mobutu Sese Seko prende il potere e, almeno inizialmente riporta ordine e sviluppo imponendo al Paese un nuovo nome, “Zaire” (1965 – 1996) e un nuovo programma culturale teso a plasmarlo e amalgamarlo. La dittatura finisce, però, per degenerare in forme ineguagliate di corruzione, nepotismo e di malgoverno. La caduta del muro di Berlino e la fine della Guerra Fredda cambiano gli equilibri strategici mentre le conseguenze del genocidio ruandese (1994) finiscono per mettere in crisi i precari equilibri etnici del grande ma ormai fragile vicino. Scoppia la prima Guerra Congolese (1996 – 1997) che vede coinvolti una galassia di milizie reclutate su base tribale, supportate attivamente dall’ingerenza di Ruanda, Burundi, Uganda e Angola; il conflitto segna la fine del presidente Mobutu e l’ascesa di Laurent-Désiré Kabila (1939 – 2001) che presto finirà assassinato e lascerà il potere al figlio Joseph Kabila. Questo non risolve i problemi, da li a poco esplode il secondo conflitto congolese (1998 – 2003) al quale seguirà il conflitto del Kivu, ufficialmente conclusosi fra il 2008 e il 2009 ma di fatto ancora in atto. Il numero di vittime di questi conflitti fa delle guerre congolesi il terzo conflitto più sanguinoso dell’umanità dopo le due Guerre Mondiali.
Ci vorrebbero pagine e pagine per raccontare la storia di questo ricco e martoriato Paese e, infatti, l’Autore né ha scritte ben 650; che scorrono rapide come quelle di un bel romanzo e impetuose come le acque dell’omologo fiume.

mercoledì 12 novembre 2014

Ferrovie dello Stato: TAV, incertezza sui costi e i ricavi ... Qualche dubbio, finalmente!?


Oggi sulla Stampa è apparsa questa notizia:
 che, se non altro, sembra finalmente far palesare un possibile “happy ending” o quanto meno, qualche tipo di ripensamento, alla nostra personale versione della favola dei “Vestiti nuovi dell’Imperatore” (http://it.wikipedia.org/wiki/I_vestiti_nuovi_dell'imperatore), nella quale,  tutte le istituzioni vanno avanti, apparentemente senza alcuna incertezza, lungo una china che sembra non tener conto di alcun contesto oggettivo né dei dubbi che stanno emergendo da più parti, né dei cambiamenti economici avvenuti negli ultimi decenni.
Dunque, finalmente una crepa in quella che, fino a ieri appariva come una granitica facciata di stolidità; qualcuno di “istituzionale” finalmente si chiede: “Converrà?”.
A questo punto, sarebbe meglio che, anch’io mi qualifichi ideologicamente: Io non sono un NOTAV, anzi, sono un PROTAV (tiepido, a dire il vero!) e, in questo momento scrivo dal TGV in viaggio fra Torino P.Susa (partenza delle 7.39) con destinazione, mia e del treno, Gare de Lyon – Paris. Faccio questo viaggio spesso e, vorrei tanto che durasse un paio di ore di meno! Da qui la mia filia  nei confronti dell’alta velocità (passeggeri).
Personalmente, penso che per maturare un giudizio riguardo all’opportunità di quest’opera bisognerebbe prendere in considerazione elementi diversi che, ho il dubbio, non siano stati sufficientemente valutati in passato, posto che, negli ultimi vent’anni gli scenari si sono modificati sensibilmente. innanzi tutto, quindi, facciamoci qualche domanda che, ha senso porsi al di là delle problematiche sociali, culturali e ambientali che quest’opera pone in Val di Susa (e che sarebbero comunque da valutare attentamente):
1)      Quando parliamo di TAV parliamo di mobilità merci e persone, oppure solo della prima o della seconda? Ha senso comunque far viaggiare le merci a 300 km orari? Quali merci richiedono tali velocità di spostamento? (I gelati!? :-)).

2)      Siamo sicuri poi che, almeno per il tratto italiano sia proprio necessaria l’alta velocità con una linea dedicata invece che, non sia sufficiente la sola cosiddetta “Velocità Alta”, dove si definisce quest’ultima come linea tradizionale dove i treni AV possano viaggiare a velocità sostenuta (almeno  160 km orari)?
 
Comincio intanto a dire la mia sull’opera in sé.

Mi hanno insegnato in “Geografia Economica” che connettere due punti (città, regioni, paesi …) alla lunga crea ricchezza; in sintesi, costruire infrastrutture “paga”. Personalmente ci credo! Sembra una specie di dogma, ma l’esperienza passata dimostra, in linea di principio, che è proprio così! E’ stato così per la ferrovia intercontinentale che ha collegato la costa Ovest a quella Est degli USA, per la Transiberiana, per l’Eurotunnel e …, per il traforo del Frejus che il buon Camillo Benso Conte di Cavour ha voluto, fra le tante polemiche, e che non si può negare sia stato utile. 

Dunque, cominciamo a dire che fare e/o migliorare infrastrutture in luoghi opportuni, in linea di principio è utile (ai più, non a tutti, ovviamente!), semmai, il problema è valutare cosa e quanto cambiare o migliorare quando si abbiano già tali infrastrutture e ti tocca prendere in considerazione uno scenario di costi benefici che tenga presente contesti un po’ più complicati delle sterminate e relativamente spopolate pianure dell’Ovest americano o le lande ghiacciate della Siberia Orientale(tra l’altro, come sanno quelli un po’ informati, anche quelle non furono passeggiate senza problemi e prive di “perdite collaterali” in termine di capitale economico e umano!). 

Passiamo a questo punto ad analizzare alcuni aspetti critici legati in specifico all’alta velocità merci (il cuore del progetto), premettendo che non sono un tecnico e, pertanto potrei sbagliarmi.

Da quanto ne so io (leggete ad esempio: "Binario Morto: Lisbona – Kiev, alla scoperta del corridoio 5 e dell’alta velocità che non c’è”, di Andrea De Benedetti e Luca Rastello, edizioni Chiarelettere, ISBN: 978-88-6190-375-3), l’AV merci è semplicemente una chimera, ma in questo caso, sarebbe meglio definirla meno nobilmente come una “bufala” pazzesca. Ad esempio, parrebbe che sopra velocità tutto sommato assai modeste (circa 70 – 80 km/h) l’usura del materiale ferroviario renderebbe questo metodo di trasporto assolutamente antieconomico. Sarà vero? Non sono in grado personalmente né di confermarlo né di smentirlo, ma, mi piacerebbe sinceramente che dei tecnici delle ferrovie si esprimessero chiaramente su questo punto! Dicendo: “State cheti! Possiamo tranquillamente portarvi le vostre fragole spagnole a 500 km/h abbattendo persino i costi di trasporto!”. Alla parola “abbattendo persino i costi di trasporto” tacerei di colpo, anche se, sotto sotto, continuerei a nutrire qualche dubbio sui costi (economici, sociali e ambientali), il merito e l’opportunità di battere il record di velocità di consegna della fragola iberica che, insieme al tarocco siciliano giunge da tempo sulle nostre tavole a costi accettabili e in tempi sopportabili; in sintesi, temo che continuerei a chiedermi ancora cosa vale veramente la pena di trasportare così velocemente fino a Kiev! Ma pazienza! 

Per la velocità passeggeri (che continuo a non capire se sia effettivamente prevista!) invece, sarei un fan sfegatato, non fosse per altro che devo farmi Torino – Parigi almeno un paio di volte al mese se non di più! Questo, potrebbe sembrare, a prima vista, puro egoismo, vorrei però che i miei possibili critici valutassero i benefici che l’AV passeggeri ha portato in altri luoghi, in particolare la Francia e la Spagna, ma anche nella stessa Italia, come potranno testimoniare coloro che viaggiano spesso fra Torino e Milano (io!) e fra Milano e Roma.

Tornando alla Milano – Parigi passeggeri, però, posto di volerla fare, forse si potrebbe prendere in considerazione una linea mista che preveda l’AV Milano – Torino che c’è già (attualmente il TGV percorre la linea tradizionale il che già comporta almeno 40 min di ritardo rispetto alla AV TO-MI) e  che, a partire da Torino si immetta in una linea ammodernata/nuova/potenziata di “velocità decente” (la definiamo così!?) che, a sua volta, entri su una linea AV a partire dal suolo francese che permetta la velocità “smodata” (citazione dal film “Balle Spaziali”). Già solo questo, penso, farebbe risparmiare almeno un paio d’ore (sulle più di 6 necessarie oggigiorno) il che sarebbe, a pare mio, già un risultato accettabile e che, magari, può essere ottenuto  a costi non enormi e magari persino senza necessariamente sventrare un’intera vallata. E’ ovvio che questo è un semplice suggerimento, non so se quest’ipotesi è mai stata presa seriamente in considerazione in una delle tante varianti del progetto e non so nemmeno se essa sarebbe realizzabile perché, l’ho premesso, non sono un tecnico ma solo un pendolare (per definizione, quindi, “persona informata sui fatti” :-)). Aggiungo però che, in linea di principio, se questa ipotesi fosse percorribile a costi accettabili,  non penso che ci sarebbero poi grossi problemi a far viaggiare su di essa anche camion e merci. 

In sintesi, sarebbe bene fermarsi a ripensare un po’ al progetto che,  forse, è da rivedere profondamente (io personalmente, non penso che sia, invece, da abbandonare) nei suoi obiettivi, nelle sue priorità e nelle sue modalità di realizzazione. Nel frattempo, sarebbe anche opportuno smettere di prendere a manganellate i valligiani, quest’atteggiamento, infatti,  potrebbe anche essere cinicamente necessario nel momento in cui si è assolutamente convinti della bontà del progetto, ma non è né utile né giustificabili nel momento in cui emergono dubbi da ogni parte e, per giunta, anche dagli “addetti ai lavori”.

 

domenica 9 novembre 2014

Recensione: Perché abbiamo bisogno dell’Anima


“Perché abbiamo bisogno dell’Anima”, di Paolo Legrenzi e Carlo Umiltà, edizioni Il Mulino, ISBN: 978-88-15-25259-0.
Si tratta di un breve ma interessante saggio riguardante un tema che ormai sembra piuttosto di moda, quello delle neuroscienze. Contrariamente a quanto potrebbe lasciare intendere il titolo assai fuorviante, non si tratta di un’opera che prende seriamente le difese del cosiddetto “Dualismo”, l’interpretazione filosofica e scientifica che, partendo dalle considerazioni del filosofo e matematico Cartesio e sulla scia di una corrente di pensiero che può essere fatta risalire fino a Platone e Aristotele, prevede una separazione fra i concetti di “io”, “mente” e “coscienza” (l’anima?) da una parte e quello di “cervello” dall’altra, che, come organo fisico, rimarrebbe l’unico ambito accessibile a uno studio scientifico. Gli Autori, invece, si dichiarano comunque “Riduzionisti”, cioè seguaci di quella corrente scientifica ormai prevalente che, all’opposto e in sintesi, riconduce il “sé” e le manifestazioni profonde a esso legate, all’evoluzione e all’attività della nostra “rete” neurale.
Quello che distingue, però, l’approccio di questi Autori da altri che si sono cimentati sull’argomento è l’esibizione di una certa cautela riguardo alla portata di alcuni risultati conseguiti dagli studi delle neuroscienze negli ultimi decenni e che, tra l’altro, hanno contribuito in modo rilevante all’affermazione della corrente “Riduzionista” anche al di fuori dall’ambiente strettamente scientifico. L’evoluzione tecnologica degli ultimi vent’anni ha permesso di migliorare notevolmente i metodi d’indagine riguardanti le risposte cerebrali in funzione di particolari stimoli indotti e a determinare più precisamente le aree associate a una certa specializzazione e attività. Queste tecniche, soprattutto quelle legate alle elaborazioni delle neuro immagini, hanno assunto una certa notorietà suscitando non poche aspettative, ma, secondo gli Autori, non hanno modificato significativamente un quadro di conoscenze che, per lo più, era già noto almeno dalla seconda metà del ventesimo secolo. Anche per essi è chiaro che le tecniche basate sullo studio delle neuro immagini siano appena agli inizi e, pertanto, molte nuove scoperte potranno ancora seguire; ma nonostante ciò, essi s’impegnano a raffreddare un po’ le eccessive attese riguardo alla portata generale dei risultati che possono scaturire dall’approccio del cosiddetto “Localismo” (lo studio finalizzato alla precisa determinazione delle aree cerebrali e della loro funzionalità). Per gli Autori, gli studi inerenti alla localizzazione, sono si utili a determinare com’è “organizzato” il cervello ma, in fondo, queste metodologie non sembrano essere poi così decisive al fine di fornire spiegazioni riguardo al “come” e al “perché” quest’organo funzioni in un certo modo.
In particolare, le attuali conoscenze riguardo al funzionamento “meccanico” del cervello non riescono ancora a spiegare il perché, nella pratica, le persone continuino a conformarsi a un “Dualismo” di fatto attribuendo categorie comportamentali molto generiche e comportamenti intenzionali non solo agli uomini ma anche agli altri esseri viventi e persino agli stessi oggetti inanimati (come hanno dimostrato gli esperimenti di F. Heider e M. Simmel già nel 1946). Per altro, si tende ormai a riconoscere che questa nostra caratteristica mentale, seppur possa portare a seri errori di valutazione e possa alimentare i cosiddetti “pregiudizi”, sia ben lungi dall’essere una semplice forma d’illusione o autoinganno, ma sembra invece spiegarsi attraverso una precisa strategia evolutiva finalizzata alla semplificazione della realtà osservabile tesa a facilitare l’analisi del proprio comportamento e di quello altrui.

giovedì 30 ottobre 2014

Recensione: '14


“’14”; titolo originale: ”14”; di Jean Echenoz, traduzione di Giorgio Pinotti, edizioni Adelphi, ISBN: 978-88-459-2926-7.
Il romanzo ha come protagonista il giovane Anthime, soggetto che definire “Insignificante” è dir poco! Egli, insieme al fratello Charles e ad alcuni compaesani: Padioleau, Bossis e Arcenel, altrettanto poco definiti se non per il loro sommario aspetto fisico e professione, sono mobilitati insieme fin nelle primissime fasi della Grande Guerra. Tre di essi perderanno la vita durante il conflitto, mentre il protagonista e Padioleau torneranno dal fronte resi ormai invalidi; il primo mutilato del braccio destro, il secondo accecato dai gas.
Tutto questo condensato in 110 pagine di “nulla” è descritto attraverso uno stile piatto che a me è apparso totalmente surreale. Forse l’Autore si poneva proprio l’obiettivo di descrivere in soggettiva lo stupore quasi catatonico che il protagonista prova nell’essere coinvolto in un evento apocalittico come fu la Prima Guerra Mondiale: l’euforia dei primi giorni al pensiero di partecipare alla “Storia” come in una specie di gita scolastica, l’impatto destabilizzante con l’orrore della guerra di trincea, l’assurda, caotica confusione della battaglia, l’assuefazione al truce, al grottesco, al fango e alla morte …
Tutto forse troppo sofisticato per il sottoscritto!

giovedì 23 ottobre 2014

Recensione: Strumenti per Pensare


“Strumenti per Pensare”; titolo originale ”Intuition Pumps and Other Tools for Thinking”; di Daniel C. Dennet, traduzione di Simonetta Frediani, edizioni Raffaello Cortina, ISBN: 978-88-6030-654-8.
L’Autore, un filosofo che, attualmente, dirige il Center of Cognitive Studies presso la Tufts University (Medford – USA) dimostra chiaramente di possedere un’affilatissima e allenata capacità logica e metodologica per “indagare”, termine inteso nella sua più ampia accezione.
In questo bel saggio, egli affronta il tema del “pensare” in termini sia generali sia pratici, mescolando l’illustrazione di metodi d’indagine utilizzabili alla stregua di una “cassetta per gli attrezzi” a disposizione dei pensatori, a soggetti più generali più strettamente scientifici o maggiormente orientati verso un approccio filosofico (o persino teologico) e riguardanti il funzionamento del cervello, l’origine della mente e della coscienza, il tema del libero arbitrio e l’evoluzionismo.
Il risultato è un’opera notevole che illustra alcune “regole” di base, ad esempio, quella di “Rapoport”, o la “Legge di Sturgeon” (tanto ironica quanto “vera”) o, ancora il cosiddetto “Rasoio di Occam” (corredato dalla sua “Scopa” rilevata in tempi più recenti!). A queste, l’Autore aggiunge quelle che definisce come “Pompe d’intuizione”, in sintesi, una raccolta di storie, scenari e riduzioni “ad absurdum” che si rivelano utili per svelare i percorsi e/o le debolezze logiche che sottendono certi tipi di ragionamento e, alle quali si contrappongono le insidiosissime “stampelle esplosive”, “attrezzi” del pensiero e strumenti fuorvianti; di fatto, delle pompe d’intuizione mal calibrate e mal progettate che tendono a portarci fuori strada.
Scendendo nei particolari, ammetto di essere rimasto incantato da certi ragionamenti collegati al tema dell’evoluzione umana e, in particolare, legati al funzionamento del cervello e della mente e che, chiaramente, si ricollegano all’attuale corrente del “Riduzionismo” (In sintesi la teoria che riconduce mente e coscienza al funzionamento dell’”apparato” cerebrale). In particolare, ho trovato molto efficace e interessante una parte del testo che ricorda al lettore il funzionamento “computazionale” della macchina di Turing (il computer!) e della più misteriosa “Macchina a Registri” e alcune pompe d’intuizione collegate a questi temi.
Ammetto anche, però, di essermi perso in tante parti di questo saggio! Sì, perché se proprio si vuole trovare un grosso difetto in quest’opera di Dennet, questo risiede nella difficoltà che trova un lettore “normale” a mantenere la concentrazione e il filo del discorso. Molto diversamente da una lettura “da ombrellone”, infatti, questo libro richiede attenzione!

martedì 21 ottobre 2014

Recensione: Mentre il Mondo Stava a Guardare


“Mentre il Mondo Stava a Guardare”, di Silvana Arbia, edizioni Mondadori, ISBN: 978-88-04-61296-4.
L’Autore di questo libro è una giurista italiana che, ricopre dal 2008 l'incarico di cancelliere della Corte Penale Internazionale (fonte wikipedia).
I fatti narrati in questo saggio riguardano però la sua esperienza presso il Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda, iniziata nel 1999 dove, (fonte Wikipedia) prima  in funzione di, Senior Trial Attorney, poi Acting Chief of Prosecutions e, infine Chief of Prosecutions, ha guidato l'accusa in numerosi casi trattati dal tribunale tra cui:
Muvunyi Case (fonte Wikipedia): preparazione del processo contro Tharcisse Muvunyi, comandante militare dichiarato colpevole d’istigazione diretta e pubblica al genocidio.
Butare Case (fonte Wikipedia): persecuzione di sei accusati di genocidio e crimini contro l'umanità, inclusa il Ministro della Famiglia e della Promozione Femminile Pauline Nyiramasuhuko, condannata successivamente all'ergastolo dopo essere stata ritenuta colpevole di cospirazione a commettere genocidio e genocidio, nonché di crimini contro l'umanità (nella fattispecie, sterminio, stupro commesso da altri sotto la sua autorità e persecuzione) e crimini di guerra.
Seromba Case (fonte Wikipedia): Athanase Seromba, sacerdote cattolico, responsabile della parrocchia di Nyange nella prefettura di Kibuye durante i giorni del genocidio, fu condannato all'ergastolo nel 2008; è stato accertato che tra il 12 ed il 16 aprile del 1994 aveva aiutato ed incoraggiato uccisioni di massa e gravi attentati all'integrità fisica e morale dei tutsi che si erano rifugiati nella sua chiesa, rendendosi colpevole di genocidio e sterminio quale crimine contro l'umanità.
L’Autore si trova quindi nel ruolo e nel posto giusto per raccontare in prima persona i fatti del genocidio ruandese avvenuto nel 1994, che contrappose l’etnia maggioritaria degli Hutu a quella minoritaria dei Tutsi e che, durante un periodo di circa cento giorni, costò la vita a un numero di esseri umani stimato fra i 500.000 e 1.000.000 (su una popolazione totale di circa 6.000.000 di abitanti!).
Il libro riporta la storia personale dell’Autore e descrive le molte difficoltà di ordine pratico, logistico, fisico e psicologico che si sono dovute superare per assicurare almeno parte dei responsabili alla giustizia. Se quindi, da un punto di vista umano quest’opera fornisce elementi e spunti di riflessione validi e importanti, su un piano più scientifico esso finisce per risultare deludente, infatti, l’Autore evita quasi del tutto di sviluppare e ricostruire la dinamica degli eventi e le cause storiche, sociali ed etniche del conflitto. Infine, anche la situazione politica risulta appena abbozzato, mentre neanche sono citati alcuni aspetti molto criticati del tardivo intervento esterno, in particolare il bilancio assai ambiguo in termini di risultati dell’operazione “Turquoise”, portata a termine da un contingente francese sotto mandato ONU. Anche le conseguenze a breve termine del conflitto ruandese non vengono prese in considerazione. Ricordo a questo proposito che la crisi del Ruanda sarà una delle cause destabilizzanti che porteranno allo scoppio della cosiddetta “Prima guerra del Congo” (1996-1997), la quale a sua volta condurrà alla “Seconda” (ufficialmente cessata nel 2003); il bilancio in termini di vittime di entrambi i conflitti è dell’ordine di milioni di vittime fra la popolazione civile e, ancora adesso l’intera area del bacino del Congo è caratterizzato da una forte instabilità politica.   

mercoledì 8 ottobre 2014

Lotta alla disoccupazione e nuovi contratti di lavoro: Una bella proposta da parte della fondazione David Hume


Oggi sul quotidiano La Stampa è uscito un articolo del giornalista Luca Ricolfi che sintetizza uno studio della fondazione David Hume. Riporto qui di seguito il link alla pagina internet: http://www.lastampa.it/2014/10/08/economia/lavoro-la-proposta-della-fondazione-hume-con-il-jobitalia-mila-posti-in-pi-OfZGnvDbS7uu9koE7Wj3yH/pagina.html
In sintesi, l’articolo espone i risultati di una proposta già fatta in primavera attraverso le pagine del medesimo quotidiano e che si pone l’obiettivo di incoraggiare l’assunzione di lavoratori presso quelle aziende che già sarebbero intenzionate ad aumentare gli organici (pare che ne esistano ancora!). Secondo i ricercatori, una strada promettente per ottenere risultati efficaci sarebbe quella di creare una nuova tipologia contrattuale che, per un certo numero di anni (quattro) permetterebbe alle aziende di ridurre notevolmente il costo del lavoro attraverso una drastica riduzione dei contributi a carico del datore di lavoro e incidendo, pertanto, sul cosiddetto “cuneo fiscale”.  Un aspetto interessante di tutto lo studio riguarda anche un’analisi dei possibili effetti reali di tale riforma sui conti pubblici; in questo caso, l’elemento sorprendente che sembra emergere chiaramente dai risultati dei sondaggi effettuati è che, non solo tale riforma rischierebbe di non avere impatti significativamente negativi su tali conti ma, al contrario, il risultato netto potrebbe essere di segno opposto, il che permetterebbe di raggiungere un duplice risultato: ridurre la disoccupazione (a fronte di posti di lavoro “utili” e “reali”) e, incredibile ma vero! Produrre un effetto positivo sul fronte delle entrate tributarie. Questo secondo risultato che, se non spiegato, apparirebbe sospetto o quantomeno miracoloso, scaturirebbe dal confronto fra le minori entrate dovute alla riduzione degli oneri di contribuzione a carico del datore di lavoro e i maggiori incassi dell’erario a fronte dell’aumento dei redditi da lavoro, IVA, ecc.

Non nascondo che sono molto contento dei risultati di questo studio che mi trova completamente d’accordo riguardo alle modalità attraverso le quali cominciare ad affrontare il problema della disoccupazione e della ripresa.

lunedì 6 ottobre 2014

Riforma del TFR, parliamone un po'!

Come altri aspetti legati alla riforma del lavoro in corso di definizione in Italia, anche la discussione che si sta svolgendo riguardo alla possibilità di incassare anzitempo il TFR mi lascia perplesso. Effettivamente, visti i tempi che corrono, non è facile immaginare cosa sarebbe meglio augurarsi!

Il TFR è sempre stato una forma di risparmio forzoso abbastanza apprezzata dai lavoratori; all’origine, poteva essere incassato nel momento in cui si cambiava lavoro o in presenza di alcuni eventi particolari ben specifici (es. acquisto della prima casa, gravi malattie, ecc.) ma la sua ragione principale era quella di costituire un piccolo (o grande) “gruzzoletto” in forma di capitale che poi il neopensionato, che si supponeva ancora essere abbastanza giovane (allora si andava in pensione mediamente prima dei sessant’anni!), poteva impiegare per il suo “buen retiro”, magari per comprarsi la casetta al mare o in campagna o per aiutare i figli, a loro volta, a mettere su casa. Nel corso del tempo lo strumento è stato rimaneggiato, ma è rimasto tale nella sostanza, nel frattempo, però è cambiato radicalmente il contesto. In primo luogo non si va più in pensione “giovani” (al limite si prospetta per molti in futuro un periodo più o meno lungo da “esodati”) e, di conseguenza, calano le prospettive per una “seconda giovinezza” passata a zappare l’orto in campagna o a fare passeggiate sul lungo mare in riviera. Ben peggio, da qualche tempo intorno al TFR svolazzano avvoltoi e corvacci neri che pensano di attingere al gruzzoletto per risolvere i loro problemi contingenti; ad esempio, non è passato molto tempo da quando s’ipotizzava di trasformare la liquidazione in una rendita periodica per rimpinguare quello che si prospettava essere un assegno pensionistico assai “magro” eliminando di conseguenza la corresponsione del capitale che, invece, è sempre stata la vera caratteristica positiva del TFR.
Vediamo quindi, in maniera disincantata quali potrebbero essere le ragioni pro o contro l’incasso immediato:

In Italia, il primo pensiero va sempre e subito alla “fiducia” (o meglio “sfiducia” nel nostro caso!) nelle istituzioni e, soprattutto negli ultimi tempi, questo criterio di giudizio ha assunto un cruciale ruolo di guida decisionale quasi di natura darwinista. In conformità a questo principio, in termini di strategia, “Incassare” sarebbe sempre meglio di “attendere” qualunque sia lo scenario e il contesto. Ad esempio, se anche per caso ci si trova nella fortunata situazione di chi non ha bisogno immediato di contanti, sarebbe comunque auspicabile incassare la mensilità aggiuntiva garantita dal TFR (peccato per le tasse in sovrappiù!) e reinvestirla seduta stante acquistando, per esempio, una polizza assicurativa completamente sotto il personale controllo del contraente. Sarebbe una tattica che comporta dei costi aggiuntivi (più tasse, più commissioni, ecc.) ma garantirebbe almeno i seguenti risultati: la sottrazione di questa forma di risparmio al rischio di “pensate” future da parte della nostra classe politica, l’assunzione del controllo diretto di questa forma di risparmio con la prospettiva di poterne usufruire con maggiore elasticità. Se poi il reinvestimento assumesse comunque la forma di un impegno fisso, continuerebbe anche a funzionare come forma di accantonamento forzoso anche se, dall’altra parte, verrebbe meno l’attuale garanzia di rendimento che, normalmente caratterizza questa forma di accantonamento.
Specularmente, l’opportunità di un incasso immediato sembra anche andare incontro maggiormente al punto di vista di chi, purtroppo, avrebbe bisogno di quei soldi nell’immediato per vivere (un po’) meglio. E’ chiaro, infatti, che in momenti d’incertezza spesso si sceglie “l’uovo oggi …”, inutile, infatti, preoccuparsi molto della vecchiaia se i problemi stanno già condizionandoti pesantemente il presente. In questi casi, la logica del “tirare a campare” rimane, in fondo, l’unica perseguibile.

Vi sono però anche delle considerazioni che vanno contro questo tentativo di riforma. A me sembra che queste ragioni siano meno pratiche e più di principio rispetto a quelle evidenziate qui sopra:
Il TFR, proprio per le sue caratteristiche e vincoli normativi, aveva un che di paternalistico, in altre parole costringeva tutti, volenti o nolenti a essere almeno in parte avveduti e virtuosi. Il paternalismo, ormai non è più di moda, anzi, sembra quasi un insulto nei confronti dei cittadini che si suppongono sempre avveduti e lungimiranti. Personalmente nutro qualche dubbio su questo dogma che stabilisce la conclamata e naturale saggezza del cittadino medio (soprattutto quando si parla di questioni potenzialmente difficili da capire come quelle finanziarie!), ma pazienza!

Intravvedo, invece, un aspetto più insidioso legato alle logiche retributive; adesso il TFR è accantonato, nel momento in cui, invece, ci sarà la facoltà di erogarlo, esso apparirà come una forma di aumento di stipendio senza essere tale nella sostanza. Ora, in prospettiva, questo mette in difficoltà le imprese che dovranno trovare nuova liquidità (ma sulla soluzione di questo problema sta lavorando il governo) ma a tendere, sfavorirà il lavoratore che di fronte alla richiesta di aumenti “veri” si vedrà presentare come prima scelta il ricorso al prelievo dal TFR (del tipo: “Se hai bisogno di soldi, prendili di lì!”). In pratica, questa riforma, rischia di essere un altro fattore di abbassamento del costo del lavoro fatto a spese delle future entrate (posto che si materializzino) del lavoratore che, detto in altre parole, si pagherebbe da sé parte dello stipendio corrente attingendo al tesoretto.
Vi sono, infine, alcuni argomenti che, probabilmente poco sposterebbero dall’essenza del dibattito ma, che a mio avviso, sono usati in maniera strumentale, o peggio, illusoria, per veicolare la riforma. Ad esempio, s’immagina che il denaro in più messo a disposizione dei lavoratori produca non meglio identificati effetti positivi sui consumi. Qualcosa si otterrebbe certamente, ma riguardo all’effetto globale io sono scettico, infatti: in primo luogo, in assenza d’interventi concreti, parte dell’effetto si tradurrebbe semplicemente in nuove tasse (l’imposizione sui redditi sono mediamente superiori a quelle che gravano il TFR a scadenza), dubito poi, che chi abbia la possibilità di accantonarlo, si precipiti invece a spenderlo! Come spiegavo prima, infatti, quelli che ne hanno la possibilità, lo investirebbero probabilmente in qualche altra forma di risparmio. Non ci sarebbe, invece, nessun impatto serio per i precari che, mediamente, già lo incassano e, per i quali, in ogni caso, si tratta d’importi non significativi.

Detto in altre parole, l’incremento dei consumi verrebbe da chi ha proprio necessità di incrementare le spese, ma a questo punto, non sono più tanto sicuro che questa sia la forma ideale per garantire loro un reddito più decente nell’immediato, soprattutto, tenendo conto, tra l’altro, che c’è una buona possibilità che le medesime categorie vadano aiutate e tutelate anche successivamente. Pertanto, a me sembra doppiamente ingiusto che esse “brucino” anche ciò che sono state costrette per legge ad accantonare per il futuro.
Alla fine, almeno al sottoscritto, il problema del TFR appare, tutto sommato, “piccolo” e non penso che esso cambierà la situazione comunque lo si tratti (la cosa potrebbe cambiare se, invece, lo Stato decidesse di “sequestrarlo” in qualche forma!). Sullo sfondo rimane, invece, sempre da affrontare il problema “vero” che affligge l’Italia e non solo lei. Manca il lavoro perché, progressivamente vengono meno la base produttiva e la convenienza a mantenerla nel paese, se ci fosse il lavoro, ci sarebbero anche i consumi! Non è invece detto il viceversa, perché bisogna ancora vedere, anche nell’ipotesi che si riuscisse a far emergere una maggiore capacità di spesa, se questa andrebbe a favorire il prodotto interno del paese oppure se, alla lunga non si trasformerebbe per lo più in disavanzo commerciale. Pertanto, la questione se “E’ nato prima l’uovo o la gallina” dove s’invoca lavoro per creare domanda interna, oppure al contrario, si punta sugli incrementi dei consumi per stimolare il mercato del lavoro, appare semplicemente quello che è, un bel circolo vizioso! … Ma anche un facile mantra per i creduloni che sperano di risolvere facilmente dei problemi che semplici non sono. Per altro, se il problema è dare più soldi a chi, in un modo o nell’altro, il lavoro l’ha già (che non è niente di più di quello che si pone come obiettivo la riforma del TFR), sarebbe meglio puntare su un taglio degli sprechi compensato da una politica di sostegno per i redditi bassi o, in maniera presumibilmente meno efficace, procedere a un taglio generalizzato delle imposte sul reddito (sempre da finanziarsi con recuperi di efficienza!).

 Rimane quindi il problema di sempre, è più facile cercare di estrarre i soldi dove ci sono (i redditi e i patrimoni dei cittadini) che affrontare il problema delle inefficienze “vere” che affliggono il paese. A questo proposito, ricordo che circa due anni fa uscì sul quotidiano La Stampa un’interessante serie di articoli corredati da una sintesi finale: “H 312 L’handicap dell’impresa Italia” a firma di Luca Ricolfi (si veda anche mio blog: https://www.blogger.com/blogger.g?blogID=3245748741540988419#editor/target=post;postID=7910961950821196345;onPublishedMenu=posts;onClosedMenu=posts;postNum=5;src=link).
In quello studio, non era il costo del lavoro (se non per l’aspetto del cosiddetto “cuneo fiscale”) il principale indiziato per spiegare la nostra scarsa competitività, ma ben altri fattori che ci distinguevano nettamente anche dagli altri partner europei. E’ su quelli e non sui palliativi che, con impegno e senza false demagogie bisognerebbe lavorare.

domenica 5 ottobre 2014

Recensione: L’io come cervello

“L’io come cervello”, titolo originale: “Touching a Nerve. The Self as a Brain”, di Patricia S. Churchland, traduzione di Gianbruno Guerrerio, edizioni Raffaello Cortina, ISBN: 978-88-6030-672-2.

Bellissima opera che mescola sapientemente temi etici e filosofici a una descrizione delle moderne scoperte nell’ambito delle neuroscienze. L’Autore si colloca in una corrente scientifica e filosofica che, in contrapposizione al cosiddetto “dualismo”, nega la separazione fra l’anima/mente da una parte e la materialità del cervello dall’altra, per sostenere, al contrario, che pensiero, mente e coscienza sono il risultato esclusivo dei nostri processi neurali. In altre parole, secondo questa corrente di pensiero, la nostra vita mentale non sarebbe altro che il sofisticato risultato dell’attività cerebrale ed essa cesserebbe con la morte del cervello. Niente trasmigrazione di anime quindi, e nessun platonico mondo delle idee perduto e al quale tornare! Questo, almeno è il risultato al quale giunge l’Autore.
Si tratta di un approccio troppo pessimistico alla vita e alla sua sensatezza, caratterizzato da una fredda visione scientifica, o peggio ancora, da un certo nichilismo? Non direi proprio! Al di là che questo saggio, nonostante le premesse dell’Autore, mi sia sembrato più incentrato su una minuziosa e interessantissima descrizione del funzionamento del cervello in funzione dello stato delle nostre attuali conoscenze fisiologiche, rispetto a quanto, invece, possa apparire un trattato di filosofia; ogni pagina di quest’opera sembra stillare amore per la scienza ed entusiasmo e le conclusioni non appaiono per niente pessimistiche, semmai costituiscono uno sprone a lottare per migliorare le nostre conoscenze e la qualità della nostra vita e un invito per liberarci dalle trame di comode ma inconsistenti e, spesso fuorvianti illusioni.

Recensione: The American Civil War


“The American Civil War”, di John Keegan,  edizioni Hutchinson, ISBN: 978-0-09-179483-5.
It is a good essay on the American Civil War (1861-1865), the conflict which opposed the Confederate States of the South of the United States to those Unionists in the North. The main reason for the origin of the conflict must be sought in the bitter debate that tore the nation on the issue of the legitimacy of slavery, an institution deeply rooted in the culture and  social organization  of the South and at the base of the South’s economy, but, on the other way, in full contrast with the beliefs of a democratic and egalitarian society.
The author clearly explains the nature of these economical and social reasons and describes, first the slow maturation of the ideological quarrel and its final acceleration due to the victory of Abraham Lincoln in the presidential election of November 1860. The election was obtained on the basis of a strongly abolitionist political platform; even more, the votes were largely polarized. The preferences of vote in Lincon's favor were largely a contribution of the northern and western states, but on the other hand the South voted broadly in favor of the other candidates, in particular, for John C. Breckinridge.
According to the author the rapid succession of events found both sides unprepared. Between December 1860 and February 1861, South Carolina, Florida, Mississippi, Alabama, Georgia, Louisiana and Texas adopted a new constitution, declared independence and joined in a confederation to which soon adhered Virginia, Arkansas, Tennessee and North Carolina in April 1861 after the fall of Fort Sumter, which marked the real beginning of the war.
Then, the author goes on to describe the ways (somewhat baroque, from a current point of view!) through which the two armies were established and armed. The initial method was based mostly on volunteers enlisted in regiments of the territorial militia. Only with the progress of the war a method based on conscription was established to ensure the growing demand for recruits.
A large part of the essay is then devoted to the explanation of the strategic and logistical issues related to the geographic environment of the war, and to the description of the various military campaigns. The understanding of some of the main battles is aided by extensive descriptions and, in certain cases, by a series of useful maps.
A not insignificant part of the essay is then devoted to certain interesting subtopics, for example: a brief explanation of the naval warfare, a description of the soldier's day life, an explanation of the reasons justifying the large rate of desertions (that affected both armies), the growing importance of logistic and of an organized service of medical assistance and, finally a brief description of the military impact of the first military units based on the enlistment of black soldiers.
An interesting book, serious and in reach of every reader.

venerdì 26 settembre 2014

Recensione: The American Civil War


“The American Civil War”, di John Keegan,  edizioni Hutchinson, ISBN: 978-0-09-179483-5.
Si tratta di un buon saggio sulla guerra di secessione americana (1861-1865), il conflitto che oppose gli stati confederati del Sud degli USA a quelli unionisti del Nord. La ragione principale all’origine dello scontro va ricercata nell’aspro dibattito che dilaniò la nazione sul tema della liceità dello schiavismo, istituzione alla base dell’economia degli Stati meridionali e fortemente radicata nella cultura e nell’organizzazione sociale degli stessi, ma in completo contrasto con la costituzione e con lo spirito di una società democratica e ugualitaria. L’Autore mostra bene queste ragioni economiche e sociali, ne descrive la lenta maturazione e l’accelerazione finale dovuta alla vittoria di Abraham Lincoln alle elezioni presidenziali del novembre 1860 e ottenuta sulla base di una piattaforma politica fortemente abolizionista e con il solo contributo degli Stati del Nord e dell’Ovest e a scapito di quelli del Sud che, invece, si schierarono largamente a favore degli altri candidati, in particolare, per John C. Breckinridge.
Secondo l’Autore il rapido susseguirsi degli eventi colse entrambe le fazioni impreparate. Fra il Dicembre 1860 e il Febbraio del 1861 Carolina del Sud, Florida, Mississippi, Alabama, Georgia, Louisiana, e Texas adottarono una nuova costituzione, dichiararono l’indipendenza e si unirono in una confederazione alla quale aderirono Virginia, Arkansas, Tennessee e Carolina del Nord dopo la presa di Fort Sumter (Aprile 1861) che sancì l’inizio vero e proprio della guerra.
L’Autore passa quindi a descrivere i modi (alquanto barocchi, da un punto di vista attuale!) attraverso i quali furono inizialmente costituiti e armati i due eserciti che, in un primo tempo, si basarono su un tipo d’inquadramento reggimentale incentrato sul reclutamento volontario organizzato attraverso i corpi della milizia territoriale. Solo con il progredire del conflitto si passerà alla coscrizione obbligatoria che diventerà necessaria per garantire il crescente fabbisogno di reclute.
Un’ampia parte del saggio è poi dedicata alla spiegazione delle problematiche strategiche e logistiche che caratterizzarono il conflitto e alla descrizione delle varie campagne militari e degli eventi bellici più importanti. La comprensione di alcune delle battaglie principali è aiutata da ampie descrizioni e, in certi casi, da una serie di mappe.
Una parte non insignificante del saggio è poi dedicata ad alcuni argomenti accessori ma comunque interessanti: si fa un breve cenno agli esiti della guerra navale, si descrive brevemente la “vita del soldato”, i problemi di approvvigionamento della truppa, la lenta evoluzione della sanità, il fenomeno, assai rilevante, delle diserzioni e sono sommariamente illustrati l’impiego e il significato dei primi reparti di colore.
Infine, il saggio si chiude con un bilancio del conflitto e con una serie di riflessioni sugli effetti del conflitto.
Come premesso, un libro interessante, serio e non pedante alla portata di ogni lettore.

mercoledì 10 settembre 2014

Recensione: La Realtà non è come ci appare – La Struttura Elementare delle Cose


“La Realtà non è come ci appare – La Struttura Elementare delle Cose”, di Carlo Rovelli, edizioni Raffaello Cortina, ISBN: 978-88-8402-905-8.
Un saggio bellissimo, scritto in modo semplice e chiaro che fa il punto sull’attuale stato della conoscenza della nostra realtà sulla base degli studi della fisica moderna. L’Autore si pone l’obiettivo di spiegare il cammino di convergenza fra le diverse teorie fisiche, (ad esempio, le leggi di gravitazione, dell’elettromagnetismo, la teoria della relatività e la fisica delle particelle) verso una sintesi che le ricomprenda in un'unica grande, ma in fondo, “Semplice” teoria scientifica. Ed è proprio quest’idea straordinaria di “Semplicità” che risulta applicabile, sia ai costituenti della materia sia alle leggi che ne regolano il funzionamento, il lascito straordinario dell’opera di Rovelli, egli riesce a incantare anche i profani come il sottoscritto dispiegando di fronte ai nostri occhi la bellissima, caotica, creativa logicità dell’universo.
Intraprendendo un percorso storico che si dispiega dalle intuizioni di Democrito, grande filosofo greco (ma sarebbe meglio definirlo scienziato!), vissuto fra il V* e il IV* secolo a.C., l’Autore ci guida attraverso un cammino di scoperta scientifica nel quale si alternano folgoranti intuizioni che portano ad ascese vertiginose cui seguono cadute e inciampi rovinosi che ci respingono nelle tenebre dell’ignoranza e della superstizione. Sullo sfondo, la lotta prometeica intrapresa dalla mente umana per comprendere l’essenza delle cose e, conseguentemente, per sfuggire alle limitazioni e alle soggettività imposteci dai nostri sensi perché, come dice il titolo del libro. “La realtà non è come ci appare”. Il “Tempo” non esiste se non in funzione della nostra soggettività e anche l’”Infinito” ha dei limiti (ce li spiega la teoria quantistica!), il che lo rende più amichevole, meno vasto e angoscioso. Soprattutto, come avevamo già capito, ma non sapevamo ben spiegare, Achille raggiungerà la tartaruga, anche se dovrà effettivamente passare attraverso un’infinita serie di punti! 
Non limitatevi a leggerlo, fatelo leggere anche ai vostri figli!

venerdì 29 agosto 2014

Perché cala la fiducia dei consumatori italiani? Una riflessione sull'importanza che l'esempio venga "dall'alto".

In Agosto si è assistito all’ennesimo calo della fiducia dei consumatori italiani, il terzo consecutivo negli ultimi mesi. La gente “non spende” e anche i famosi 80 euro non sembrano produrre alcun effetto positivo sull’economia. Mentre una pletora di esperti, apparentemente costernata, si è lanciata alla ricerca di dotte spiegazioni che diano ragione di quest’ostentato pessimismo sia per l’Italia sia per il resto d’Europa, i cui consumatori sembrano avere le stesse reticenze di quelli italiani, a noi non rimane altro che guardarci intorno stupiti chiedendoci se ciò che appare ovvio al nostro sguardo sia davvero così poco intellegibile alla nostra massa di sedicenti esperti e politici di ogni faccia e colori.
Ma insomma, perché la gente non spende? A me, personalmente la spiegazione appare abbastanza semplice; innanzi tutto moltissimi non hanno né soldi né lavoro. La disoccupazione giovanile ha raggiunto, almeno in Italia livelli mostruosi (con punte anche superiori al 40%); spesso poi, in questo caso, anche quando il lavoro c’è, finisce per essere precario e sottopagato.  Anche la cosiddetta “mobilità”, in questo caso, intesa proprio in senso fisico di propensione a spostarsi, spesso non aiuta a stimolare la propensione a investire, precludendo così un’ampia fetta di potenziali consumi. Difficile, infatti, pensare di sposarsi, comprare una casa e, persino un’auto, se si pensa di trasferirsi a breve e comunque più di una volta nel breve termine e magari all’estero. La mancanza di serie certezze rispetto alla propria capacità di reddito lavorativo non implica tanto l’esistenza e la ricerca del famigerato “posto fisso”, quanto l’accesso a un’ampia disponibilità di lavoro ragionevolmente remunerato e che permetta di stabilizzarsi nel medio - lungo termine in un’area geograficamente sufficientemente ristretta da permettere spostamenti quotidiani partendo dal medesimo punto fisso (il proprio domicilio!). Basandosi su osservazioni e su riflessioni che a me paiono di semplice buon senso, la mancanza di queste condizioni condiziona negativamente fin dal principio la propensione a sostenere buona parte delle spese che, fino a poco tempo fa, erano date per scontate perché funzionali al puro e semplice “ciclo vitale” delle persone.
E’ anche vero, però, che altri il lavoro ce l’hanno e, spesso si tratta di un impiego relativamente fisso e tutelato. E allora perché anche questi soggetti si mostrano molto cauti nelle spese? Per queste fasce di consumatori il problema, a mio avviso, è legato alle percezioni riguardo al futuro. Nell’immediato, sono molte le persone che sono spaventate dalla possibilità di perdere il posto di lavoro sapendo, tra l’altro di avere scarse opportunità di ritrovare rapidamente un impiego che garantisca un reddito almeno equivalente. Facendo poi delle valutazioni un po’ a più ampio respiro, purtroppo realistiche, tutti si aspettano semplicemente di fare nel proprio futuro l’esperienza di una serie più o meno lunga di anni da “esodati”, cioè in una condizione dove si è privi di lavoro, ma non si sono ancora raggiunti i limiti di età per accedere alla pensione. Infatti, chi crede veramente che conserverà il proprio posto di lavoro fino a sessantasette anni di età? Come se questo non bastasse, la fiducia nella società e nello Stato è al minimo; nessuno si aspetta veramente un livello di pensione dignitoso (posto di arrivarci), nessuno pensa che potrà conservare il proprio TFR e ottenerlo a scadenza sotto forma di capitale. In compenso, tutti sono abbastanza certi che la pressione fiscale su chi è ancora in grado di produrre un reddito che non sia in “nero” non diminuirà, e anzi, tutti sospettano che essa sia destinata a salire in varie forme poiché il futuro lascia intendere che, a parità di costi dell’apparato statale, ci siano meno contribuenti a suddividersene il carico. Dall’altra parte, è anche chiaro che il welfare sarà sostanzialmente ridimensionato e che, pertanto, il livello dei servizi erogati dallo Stato e dagli Enti locali sarà destinato a diminuire drasticamente in termini sia di qualità sia quantità. Tutto ciò sarebbe già abbastanza grave se non intervenissero anche ulteriori fattori negativi a minare il già critico livello di fiducia, cioè, da una parte, la costatazione che le difficoltà economiche che attanagliano la vecchia Europa siano dovute a un’epocale e irreversibile fase di trasformazione economica originata dal fenomeno della globalizzazione, nei confronti della quale sembra difficile uscire completamente indenni; mentre dall’altra, si aggiunge la semplice osservazione che gli organi politici e amministrativi non sembrano in grado (almeno non lo sono stati fino a ora!) di trovare delle soluzioni veramente valide per far fronte a questa situazione e, più importante ancora, non appaiono in possesso né della forza, né della volontà, ma soprattutto dell’interesse di riformare se stessi per sgravare la società civile del peso della loro stessa cronica inefficienza (che spesso riflette solo l’entità della loro “rendita di posizione”). Proprio in un momento dove sarebbe necessario fare ogni sforzo per gestire al meglio le risorse in contrazione che ancora sono in nostro possesso, l’”Apparato” si mostra ogni giorno inadeguato, impreparato e ripiegato su se stesso e sulle proprie chiacchiere, eppure chiaramente intento a mantenere a qualunque costo il controllo dei propri privilegi.
E’ certo, che se l’”esempio viene dall’alto”, nessuno si fida più di nessuno e, di conseguenza diventa illusorio aspettarsi che si agisca di comune accordo per fare quei sacrifici che sembrano necessari per riequilibrare il “patto generazionale” e rimettere in piedi l’economia. Dunque, chi può permetterselo aspetta al palo, ben conscio che, così facendo la situazione peggiorerà ulteriormente ma contando sul fatto che, alla fine, saranno quelli più esposti che dovranno muoversi (incrociando le dita nel timore di essere fra questi!).
In sintesi, è chiaro a molti che si dovrebbero trovare nuove risorse per favorire la creazione di posti di lavoro, dall’altra parte, a meno di essere fan viscerali della “Teoria Monetaria Moderna”, è pure evidente che non si può agire ulteriormente sui disavanzi (tentazione che sta nuovamente riemergendo nella nostra classe politica!) , infatti, il sistema finanziario internazionale non vedrebbe di buon occhio un visibile peggioramento dei conti pubblici (per altro, pure il buon senso dovrebbe ritenere poco auspicabile tutto ciò!). Rimarrebbe quindi da praticare la via dell’efficienza: investimenti e riforme per favorire l’occupazione fronte di tagli di sprechi e rendite ... la solita proposta che predicano un po’ tutti … e che non viene mai applicata!
E qui si torna al clima di sfiducia! Insomma, tutti si aspettano che le famose risorse da destinare allo sviluppo alla fine emergano da una profonda riduzione dei costi della politica e da un processo che renda più efficiente l’intera galassia della “cosa pubblica”. Tutti, a torto o a ragione, pensano che, in quel buco nero ci siano risorse in abbondanza alle quali attingere senza, per forza passare prima dalle proprie tasche. In poche parole, quello che immagino passi nella testa della gente è questo: “Prima comincino loro, poi, magari ci metto del mio!”. Purtroppo, però, si costata continuamente che di tagli agli sprechi quando si tratta di toccare il “parterre” della politica non se ne parla e, quando si procede (posto che il risultato netto emerga veramente) questo è fatto con una lentezza esasperante. In sette anni di crisi si sono perse centinaia di migliaia di posti di lavoro, ma i nostri emeriti rappresentanti parlano per mesi dei destini di una Camera vista da molti come ormai inutile (Il Senato) che, comunque, non s’intende tagliare ma solo trasformare (non si voglia che la politica perda anche solo “una poltrona”) sottraendola nello stesso tempo al potere elettivo (“potere” si fa per dire!) dell’elettore. Quando si parla di diminuire delle spese, i tagli da una parte ritornano nelle loro tasche per altre vie (si veda ad esempio http://www.lavoce.info/wp-content/uploads/2014/07/bilancio-camera-ebook_finale-1.pdf, oppure,  http://www.lavoce.info/consiglio-regionale-piemonte-veneto-spesa-delle-regioni/ ), mentre i quotidiano sono pieni di notizie delle loro ruberie, come nel caso della nota “Rimborsopoli” piemontese, riguardante i rimborsi spese dei consiglieri regionali  e che si spingono fino al furtarello di piccolo cabotaggio, come emerge dalle indagini riguardanti i  “gettoni di presenza facili” da parte della Circoscrizione n°5 di Torino (circa 60 euro a gettone! Si veda:  http://torino.repubblica.it/cronaca/2014/02/10/news/torino_spese_pazze_nei_dieci_quartieri_inchiesta_su_rimborsi_e_gettoni_di_presenza-78211747/). Nel frattempo, si parla da anni della giungla di enti inutili da chiudere senza che si faccia nulla, mentre, almeno a me, non risulta che si sia mai stai capaci di liquidare una fondazione bancaria (soluzione pro tempore pensata nel lontano 1992!). Figurarsi poi se qualcuno si aspetta veramente che si trovi il tempo per mettere mano a riforme serie (che tutti auspicano e nessuno fa!), come quella che dovrebbe ripensare profondamente l’organizzazione del Servizio Sanitario Nazionale.
In sintesi, è chiarissimo che, dove c’è una poltrona da tutelare, si ferma tutto a costo di affondare l’intero Paese. Quindi che facciamo noi cittadini? … Aspettiamo, ovviamente!