mercoledì 30 novembre 2011

Recensione: Lettere dalla Terra

“Lettere dalla Terra”, titolo originale: “Letters from the Earth”, di Samuel Langhorne Clemens, in arte Mark Twain,traduzione di Alessandra Goti, editrice Piano B, ISBN: 978-88-96665-36-7.
Oggi 30 novembre (nel 1835) nasceva Samuel Langhorne Clemens, in arte Mark Twain, mi sembra quindi un momento quanto mai opportuno per parlare di questa sua opera uscita postuma nel 1962. Mark Twain morì nel 1910 e fu per precisa volontà della famiglia che questo piccolo libro ironico e virulento non venne pubblicato. Il testo è una fortissima critica alle religioni e in particolare al Cristianesimo. La breve storia si svolge attraverso una serie di undici lettere scritte dall’arcangelo Satana al “collega” Gabriele. Questi, esiliato sulla Terra per un giorno “Celeste” (pari a mille nostri anni) a causa della propria incontenibile ironia nei confronti dell’opera del Creatore, redige in tono irridente, ma anche sconcertato, una serie di resoconti sulle abitudini religiose dell’animale “Uomo”. Ne viene fuori un violentissimo attacco contro le religioni, a parer mio, a tratti, anche un tantino eccessivo, che però trova motivazione da quella che sembra una contraddizione inestricabile far la presunta bontà divina e il male che esiste sulla Terra.

venerdì 25 novembre 2011

Recensione: Avrei voluto essere padre

“Avrei voluto essere padre”, di Laura Marinaro, editrice Nuovi Autori, ISBN: 978-88-7568-607-9.
Gli ormai frequenti casi di separazione e divorzio hanno fatto emergere una serie di problemi che solo adesso cominciano ad assumere una certa visibilità presso l’opinione pubblica. Un aspetto particolarmente penoso è quello legato alle serie limitazioni, con conseguente lesione dei diritti di una delle parti in causa, che possono essere poste in essere da uno dei due ex-coniugi quando uno di essi, l’affidatario di fatto o di diritto, impedisca all’altro genitore la frequentazione dei figli anche in quei casi dove gli accordi e le sentenze ne riconoscano pienamente il diritto. I’opera s’interessa del fenomeno privilegiando il punto di vista dei padri in quanto, in questo caso, sono mediamente proprio loro la parte lesa a causa di una certa prassi sviluppatasi nella giurisprudenza italiana che vede favorire l’affidamento dei figli alle madri. Il libro riporta una serie di casi romanzati ma riferibili a episodi reali e nasce dall’esperienza diretta maturata dall’Autore presso una delle associazioni che si occupa di queste tipologie di problemi.
Venendo alle mie impressioni, non mi è facile prendere una posizione chiara su questo tipo di lavori perché di solito non leggo questo genere di libri. Per quanto mi riguarda, infatti, magari volendo un po' semplificare, ritengo che la passione per la lettura tragga origine da due generi di motivazioni: io leggo saggi per il piacere di apprendere, mentre penso che un buon romanzo sia tale perché trasmette emozioni. Un romanzo che “prende” crea un’atmosfera che ci permette di immedesimarsi nelle situazioni descritte: si riproducono gli stessi stimoli visivi, si percepiscono gli stessi odori e soprattutto, si prova una dose, in certi casi fortunatamente solo omeopatica, delle passioni che pervadono i protagonisti. Seguendo questa definizione indubbiamente dovrei ritenere di aver incontrato un’opera riuscita; ma ecco il problema a maneggiare questo “piccolo” libro (in termini di numero di pagine) che tratta però temi assai seri e forse proprio perché a me noti, volutamente esorcizzati. Esso piacerà a chi vuole provare emozioni forti, a chi piace indignarsi, a chi attraverso certe situazioni ci è passato o ne ha avuto esperienza; potrebbe invece risultare inopportunamente coinvolgente per quelli che vedono il problema, capiscono il dramma, ma che non hanno soluzioni da proporre; per questi ultimi la lettura emozionale di certe situazioni non può che lasciare insoddisfatti di fronte alla propria sensazione di impotenza.

giovedì 24 novembre 2011

Asta flop per i Bund tedeschi – Mal comune ......

L’ultima asta di titoli di stato tedeschi è stata un mezzo fallimento. Dei sei miliardi offerti ne sono stati raccolti solo poco più della metà (3,8) e nel frattempo è schizzato in alto il rendimento. Anche per il paese leader del blocco europeo, fino ad ora in cattedra nel suo ruolo di moralizzatore nei confronti degli altri membri dell’Unione è arrivato un chiaro segnale da parte degli investitori che cominciano a non percepire più i bund tedeschi come un bene rifugio di provata fiducia. Vista dall’Italia questa non è, in fondo, una cattiva notizia perché rende finalmente evidente anche ai tedeschi la natura del problema che l’Europa si trova a fronteggiare, il quale, non riguarda solo o principalmente le difficoltà di armonizzazione fra aree diversamente sviluppate dell’Unione, oppure la necessità, per altro evidente, di ricondurre un certo numero di governi nazionali ad una gestione maggiormente virtuosa e sensata del livello del debito e della spesa pubblica, ma che, in sintesi, presuppone il ripensamento profondo del significato politico ed economico della UE attraverso la ricerca di un modello socio-economico e politico condiviso a livello trans-nazionale. Sembra, infatti, sempre più difficile mantenere coesa l’area dell’euro attraverso l’istituzione della Bei e l’approccio monetario, mentre cresce parimenti l’esigenza di impostare una politica industriale e di sviluppo su scala continentale, obiettivo che, insieme con quello del contenimento e della razionalizzazione dei costi, presuppone anche e soprattutto una maggiore integrazione della politica e degli organi istituzionali. Sembra, dunque, che l’Unione Europea si stia approssimando a un bivio e, secondo me, noi saremo presto chiamati a scegliere se rilanciarne il progetto rinunciando ad una sostanziale componente delle nostre sovranità nazionali o sancirne il fallimento.

sabato 19 novembre 2011

Recensione: Agostino - Le Confessioni

“Agostino – Le Confessioni”, di Agostino d’ippona (Aurelius Augustinus Hipponensis), a cura di Maria Bettetini, traduzione di Carlo Carena, edizioni Einaudi, ISBN: 978-88-06-17561-0.
Le Confessioni, scritte intorno al 400 d.C., sono una delle opere principali di sant’Agostino (354 d.C.- 430 d.C.), vescovo d’Ippona dottore della Chiesa, teologo, filosofo e grande pensatore. L’edizione, seppure di formato economico, è fornita di testo a fronte in latino, di un’introduzione chiara e d’indispensabili note che ho trovato esaustive, ma che hanno il difetto di essere state poste in fondo al libro anziché a piè pagina, rendendone così un poco scomoda la continua e indispensabile consultazione.
L’opera si presenta strutturata in tredici libri (capitoli) nei quali l’Autore racconta la propria conversione al cristianesimo riassumendo nel frattempo la propria vita e inframmezzando profonde riflessioni di natura filosofica, teologica e, aggiungerei, scientifica. Il testo si presenta in forma di dialogo, supplica, preghiera e persino poesia indirizzati direttamente a Dio. La forma è impressionante, ricercata ed elegante, anche per quelli come me che non sono in grado di seguire il testo in latino, a dimostrazione e monumento all’abilità di retore dell’Autore.
Personalmente quest’opera mi ha prodotto una grandissima impressione e non nascondo che su di essa il mio giudizio rimane sospeso. La forma mi ha colpito, nonostante già sapessi che il testo si svolgeva in forma vocativa e non di dissertazione. La lettura mi ha prodotto ammirazione, disagio e, a tratti, genuina insofferenza verso una nenia che sembrava non avere mai fine. Riguardo ai contenuti, il mio giudizio risulta estremamente sfaccettato e frammentato; per alcuni versi sono profondamente deluso, pensavo, infatti, che avrei avuto la possibilità di acquisire maggiori informazioni sulla religione, sul cristianesimo, o meglio, sul cattolicesimo, sulla figura di Dio, sul problema del Male e sulle eresie che hanno dilaniato la cristianità, ma sento che il risultato è stato ben scarso e quel poco che ho ottenuto (forse la causa è la mia profonda ignoranza!), l’ho tratto e lo devo alle belle note a fine libro senza le quali, ammetto, avrei capito veramente poco o forse niente! Dall’altra parte, mi è rimasta la convinzione che Agostino fosse veramente un genio, un grande filosofo ed un profondo pensatore, ne da prova, secondo me, soprattutto negli ultimi tre libri (e lo dico perché ho rischiato di non leggerli!). In particolare sono rimasto sbalordito dall’undicesimo libro in cui viene affrontato il tema del “Tempo”. Penso di fargli un complimento dicendo che mi sarei augurato di vedere più proficuamente applicata la sua straordinaria mente in un moderno laboratorio di astrofisica, rispetto a quanto gli è capitato di fare inseguendo arguti, ma in fondo inutili, concetti filosofici e religiosi. Infine poi, l’”uomo” Agostino non mi è piaciuto, almeno per come si è raccontato. Ho un senso quasi di repulsione fisica verso quello che sembra il risultato della sua ricerca: un uomo che sembra più rinnegare il mondo, le sue pulsioni, la sua materia, i suoi affetti, le sue emozioni, i suoi colori, i suoi odori più di quanto alla fine si senta semplicemente in pace in esso e con esso. Un uomo per il quale tutto sembra peccato fuorché la continua contemplazione dell’idea di Dio, un soggetto che appare alienato più che semplicemente distaccato. La sua mistica, alla quale ha sacrificato compagne di una vita, figli, affetti e sensazioni mi appare perversa e questo si, la dice lunga su un certo filone del pensiero della Chiesa, per la quale godere di una sana sessualità, della visione di una bella donna, di un bicchiere di buon vino, di un raggio di sole sul viso, del volo di una farfalla, può nascondere un peccato mortale!

venerdì 18 novembre 2011

Recensione: Ritornano le Tigri della Malesia

“Ritornano le Tigri della Malesia”, titolo originale “El Retorno de Los Tigres de la Malasia”, di Paco Ignacio Taibo II, edizioni Tropea, ISBN: 978-88-558-0155-3.
Il romanzo racconta una nuova avventura dei pirati della Malesia, gli intramontabili eroi e avventurieri creati dalla fantasia del romanziere Emilio Salgari. Essi ci vengono ripresentati dalla penna dell’Autore un po’ attempati ma ancora avvampati dell’originale spirito indomito. Paco Ignatio Taibo sicuramente li ha amati a sua volta e, a mio avviso, riesce nell’impresa di restituirceli nel loro carattere originale (che anzi ne risulta affinato) insieme al mix di avventura ed esotismo che caratterizzava la saga salgariana. Egli riesce anche a salvaguardare il semplice tratto narrativo dell’Autore originale e la struttura dei capitoli improntati sullo stile del romanzo d’appendice (“feuilleton”). L’opera riesce dunque nella pregevole impresa di rendere omaggio al creatore delle “Tigri” e nel contempo regala ad una (spero) nutrita pattuglia di nostalgici un bel sequel che ancora può fare sognare.

sabato 12 novembre 2011

Recensione: Connessione Computer

“Connessione Computer”, titolo originale “The computer Connection”, di Alfred Bester, editrice Nord, ISBN: 88-429-0871-1.
Si tratta di un romanzo di fantascienza scritto nella metà degli anni settanta. La vicenda è incentrata sulla lotta fra un gruppo di uomini che, attraverso una serie di fatti casuali hanno acquisito l’immortalità e una rete informatica intelligente che ha preso il controllo di ampie parti del sistema solare. Era moltissimo tempo che non leggevo un libro di fantascienza, genere che avevo abbandonato da qualche tempo; forse anche per questo, l’ho trovato particolarmente infantile. Probabilmente mi sarebbe piaciuto a quindici anni (cioè circa trentuno anni fa!), anche perché allora sarebbe stato qualcosa che parlava effettivamente di futuro. Il giudizio di oggi non è quindi dei più lusinghieri, eppure nell'avvicinarsi all’opera, bisognerebbe tenere presente che anche la fantascienza, per sua natura, invecchia! Circa quaranta anni fa, almeno per coloro che non erano esperti, o meglio, pionieri del settore non era poi così facile immaginare reti informatiche di diffusione planetaria. Se poi si recupera questo punto di vista, si possono apprezzare altri aspetti del romanzo; infatti, è strano, divertente e persino un po’ commuovente verificare “con il senno di poi” la discrepanza fra quanto è stato immaginato e quanto è stato effettivamente realizzato. Infine, la storia è allegra, leggera nonché pervasa da un certo umorismo e dal quel tocco di volgarità che avrebbe entusiasmato un adolescente, ma che strappa qualche sorriso anche a quelli che veleggiano verso i cinquanta!

venerdì 11 novembre 2011

Una vita con "B" di Massimo Gramellini

Spero vivamente che il giornalista Massimo Gramellini de La Stampa non mi citi per plagio! E' infatti la seconda volta in pochi giorni che inserisco direttamente nel mio blob quanto pubblicato da lui sul quotidiano! Il punto è che, non solo mi ritrovo esattamente a condividere pianamente quanto egli descrive, ma mi rendo anche conto che non potrei rendere gli stessi concetti con altrettanta chiarezza e divertente ironia, quindi ......

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La Stampa: 10 novembre 2011 "Una vita con B" di Massimo Gramellini

Una vita con B

Politico, impresario, presidente di calcio, venditore di sogni, comico, playboy. Vent'anni passati (per lavoro) a seguire l'ascesa di Berlusconi
Forse solo adesso che sta, oh molto lentamente!, evaporando nell’album dei ricordi, comincio a rendermi conto con un certo spavento che ho trascorso metà della mia vita a occuparmi di B. Anche molti di voi, lo so. Per quanto un po’ meno di me, che come cronista l’ho avuto accanto fin dal primo giorno di lavoro. Quando il mio vicino di scrivania al «Giorno» mi mostrò una fotografia del neo-presidente del Milan fra Baresi e Maldini. «Tempo sei mesi e al loro posto ci saranno due carabinieri!» mi vaticinò, quel comunista. La prima di tante previsioni sbagliate.

Sei mesi dopo al posto dei carabinieri c’ero io, ma B non era nelle condizioni di spirito per farci caso. Eravamo in un salone dei palazzi vaticani per l’udienza del Milan col Santo Padre. Un vescovo si avvicinò a B: «Come d’accordo, Sua Santità parlerà dopo di lei...» B, che non ne sapeva nulla, sorrise al porporato, poi si girò verso i suoi e lì investì con una strigliata memorabile. Gli restavano dieci minuti per improvvisare un discorso, Lo seguii di nascosto, lungo i velluti di un corridoio laterale: mi incuriosiva vederlo all’opera in una situazione di emergenza. Lo osservai camminare avanti e indietro. Contorceva la bocca e componeva arabeschi con le mani. Si stava caricando.

Alla fine della passeggiata indossò il suo miglior sorriso celentanoide e affrontò Wojtyla con poche, leggendarie parole. «Santità, in fondo Lei assomiglia al mio Milan». Qualche cardinale sussultò. «Perché anche Lei, come noi, è spesso in trasferta, a portare in giro per il mondo un’idea vincente, che è l’idea di Dio». Fu un trionfo. B si era trascinato al seguito un esercito di milanisti, giornalisti e inserzionisti - il Gruppo, come lo chiamava lui - e li presentò al Papa uno alla volta, alla sua maniera: «Questo è Ruud Gullit, Santità. Già 12 gol quest’anno, di cui tre in Coppa dei Campioni». Wojtyla abbozzò un sorriso di cortesia. «E questo è Gigi Vesigna, direttore di Sorrisi e Canzoni: un milione di copie, molte più di Panorama!». Il Papa si illuminò: «Panorama! Io leggo sempre Panorama!». B ci rimase così male che forse in quel momento decise di comprare la Mondadori.

Avevo ventisei anni e mi faceva già così ridere e così paura. Era il cumenda moderno, circondato dal servilismo dei collaboratori. Arrivava all’allenamento del Milan in elicottero, si toglieva l’impermeabile e lo lanciava dietro le spalle, dove c’era sempre qualcuno che lo pigliava al volo. Scrissi che il raccattacappotti era il nuovo portiere del Milan e si arrabbiarono tutti, specie il portiere del Milan. L’allenatore Sacchi, adulatore furbissimo, iniziava le conferenze del sabato con una formula magica: «Permettetemi anzitutto di ringraziare il Dottore, che è una persona meravigliosa. Senza di lui, noi non saremmo qui». Alla decima volta un collega alzò la mano: «Senta, Sacchi, premesso che il Dottore è una persona meravigliosa, ci dice la formazione?».

Io scrivevo tutto. Anche la didascalia sotto la celebre foto che lo ritraeva con Confalonieri, Dell’Utri e Galliani: in maglietta bianca e in fila per uno: «Il Gruppo, compatto, suda agli ordini del Dottore». Non poteva durare. Il direttore del «Giorno» Lino Rizzi, indicato (come si diceva allora) dalla Dc, mi mandò a chiamare. «B ha detto che se non la smetti di prenderlo in giro, ci toglie la pubblicità di Canale 5». E tu cosa vuoi che faccia, direttore? «Il tuo dovere. Con prudenza. Ma non smettere di raccontare quello che vedi». Il primo miracolo di B: farmi rivalutare i democristiani.

Già allora esisteva un doppio B: quello solare delle apparizioni in pubblico e il personaggio misterioso che aveva potuto disporre, a meno di trent’anni, di prestiti miliardari. Ma nei lunghi pomeriggi di Milanello la storia extrasportiva che tutti ci raccontavamo a mezza bocca riguardava il famoso patto di Segrate. Quando B e la Mondadori, non ancora sua, avevano firmato di venerdì pomeriggio un accordo solenne per spartirsi la pubblicità televisiva a partire dal lunedì successivo. Dopo le foto e i sorrisoni di rito, B rientrò nei suoi uffici e, così narra la leggenda, si rivolse al segretario Urbano Cairo e agli altri collaboratori come in un film: «Sincronizzate gli orologi: abbiamo solo 48 ore prima che entri in vigore l’accordo. Rastrellate tutta la pubblicità che c’è in giro!». Il lunedì la Mondadori si trovò senza più neanche uno spot e di lì a qualche giorno dovette vendere Retequattro. A chi? A B.

Questo aneddoto forse un po’ romanzato (magari, conoscendolo. proprio da lui) è il test che utilizzo da anni per capire gli orientamenti politici dei miei interlocutori. Se rispondono «vergogna, che disprezzo per le regole!», sono berluscallergici. Se dicono «intanto però lui nel weekend ha lavorato!», sono berluscloni.

Fui testimone oculare di una censura. Un collega del suo «Giornale» aveva intervistato Baresi, piuttosto critico con il presidente. Il pezzo, intitolato «La difesa del Milan attacca B», era saltato alle undici di sera in tipografia, goffamente sostituito da una foto di Trapattoni delle dimensioni di un poster. Ci trovavamo ad Ascoli, al seguito del Milan, e il collega censurato passò la giornata successiva al telefono della mia stanza d’albergo, così potei assistere in diretta al balletto straziante degli scaricabarile. Baresi smentì l’intervista. Montanelli, ancora direttore, chiese al giornalista se aveva la registrazione, ma nello sport allora non usava: tutto era affidato ai taccuini. A malincuore persino il grande Indro dovette allargare le braccia. Così la censura passò e divenne un precedente. Lasciai Milano e «Il Giorno» per Roma e «La Stampa», convinto che non lo avrei incrociato mai più. Lo rividi una notte a Barcellona, la Coppa dei Campioni fra le braccia, mentre catechizzava la folla di un ristorante: «Un giorno farò l’Italia come il Milan!». Tutti a darsi di gomito, tranne i cronisti sportivi che lo seguivano da una vita. Solo loro sapevano che uno così era capace di tutto.

Il ponentino romano mi deberlusconizzò rapidamente. Avevo quasi nostalgia di B, quando una sera di novembre il giornale mi mandò in Parlamento per raccogliere pareri sul suo ventilato ingresso in politica. Montecitorio alle sette era deserta, ma da una porta apparve un ritardatario, il capogruppo del Pds, Massimo D’Alema: «Smettetela di spargere in giro le solite sciocchezze. B non entrerà mai in politica. E’ pieno di debiti». Appunto, azzardai io. Ma D’Alema mi fulminò con una smorfia delle sue: «Allora mi devo ripetere: non entrerà mai in politica!». Compresi che la discesa in campo era ormai inevitabile.

Nei mesi successivi l’Italia intera scoprì l’omino del nuovo ventennio. Le sue manie e megalomanie. Le videocassette con la finta libreria e la calza sulla telecamera. Il miracolo del tifoso milanista paralizzato: «Tommaso della Fossa dei Leoni: alzati e vieni dal tuo Presidente!». L’inno con le parole intercambiabili: «E forza Italia per fare per credere...». Le frasi memorabili: «Non esistono i poveri, ma solo i diseducati al benessere».

Ero disperato. A cosa mi era servito scappare dallo sport e far perdere le mie tracce, se me lo ritrovavo di nuovo addosso? Con i colleghi de «La Stampa» Pino Corrias e Curzio Maltese ci prendemmo una settimana di ferie per scrivere un libro sul suo avvento al potere. Lavoravamo in un posto segreto, giorno e notte, non ricordo di aver mai infilato i piedi sotto le coperte. Morivamo di sonno e, per non morire anche di fame, un pomeriggio Curzio e Pino andarono a fare la spesa. Ero solo in casa quando la porta bussò con violenza: «Carabinieri, aprite!». Come avevano fatto a trovarci? Nessuno, tranne i parenti stretti, sapeva che eravamo lì. Ero così imbevuto di B che feci un paio di collegamenti mentali: i carabinieri dipendevano dalla Difesa, Previti era ministro della Difesa, ergo B li aveva mandati ad arrestarci. Truccando la voce pigolai: «Chi cercate, prego?». «Maltese Curzio...». «Chi?». «...Corrias Pino». «Chi?» «...e Gramellini Massimo». «Perché?».

Fu il «perché» a fregarmi. A quel punto dovetti aprire. Scoprii che non era stato B a spedirceli, ma il direttore de «La Stampa», Ezio Mauro. Avendo saputo chissà come che avevamo appena parlato col più acuto filosofo del berlusconismo, Mike Bongiorno, quel formidabile trapano aveva mobilitato i carabinieri di mezza Italia per rintracciarci e avere un’anteprima dell’intervista sul giornale.

Parli d’altro, mi suggerivano i lettori. Una parola. Non esisteva argomento in cui, per dritto o per rovescio, non entrasse lui. La politica? Lui. Il calcio? Lui. La tv? Lui. La pubblicità? Lui. Il cinema? Lui. La cultura (ehm ehm). Lui. I soldi? Lui, lui, lui. Un giorno, stremato, comprai una rivista di botanica. C’era una foto di B nel giardino di Arcore mentre potava le rose.

Difficile non trasformarlo in un’ossessione. Il culmine lo raggiunse un amico di «Repubblica» durante la mia prima e ultima vacanza esotica, all’indomani della vittoria elettorale dell’Ulivo. Ci concedemmo un bagno notturno, c’erano la luna, le ragazze, il mormorio avvolgente del mare. Avevamo ancora l’acqua alle ginocchia quando l’amico mi si avvicinò con aria corrucciata. «Sai», disse. «Stavo pensando che se Prodi non fa la legge sul conflitto di interessi entro una settimana...». «Ti prego», mi ribellai. «Non ora, non qui!». E invece aveva ragione. Gli ulivisti non fecero la legge, forse erano su qualche spiaggia esotica anche loro, e B continuò a fare il B più di prima.

Entrai nella fase dell’apostolato attivo: volevo convincere il mio prossimo che B non era un liberale ma un monopolista, e che non gli importava niente dell’Italia ma solo dei fatti suoi. Mi arresi durante un trasloco, quando un operaio mi abbordò preoccupato: «Dottò, lei che mastica di politica, ma è vero che B pensa di vendere le sue televisioni?». «Ne dubito, ma lo spero. Diventeremmo un Paese normale, non crede?». «Io, se vende le tv, non lo voto più». «Come dice, scusi?» ululai. «Non lo voto più. Finché ha le tv è ricco e non ruba». «Ma così farà sempre e solo gli affari suoi!». «Ma facendo i suoi, sarà costretto a fare un po’ anche i miei. Se invece vende le tv, diventa un politico come tutti gli altri». Mi arresi. La sinistra doveva smettere di sostenere che l’italiano medio era vittima di Berlusconi. L’italiano medio era solo un Berlusconi più povero.

Oramai B era il nome più evocato, più maledetto, più amato. Provate a contare quante volte avete pensato a lui in questi anni. Più che a vostra suocera, di sicuro. Mai nessuno aveva diviso tanto l’Italia e gli italiani. Un tizio mi scrisse alla posta del cuore per raccontarmi di aver lasciato una ragazza che stava corteggiando, dopo aver scoperto che lei aveva votato per B. Un popolo spaccato in due, una democrazia trasformata in un referendum continuo: pro o contro una singola persona che incarnava un mondo che gli uni consideravano sguaiato e gli altri vitale. E quella persona era il cumenda ridens che avevo visto lanciare l’impermeabile all’aspirante portiere milanista.

Siamo invecchiati insieme, nel senso che mentre io perdevo i capelli lui li ritrovava. In venticinque anni ho cambiato opinione su quasi tutto, ma non su B: continua a farmi ridere e a farmi paura. Ultimamente più paura che ridere. Non ha mai cercato di convertirmi. Pare mi consideri fra gli irrecuperabili da quella volta che, saputo dei miei trascorsi liberali, mi fece chiedere da un suo amico: «Ma se non è comunista, perché non sta con me?» B è un semplificatore: o sei Stalin o Emilio Fede. Il mondo del Duemila è troppo complesso per sottostare ai suoi schemi. Anche per questo la sua stella è al tramonto. Senza di lui non mi annoierò, ma certo dovrò faticare di più. Mi toccherà tenere d’occhio un sacco di persone: un politico, un impresario, un presidente di calcio, un venditore di sogni, un comico, un playboy. Mentre prima, per averle tutte, me ne bastava una.

mercoledì 9 novembre 2011

Buongiorno!

L’uomo nero se ne va! Speriamo! A me hanno insegnato che “non si vende la pelle dell’orso ……..”, pare comunque che questa volta sia veramente quella buona e comunque, effettivamente la maggioranza sembra si stia sgretolando più velocemente del ghiaccio della Groenlandia, pertanto, se non sarà oggi sarà domani! Bene, è ora di prendersi una giornata di festa, ma la mente vola già al dopo, cosa succederà adesso? Dopo l’uomo nero saliranno in cattedra gli uomini grigi (inteso nel senso di mediocri)? In rischio c’è, soprattutto a causa della mancata riforma della legge elettorale …. Queste sono preoccupazioni che oggi possiamo accantonare a domani. Eh va bene! Chi vuole sforzassi di essere saggio, “nel tempo dell’attesa si riposa, si prepara, mangia, beve ed è lieto e fidente” :-).
Per buon auspicio però, vorrei accogliere in questo post quanto è apparso su La Stampa di questa mattina nella rubrica “Buongiorno” del giornalista Massimo Gramellini e che condivido completamente.
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SENZA B di Massimo Gramellini – La Stampa 09 novembre 2011-11-09
Se penso a un’Italia senza B, immagino un brigadiere che si addormenta mentre intercetta le telefonate fra il professor Monti e Mario Draghi. Oh, mica voglio un’Italia di banchieri. Ma un po’ grigia e barbosa, sì. Non moralista, morale. Che per qualche tempo si metta a dieta di barzellette, volgarità, ostentazioni d’ignoranza. Dove l’ottimismo non sia la premessa di una truffa, ma la conseguenza di uno sforzo comune. Un’Italia solare, anche nell’energia. Con meno politici e più politica. Meno discorsi da bar e più coerenza fra parole e gesti. Una democrazia sana e contenta di sé, che la smetta di prendere sbandate per gli uomini della provvidenza e si ricordi di essere viva ogni giorno e non solo una volta ogni cinque anni per mettere una crocetta su una scheda compilata da altri. Un’Italia di politici che non parlano di magistrati, ma coi magistrati (se imputati). E di magistrati che parlano con le sentenze e non nei congressi di partito. Di federalisti che non fanno rima con razzisti. Un Paese allegro e però serio. Capace di esportare non solo prodotti belli, ma belle figure. Vorrei essere governato da persone migliori di me. Che non facciano le corna, non giurino sulle zucche e si sfilino un paio di chili dalla pancia, prima di far tirare la cinghia a noi, ripristinando il principio che chi sta in alto deve dare il buon esempio.

Per giungere a un’Italia così, le dimissioni di B rappresentano un primo passo. Adesso devono dimettersi tutti gli altri. Perché più ancora di Berlusconi temo i berluscloni.

mercoledì 2 novembre 2011

Crisi finanziaria – serve un nuovo New Deal: Elite in fuga dalla realtà e dalle responsabilità.

La Grecia affonda sulla proposta di indire un referendum a favore dell’accordo europeo, le borse crollano e l’Italia trema, mentre da ogni parte con toni sempre più concitati, s’invocano a gran voce riforme draconiane per salvarci dalla crisi. Tali riforme, in sintesi si riassumono in: maggiori privatizzazioni che prevedono un ulteriore saccheggio del patrimonio pubblico; condoni fiscali, premiando così nuovamente chi evade da una vita; tagli e riforme sulle pensioni, che perpetuano il circolo vizioso che procrastina una reale (e non figurativa) applicazione del regime contributivo; riforme sui contratti di lavoro, destinate ad aumentare l’instabilità e la disoccupazione; tagli indiscriminati a sanità ed istruzione, che andranno ad impattare sulla salute e sul futuro dei cittadini. E’ evidente che il prezzo del salvataggio sarà finanziariamente pagato soprattutto da quella classe con redditi medi che le tasse le ha sempre pagate, mentre socialmente graverà soprattutto sui redditi bassi e sulle famiglie. Nessuno ovviamente si propone di puntare seriamente su riforme del lavoro che creino efficienza ma che non vadano a scapito della stabilità del posto di lavoro, premino la produttività e la mobilità (quando necessaria e richiesta), puniscano l’assenteismo e le ruberie applicando semplicemente quanto già previsto dalle normative sul diritto del lavoro. Soprattutto, in ottica fiscale nessuno si propone di rovesciare completamente l’attuale impostazione, ad esempio, parlando seriamente della lotta all’evasione fiscale, di tasse patrimoniali più eque e dalla revisione ideologica di alcune tipologie di imposizioni ormai dimenticate come ad esempio la tassa di successione. La nostra classe politica, opposizioni incluse, evidentemente collusa con questi soggetti (in realtà facente parte, a ben vedere, di queste categorie!), si ostina invece a premiare i “soliti noti”: gli evasori, i titolari di grandi patrimoni, gli esportatori di capitale e la nostra peggiore classe imprenditoriale, quella che prospera sul lavoro nero e precario e sull’evasione fiscale; per loro infatti non è previsto alcun sacrificio sostanziale.
I Governi, non solo quello italiano, latitano e non sanno proporre nulla di nuovo. Sono pronti a varare solo riforme di tipo liberista di puro stampo “reaganiano”, continue varianti di una ricetta abusata, come se ancora non si fosse capita la totale inconsistenza delle teorie vendutaci fin dai primi anni ottanta da una folla di illustri economisti servili e prezzolati, e basate sul principio che, non tassare o detassare i redditi alti spinga l’economia, che demolire il welfare sia opera virtuosa, che eliminare le tutele di lavoratori e classi disagiati sia etico e civile, che promuovere l’instabilità migliori la qualità della vita. Tutto ciò invece ha solo impoverito il ceto medio e incrinato la fiducia dei cittadini riguardo alla capacità di risolvere i problemi dei sistemi democratici basati sull’assistenza pubblica, sugli ammortizzatori sociali e sull’equa distribuzione dei redditi. Personalmente questi personaggi non mi sembrano semplicemente incapaci e collusi, ma peggio, mi appaiono ormai inerti, paralizzati dal panico e soprattutto, completamente distaccati dalla realtà che li circonda. Essi sembrano definitivamente incapaci di affrontare in maniera incisiva una situazione che, evidentemente, non possono, non vogliono e non sanno risolvere. Peggio di tutto però è la tendenza alla de-responsabilizzazione che li contraddistingue! Vogliono vincoli costituzionali per essere obbligati a prendere decisioni e a fare ciò che non hanno il coraggio di fare, come se nascondersi dietro l’ottemperanza ai dettami di una definizione della Carta Costituzionale li assolva, prima dalla responsabilità di averne chiesto la modifica non necessaria e poi dal dovere mettere in atto quelle riforme che, Costituzione o meno, sarebbe loro dovere fare comunque. Ora, sfruttando la paura della crisi e incapaci di assumersi la completa responsabilità di scelte impopolari, si propongono di chiedere direttamente ai cittadini di essere assolti in anticipo e di ricevere l’ennesima delega in bianco. Nel frattempo, almeno in Italia, gli alleati di governo sembrano interessati solo a prolungare il più possibile lo stato comatoso del nostro parlamento, mentre l’opposizione bada bene a non rischiare veramente di far cadere un governo che in realtà non appare per niente ansiosa di ereditare e nel frattempo trama per andare a elezioni con l’attuale legge elettorale per godere a propria volta dei benefici che ne riceverebbe in termini di potere personale l’elite dello schieramento vincitore.
Servirebbe quindi coraggio nell’intraprendere nuove strade e per un rinnovato impegno politico e sociale, allo scopo di liberarsi della zavorra di questa classe politica imbolsita e pervenire ad un nuovo New Deal che coinvolga tutti i cittadini i quali, a ben vedere, dovrebbero essere così saggi da rendersi conto che non ci sono alternative all’essere “virtuosi”, non ci sono più spazi per il completo disinteresse dalla “cosa pubblica” o per mettere in atto una visione individualista o corporativa della politica. E’ necessario che tutti si rendano conto che l’unica alternativa ad un progressivo impoverimento generale è una fattiva collaborazione nonché una seria ed onesta riflessione riguardo alle eque modalità di redistribuzione degli inevitabili sacrifici da porre in essere.

martedì 1 novembre 2011

Recensione: Il Cimitero di Praga

“Il Cimitero di Praga”, di Umberto Eco, edizioni Bompiani, ISBN: 978-88-452-6622-5.
Il romanzo si svolge per lo più a Parigi nella seconda metà dell’ottocento ed è incentrato sull’ambigua figura di fantasia del piemontese Simone Simonini: falsario, truffatore e agente doppio. Le sue peripezie lo porteranno ad entrare in contatto con una girandola di personaggi realmente vissuti e lo vedranno coprotagonista di una trama complicata che, prima lo inserirà in alcune delle principali vicende risorgimentali e poi lo coinvolgerà in una serie di avvenimenti della Francia ottocentesca. Simonini finirà per immergersi nel clima culturale parigino, entrerà in contatto con l’estremismo anarchico, avrà un ruolo nelle vicissitudini della Comune di Parigi, tramerà nell’ombra dell’”affaire Dreyfus” e soprattutto, finirà invischiato in una oscura rete di sub-cultura da lui stesso parzialmente architettata che vedrà il coinvolgimento di gesuiti, riviste cattoliche, circoli israeliti e cenacoli antisemiti, sette esoteriche, veri o sedicenti massoni, occultisti e ciarlatani. L’ambientazione si svolge nell’ambito di una convincente ricostruzione del clima dell’epoca che ben descrive una società civile sospesa fra modernità ed oscurantismo, dove accanto all’avanzare delle scienze dilaga il sapere pseudo-scientifico spesso legato alle mode dello spiritismo, del mesmerismo e dell’occultismo e dove forme perverse di scientismo laico si confrontano con forme altrettanto nefaste di clericalismo e di fanatico bigottismo religioso. Sullo sfondo, frutto diretto di questo humus culturale, monta la marea dell’antisemitismo che darà i suoi frutti mostruosi nel corso del novecento.
A mio parere Il libro è molto bello ed anche divertente purché non ci si faccia intimidire dall’Autore che, a tratti, sembra un po’ voler soverchiare il lettore con lo sfoggio del proprio virtuosismo culturale, rischiando così di rendere il romanzo un po’ troppo arzigogolato a causa di una trama forse troppo ingarbugliata. Trovo poi che la scelta dell’Autore di puntare ampiamente su temi legati alla massoneria e all’occultismo costituisca un po’ una ripetitività rispetto ad altri suoi successi editoriali, quali ad esempio “Il pendolo di Foucault”.