lunedì 29 dicembre 2014

Recensione: Anatomia delle Brigate Rosse – Le Radici Ideologiche del Terrorismo Rivoluzionario


“Anatomia delle Brigate Rosse – Le Radici Ideologiche del Terrorismo Rivoluzionario” di Alessandro Orsini, edizioni Rubbettino, ISBN: 978-88-498-2853-5.
 
Premetto di non aver mai approfondito molto il tema della stagione del terrorismo politico europeo che ha caratterizzato la seconda metà del novecento. Questi eventi li ho sempre considerati “fatti”, mai “storia” e, avendoli vissuti, seppur indirettamente, semplicemente respirando il clima di quegli anni, li ho sempre considerati parte delle mie esperienze e dei miei ricordi e, stimandoli già sufficientemente noti, non ho mai pensato (erroneamente) di doverli analizzare più precisamente.

 Il terrorismo me lo ricordo prima come una serie di sensazioni insieme forti e vaghe, come sono quelle che possono essere captate, ma non pienamente comprese, da un bambino (sono nato nel 1965). Poi, un po’ più grande, come fenomeno legato a eventi esterni e pericolosi dei quali bisognava tenere conto; basti pensare che, tutte le mattine, in “branchi” vocianti, percorrevamo Via Asti (a Torino) per andare a scuola ma, giunti ai margini del lungo muraglione della caserma La Marmora, dove si allestì l’aula bunker e si tenne il maxi processo contro il nucleo storico delle BR, calava il silenzio. I nostri genitori ci avevano fatto il lavaggio del cervello: non urlate, non correte, non “sfottete”, non vi fermate, camminate sul lato opposto al muro della caserma, non vi avvicinate al portone, insomma, … non “fate i cretini”! Vedevamo i poliziotti davanti al portone e sugli spalti, stavano immobili, infagottati nel giubbotto antiproiettile. Si capiva che non erano statue perché vedevamo sbuffare il fiato gelato del loro respiro, ma per il resto non c’era un movimento, non si sentiva un rumore. Portavano la mitraglietta M12 un po’ sul davanti, canna rivolta verso il basso, entrambe le mani sull’arma, pronti a imbracciarla. Sapevamo che avevano il colpo in canna, che erano tesi e nervosi … eppure tutto era immobile, congelato. Ho altre reminiscenze “forti” legate al terrorismo. Per esempio, ricordo vivamente l’attentato alla stazione di Bologna, quello alla scuola di Amministrazione Aziendale di Torino, il giorno del referendum per confermare le “leggi Cossiga” (accompagnai mia nonna ai seggi!)… ma per me, il terrorismo rimane indissolubilmente legato alla sensazione di freddo, silenzio e immobilità che permeava quel tratto particolare di via Asti, oppure a quella vaga sensazione di disagio e tensione che ancora mi coglie quando incappo negli ormai sporadici posti di blocco dei carabinieri.

In età più matura ho inevitabilmente letto libri e articoli collegati al terrorismo di destra e sinistra e, a questo soggetto, si è aggiunto il tema del terrorismo di natura religiosa, tutto ciò, non in funzione di un vero interesse per quest’argomento, ma come semplice conseguenza di un fenomeno che è, semplicemente troppo legato alla nostra storia alla politica e alla cronaca recenti per poterlo ignorare. Non avevo, però, mai letto opere e saggi che si occupassero nello specifico della figura del terrorista, del suo mondo, della sua estrazione sociale e culturale, delle sue motivazioni psicologiche e dei suoi obiettivi. Da questo punto di vista il saggio dell’Autore è illuminante, convincente oltre che sconvolgente.

Per l’Autore i terroristi di sinistra e di destra, per non parlare di quelli esplicitamente religiosi, appartengono alla corrente delle sette gnostiche. Questo fa di loro dei soggetti molto più complessi, diversi e pericolosi rispetto a quanto siano normalmente considerati dall’opinione pubblica. L’approccio dello gnostico, quando si manifesta in un processo attivo, si basa sul presupposto di essere tanto “illuminati” quanto incompresi. Egli è un “eletto” un “puro”, unico depositario, insieme a pochi intimi, di una verità superiore che gli altri individui non riescono o non vogliono scorgere. Il suo modo di ragionare è strettamente dualistico o, come spiega l’Autore, “binario”: zero o uno, bianco o nero, puro o impuro, tanto peggio e tanto meglio … Chi non sta dalla parte del terrorista è automaticamente un nemico, qualsiasi cosa egli dica o faccia e va sterminato. Da qui nasce l’odio viscerale del terrorista soprattutto nei confronti di qualsiasi forma di riformismo, colpevole di allontanare le prospettive dell’inevitabile sovvertimento e rivoluzione. L’obiettivo, infatti, è nientemeno che salvare e purificare il mondo dai suoi mali (il quale è, inevitabilmente corrotto e decadente!), al fine di creare una società perfetta di pace e amore (e di norma, rigorosamente egualitaria). Per raggiungere tale fine, ogni mezzo può essere impiegato a partire, ovviamente, dalla violenza e dallo sterminio fisico dell’avversario che, come si è appena visto, è visto come un soggetto irrimediabilmente corrotto e che viene, pertanto, completamente disumanizzato solo per il fatto di non aderire acriticamente all’ideale gnostico del momento. Per gli gnostici è quindi “normale” e necessario prevedere di sterminare milioni d’individui al fine di purificare la società dai soggetti “infetti”. In sintesi, dal punto di vista psicologico è semplicistico e riduttivo pensare a questi soggetti come semplici “pazzi” o come “criminali” (magari prezzolati), mentre è quasi certamente più corretto collocarli fra i veri e propri “alienati” (inteso nel senso di personaggi “ai margini”). In sintesi, forse la pericolosità del terrorista gnostico consiste proprio nel fatto di considerarsi troppo “puro” e “perfetto” rispetto alla “massa” che lo circonda.

Rispetto a una prospettiva sociale e storica, l’Autore ci fa notare come le forme violente dello gnosticismo siano parte integrante della nostra cultura e, pertanto, rimane costante il rischio che esse, una volta debellate si ripresentino. Molti degli aspetti culturali e delle idee dalle quali deriva il repertorio violento delle sette gnostiche traggono origine da concetti e da aspirazioni che, in linea di principio sono considerati positivi, condivisibili o, quantomeno, accettabili e che stanno spesso alla base sia della visione etica e morale del cristianesimo, sia del pensiero liberale e illuminista: uguaglianza, libertà civili e religiose, equità economica, diritti civili e individuali, … Lo gnostico, però porta all’estremo l’applicazione di questi concetti ambendo a trasformarli in icone assolute da realizzare perfettamente, ad ogni costo e senza alcun compromesso. Pertanto, ad esempio, dalle forme di predicazione di stampo chiliastico e dalle esigenze di rigenerazione della chiesa spesso si sono originati movimenti improntati alla violenza sociale e politica e, anche la Rivoluzione francese, per altro fortemente ispirata dal pensiero illuminista, ha avuto la sua fase degenerativa rappresentata dal Terrore promosso dai giacobini. Il riferimento culturale per eccellenza del terrorismo di sinistra fu invece un'altra ideologia “millenarista” cioè il marxismo-leninismo che fu (è!), secondo l’Autore un vero è proprio “credo” gnostico.

In appendice, è anche presente un’interessante anche se succinta panoramica del fenomeno del “brigatismo nero” e dei suoi riferimenti culturali che, curiosamente, ma forse non così inaspettatamente, in alcuni casi coincidono con quelli dei brigatisti di sinistra (ad esempio convergendo sulla figura del rivoluzionario nichilista Sergej Gennadievič Nečaev!).

Decisamente un bel saggio, del quale ne consiglio vivamente la lettura!

mercoledì 24 dicembre 2014

Recensione: La Bestia Dentro di Noi – Smascherare l’Aggressività


“La Bestia Dentro di Noi – Smascherare l’Aggressività” di Adriano Zamperini, edizioni Il Mulino, ISBN: 978-88-15-25358-3.
L’Autore sviluppa una tesi che contrasta sia con quanto spesso correntemente accettato a livello sociale, sia con quanto sostenuto da un’ampia parte del mondo scientifico. Egli, in sintesi, sostiene, che non esista nessuna vera e propria prova che dimostri scientificamente come l’aggressività dei singoli esseri umani debba per forza far parte del nostro patrimonio genetico e biologico. La violenza e l’aggressività del singolo non sarebbero oggettivamente spiegabili né come risultato di un antico retaggio animale e, in particolare, il frutto di reazioni istintive che troverebbero origine nelle parti più “antiche” del nostro cervello, né attraverso il frutto di particolari combinazioni genetiche, né, tantomeno, analizzando il contrasto fra il processo di evoluzione e selezione biologica della specie rispetto al più rapido ritmo di cambiamento delle nostre strutture sociali. La violenza, quindi, sarebbe più spiegabile come una scelta dei singoli in parte consapevole. Tale reazione, in linea di principio, sarebbe prodotta da particolari situazioni di tensione sociale e/o ambientale che, tra l’altro, non sono necessariamente il frutto di combinazioni casuali, ma, più spesso, il risultato di scelte e modelli culturali attivamente promossi dai gruppi sociali e persino dalle autorità (ad esempio, l’odio verso il “nemico”). In pratica, la violenza è più spesso frutto del contesto sociale e il risultato di un particolare clima culturale, spesso consapevolmente costruito perché essa si manifesti e sia sostanzialmente accettata, più di quanto possa essere fatta risalire a un’origine naturale, evolutiva o genetica.
Per l’Autore, quindi, la violenza non ha scuse, non è innata ma, in sintesi, è più che altro un problema sociale che va affrontato secondo un approccio socio-culturale teso a rimuoverne gli alibi e le cause.
Un buon saggio e un punto di vista interessante che accolgo con generale favore ma, mantenendo qualche personale riserva (… sarà a causa del mio retaggio “scimmiesco”?! :-)).

domenica 14 dicembre 2014

Recensione: Uccideresti l’Uomo Grasso? Il dilemma etico del male minore


“Uccideresti l’Uomo Grasso? Il dilemma etico del male minore”, titolo originale: “Would You Kill The Fat Man? The Trolley Problem and What Your Answer Tells Us about Right and Wrong”, di David Edmonds, tradotto da Gianbruno Guerrerio, edizioni Raffaello Cortina, ISBN: 978-88-6030-697-5.
Si tratta di uno dei tanti casi estremi e paradossali prodotti dalla filosofia morale: “Un carrello ferroviario fuori controllo corre verso cinque uomini che sono legati sui binari: se non sarà fermato li ucciderà tutti e cinque. Vi trovate su un cavalcavia e osservate la tragedia imminente. Tuttavia, un uomo molto grasso, un estraneo, è in piedi accanto a voi: se lo spingete facendolo cadere sui binari, la notevole stazza del suo corpo fermerà il carrello, salvando cinque vite, anche se lui morirà. Voi uccidereste l’uomo grasso?”
Bella domanda! Soprattutto quando si esplorano anche le diverse e divertenti varianti comprese nel saggio che tendono a precisare lo scenario e a prevenire le diverse scappatoie morali che l’interlocutore cerca di mettere rapidamente in atto per “evitare” di uccidere l’uomo grasso!
Mentre per i filosofi l’argomento appare così appassionante da aver dato origine a una vera e propria branca della filosofia morale chiamata, appunto, “Trolleyology” (da “Trolley” = Vagone o Carrello), per le persone comuni, lo scenario appare un po’ per quel che è, cioè una forzatura un po’ troppo assurda o, al più, una storiella accattivante buona per movimentare la conversazione di una serata fra amici.
Ciò non toglie nulla alla bellezza di questo saggio che, nello svolgere le sue tesi, non solo riprende le diverse posizioni filosofiche sull’argomento, aggiungendo anche qualche considerazione in base ai risultati ottenuti dagli studi delle ormai sempre presenti neuroscienze ma che, soprattutto, riporta qualche caso storico nel quale il dilemma del “Male Minore” ha dovuto effettivamente essere soppesato nelle scelte operate da chi doveva prendere delle decisioni che implicassero il bene di alcuni a scapito di altri.
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A titolo di piccola curiosità, per chi volesse riflettere su qualche altro caso reale, posso segnalarne uno che, personalmente, ho trovato molto interessante. Potete trovare una descrizione di questo fatto in un libro che ho molto apprezzato: “Giustizia, il nostro bene comune” di Michael Sandel (ISBN 978-88-07-10454-1), l’episodio è riportato nel capitolo “I caprai afghani”. Da questa vicenda è stato recentemente tratto anche un film: “Lone Survivor” (2013) che, purtroppo, lascia spazio solo all’azione e nulla lascia trapelare del dilemma morale e del caso umano che l’ha reso famoso.
La storia in breve è la seguente:
Nel giugno 2005 una piccola squadra delle forze speciali della marina USA s’infiltra in territorio afghano con l’intento di localizzare un capo talebano e il suo gruppo costituito da un centinaio di combattenti. Durante l’operazione i militari vengono casualmente in contatto con alcuni caprai del luogo che sono rapidamente catturati. Gli afghani sono civili disarmati e vengono resi completamente innocui, ma gli incursori non hanno la possibilità di immobilizzarli (sono privi di corde o manette) per un tempo sufficiente a cambiare posizione e far perdere le loro tracce. Lasciandoli liberi i militari si esporrebbero al rischio che i civili segnalino la loro presenza ai guerriglieri talebani. Nasce una discussione fra gli elementi della squadra, qualcuno suggerisce di eliminare i pastori inermi ma il caposquadra Martin Luttrell si oppone e, alla fine, i civili sono liberati.
La storia purtroppo non ha un lieto fine. Poco tempo dopo aver liberato i pastori, il piccolo gruppo si trova braccato da una nutrita schiera di guerriglieri talebani. La maggior parte dei fanti di marina perde la vita nello scontro e anche fra i soccorritori, arrivati nel frattempo, si registrano perdite consistenti.
 Martin Luttrell sopravvivrà al combattimento e scriverà una biografia dove, secondo quanto riportato sul saggio di Sandel, affermerà essersi pentito della decisione presa di liberare i civili anziché procedere a sopprimerli.
Questo è un finale che lascia nell’inquietudine ma che, personalmente, riesco ben a comprendere e, nel frattempo mi rifiuto di giudicare e stigmatizzare.
Tutto ciò, in effetti, appare molto più tragico, più pregnante e meno salottiero rispetto alle storie di scambi da azionare, botole da aprire e spinte da assestare che attengono ai diversi scenari di ’“Uccideresti l’Uomo Grasso”!

Recensione: Ciulla, Il Grande Malfattore


“Ciulla, Il Grande Malfattore”, di Dario Fo e Piero Sciotto, edizioni Ugo Guanda Editore in Parma, ISBN: 978-88-235-0952-8.
I due Autori ricostruiscono la storia di Paolo Ciulla, anarchico omosessuale nato a Caltagirone nel 1867. Egli, dopo una vita da inquieto giramondo spesa a cercare di dimostrare le proprie abilità artistiche e a sfuggire ai pregiudizi del tempo, finirà per acquisire fama e pubblico riconoscimento durante il processo intentatogli nel 1922 e che lo vide imputato e condannato come falsario.
Paolo Ciulla, del quale non si conserva oggigiorno che un solo disegno e che, secondo i contemporanei, sarebbe dovuto essere riconosciuto come uno dei migliori artisti del tempo, riusciva a produrre biglietti falsi che nemmeno i periti della Banca d’Italia riuscivano a rilevare come tali!
Il libro è bello, scorrevole e divertente senza essere però un capolavoro. Probabilmente gli Autori hanno dovuto inventare e immaginare molto di un personaggio riguardo al quale, in fondo, rimangono poche testimonianze e fonti documentali.
Quello che, personalmente, ho apprezzato è la lezione di storia e di morale che gli Autori impartiscono parallelamente alla ricostruzione della vita del protagonista. Mentre, infatti, si svolge la storia di Paolo Ciulla e si narra del suo impegno artistico e sociale, e, pure delle sue non poche stramberie, scorrono le malefatte dei nostri “padri della patria”. Sono gli anni della bolla edilizia di Roma Capitale (non vi fa venire in mente nulla riferito ai giorni nostri?) e dello scandalo della Banca Romana, istituto abilitato a emettere carta moneta e che, per ironia della sorte, vista la professione del protagonista di questo libro, emise denaro falsificato per coprire le ingenti perdite derivanti dall’esplosione della bolla immobiliare. Sono anche gli anni della guerra doganale con la Francia, dell’infinita crisi economica e dell’immigrazione massiccia, della sconfitta di Adua e della repressione del movimento anarchico e delle agitazioni operaie e contadine, a cominciare da quella dei Fasci siciliani (1891-1894) che vide anche Ciulla fra i coinvolti, per finire alla nota ed efferata repressione dei moti di Milano, stroncati dal generale Bava Beccaris.
Per i nostalgici dei “Bei tempi andati” arriva quindi dagli Autori un messaggio amaro che non potrebbe essere più chiaro: In Italia, rispetto al modo di agire dei nostri politici e governanti, nulla è cambiato dall’Unità ai giorni nostri e Ciulla, con le sue perfette imitazioni dei biglietti da 500 lire (circa 750 euro di oggi!) è solo una scusa per ricordarcelo.

martedì 9 dicembre 2014

Cittadinanza e Valori: Qualche spunto di riflessione


I fatti riguardano una famiglia Anglo –Pakistana; il padre è nato a Newcastle da genitori pakistani e i figli sono nati tutti in Inghilterra. Tutti quanti hanno dunque una doppia cittadinanza: inglese e pakistana. La famiglia, da due anni in Pakistan, è in odore di terrorismo e uno dei componenti, una ragazza di circa vent’anni, ha appena raggiunto il marito in Siria per combattere la Jihad.
Il Governo inglese, nel timore di attentati terroristici ha revocato la cittadinanza a tutti i membri della famiglia ad eccezione della madre e di un figlio portatore di handicap. Io mi chiedo: “E’ giusto tutto ciò?”.
E’ bene premettere che, innanzi tutto, si tratta di un provvedimento previsto dalle leggi inglesi e, pertanto, legittimo. Lo stato britannico ha infatti la facoltà di revocare la cittadinanza nel caso di minacce alla sicurezza nazionale; mi domando però se una tale norma debba essere considerata etica, soprattutto, nel momento in cui si applichi a soggetti che hanno acquisito la cittadinanza in base allo “jus soli” e, ancora di più, che abbiano tale status da più generazioni. Quante generazioni ci vogliono per essere considerato veramente inglese (o italiano)? E, pertanto per essere trattato come un semplice delinquente (seppur altamente pericoloso) e non come uno straniero? La cittadinanza è un diritto acquisto, un dovere o una semplice “qualità” dell’individuo? E poi, altre domande … cosa sarebbe successo se i soggetti implicati non avessero avuto anche la cittadinanza pakistana? E se fossero proprio stati inglesi da generazioni? Magari biondi, anglicani da sempre e poi “fulminati” recentemente da una conversione all’Islam (ci sono anche neoconvertiti “europeissimi” nelle file dell’ISIS!)? Quali sono i precedenti storici (purtroppo ci sono!) in cui dei soggetti sono stati costretti ad assumere lo status di apolidi? Dove ha portato questa politica?
Sono interrogativi nei confronti dei quali, sinceramente, non penso di avere ancora né risposte definitive né tantomeno idee chiare. E’ difficile, infatti, bilanciare ragione, rabbia, paura, orgoglio nazionale, senso di appartenenza, spirito di accoglienza, rispetto della libertà individuale, ma anche senso del dovere, fedeltà allo Stato e lealtà verso i propri concittadini.
Questi fatti però devono fare riflettere perché, forse è giunto finalmente il momento di domandarci seriamente chi siamo e cosa vogliamo dalla nostra cultura che, penso si possa tranquillamente definire con orgoglio come “europea”. Se però vogliamo anche definire i nostri valori come “superiori” e non semplicemente come “diversi” rispetto ad altri, abbiamo la responsabilità di dare risposte ponderate a domande difficili in modo che esse siano adeguate a questi obiettivi ambiziosi in termini di esempio e di civiltà.

lunedì 8 dicembre 2014

Recensione: Congo


“Congo”, titolo originale: “Congo Een Geschiedenis”, di David Van Reybrouck, traduzione di Franco Paris, edizioni Feltrinelli, ISBN: 978-88-07-49177-1.
Un libro semplicemente bellissimo, che riassume la storia della Repubblica Democratica del Congo dai rapporti con i primi esploratori, missionari e coloni portoghesi nel XV secolo per arrivare fino ai giorni nostri.
Ci sono moltissimi aspetti per i quali io penso che questo saggio sia veramente eccezionale e che lo fanno primeggiare fra un genere di letteratura che, normalmente è già di per sé, di buon livello e si caratterizza per la serietà e la precisione degli autori. “Congo” è ben documentato e questo, è di per sé una specie di “minimo sindacale” per opere di questo genere; è anche scritto molto bene, lo stile e scorrevole e avvincente, in linea con la storia esotica, caotica e altalenante di questo immenso crocevia di uomini, acque e natura selvaggia. Ma la cosa che più mi ha colpito è che l’Autore è riuscito a fare della ricerca sul campo la protagonista assoluta di questo racconto dove ogni capitolo si dispiega sempre dalle interviste ai protagonisti, soggetti di tutte le età ed estrazione sociale. Il protagonista di questo racconto è dunque l’uomo con i suoi ricordi e le sue vicissitudini personali.
La storia comincia da Nkasi, un congolese nato nel 1882 (!!!) e che, ancora nel 2008, a più di 120 anni, ha la lucidità di riportare in vita, attraverso i suoi ricordi, il Congo delle origini; quello che rimane nel nostro immaginario attraverso i racconti di Stanley, che parla d’indigeni seminudi, della tratta degli schiavi e della prima penetrazione all’interno del bacino idrografico ad opera di missionari e trafficanti di avorio, degli intrallazzi di re Leopoldo del Belgio volti ad appropriarsi di un territorio immenso, grande quanto un continente.
 Seguono gli anni dello Stato Libero del Congo (1885-1908), proprietà personale del re, in quegli anni cominciano a sorgere i primi centri abitati, embrioni delle attuali metropoli e vengono costruite le prime infrastrutture, ad esempio la ferrovia che collegherà Kinshasa (allora Léopoldville) alla costa. E’ anche il periodo dello sfruttamento della popolazione finalizzato alla ricerca della gomma; rimarranno tracce profonde di questa fase estremamente dispotica e violenta non solo nella memoria storica e collettiva della popolazione, ma anche nella letteratura, ad esempio attraverso un capolavoro come “Cuore di tenebra” di Josef Conrad.
Nel 1908 la casa regnante del Belgio è costretta a cedere il controllo di questo immenso territorio che, fino allora, aveva retto come una compagnia privata e forse anche come una proprietà feudale. Si passa al dominio coloniale belga (Congo Belga 1908-1960) che vede l’instaurarsi di un regime paternalistico apportatore sì di sviluppo, ma anche di sfruttamento e che, soprattutto, istituzionalizzerà forme di segregazione e distinzioni etniche del tutto artificiose creando così i presupposti per le divisioni e i contrasti che ancora affliggono ai giorni nostri questa nazione sterminata. Emergono fatti a me sconosciuti e storie meravigliose, come quella di Simon Kimbangu (1889 -1951) che fondò il Kimbanguismo, una forma di cristianesimo autoctono che oggi conta circa diciassette milioni di fedeli (fonte wikipedia); oppure il racconto delle epiche quanto sconosciute gesta della “Force pubblique” che, attraverso ben due guerre mondiali combattute da vincitori (ben diversamente dal destino incontrato dalla madrepatria!), catapulterà molti congolesi fuori dal Paese, sui campi di battaglia europei e fino all’altro capo del Mondo, nel folto della giungla birmana. Da questa scuola usciranno alcuni dei protagonisti della storia del Paese a cominciare da quel Mobutu Sese Seko (1930 – 1997) che, a partire dal 1965 e fino al 1997 reggerà le sorti dello Stato congolese (lo Zaire).
Giunge infine l’agognata indipendenza (30 giugno 1960), troppo presto per trasmettere senza traumi il potere a un’elite locale che il colpevole paternalismo belga non è riuscito nel frattempo a preparare adeguatamente.  Scoppia il caos, e il prevalere degli interessi personali e le interferenze internazionali, tese ad appropriarsi delle immense ricchezze minerarie del Paese, porteranno alla guerra civile e alla frammentazione dello Stato. Sono gli anni della secessione del Katanga, promossa dalle mire personali di Moise Tshombé (1919 – 1969) e appoggiata dalla potenza economica delle Union Minière.
Nel 1965 Mobutu Sese Seko prende il potere e, almeno inizialmente riporta ordine e sviluppo imponendo al Paese un nuovo nome, “Zaire” (1965 – 1996) e un nuovo programma culturale teso a plasmarlo e amalgamarlo. La dittatura finisce, però, per degenerare in forme ineguagliate di corruzione, nepotismo e di malgoverno. La caduta del muro di Berlino e la fine della Guerra Fredda cambiano gli equilibri strategici mentre le conseguenze del genocidio ruandese (1994) finiscono per mettere in crisi i precari equilibri etnici del grande ma ormai fragile vicino. Scoppia la prima Guerra Congolese (1996 – 1997) che vede coinvolti una galassia di milizie reclutate su base tribale, supportate attivamente dall’ingerenza di Ruanda, Burundi, Uganda e Angola; il conflitto segna la fine del presidente Mobutu e l’ascesa di Laurent-Désiré Kabila (1939 – 2001) che presto finirà assassinato e lascerà il potere al figlio Joseph Kabila. Questo non risolve i problemi, da li a poco esplode il secondo conflitto congolese (1998 – 2003) al quale seguirà il conflitto del Kivu, ufficialmente conclusosi fra il 2008 e il 2009 ma di fatto ancora in atto. Il numero di vittime di questi conflitti fa delle guerre congolesi il terzo conflitto più sanguinoso dell’umanità dopo le due Guerre Mondiali.
Ci vorrebbero pagine e pagine per raccontare la storia di questo ricco e martoriato Paese e, infatti, l’Autore né ha scritte ben 650; che scorrono rapide come quelle di un bel romanzo e impetuose come le acque dell’omologo fiume.