venerdì 18 settembre 2015

Recensione: Il Paese Reale – Dall’assassinio di Moro all’Italia di oggi


“Il Paese Reale – Dall’assassinio di Moro all’Italia di oggi”, di Guido Crainz,  Donzelli Editore, ISBN: 978-88-6036-732-7.
L’Autore nell’ultimo libro di una trilogia che comprende: “la storia del miracolo italiano” e “il paese mancato”, ripercorre la storia italiana dalla fine degli anni settanta del novecento (Aldo Moro fu ucciso nel maggio 1978) fino al 2012.
Personalmente, ho apprezzato molto questa ricostruzione dei fatti, anche se, penso di poter far notare che da un punto di vista della metodologia utilizzata ai fini della loro ricostruzione, l’Autore abbia tenuto troppo in considerazione le citazioni dei personaggi e i titoli di cronaca apparsi sui quotidiani a detrimento di altri tipi di documentazione che, a rigore, potrebbero essere considerati più oggettivi. Egli però può essere giustificato per questa scelta in quanto, in fondo, si tratta ancora di fatti e di storia molto recente e intorno ai quali prevale ancora l’aspetto dell’inchiesta giornalistica, non immune da un certo fervore ideologico, più che l’approccio basato sul confronto con altre fonti e il ricorso a documentazione d’archivio.
E’ dunque difficile apparire imparziali e, a questo proposito, anche il sottoscritto non rientra fra le eccezioni ed anche per me è assai difficoltoso formulare un giudizio obbiettivo su questo periodo.  Questa difficoltà è innanzitutto dovuta ad un aspetto puramente anagrafico, infatti, il lasso di tempo preso in considerazione rappresenta il paesaggio e la scenografia entro il quale ho passato la maggior parte della mia esistenza. Ero un giovane liceale sul finire degli anni settanta, uno dei tanti studenti universitari nella seconda metà degli anni ottanta, giovane lavoratore nei primi anni novanta e infine neo genitore alle soglie del nuovo millennio! Il libro di Crainz ha dunque, per molti versi, riavvolto la bobina del film della mia vita (della quale, per fortuna, fino ad oggi non posso lamentarmi!) e mi ha fatto rivivere la parte peggiore di essa rammentandomi la visione del disastroso contesto politico di quegli (e questi) anni determinato dalla profonda immaturità di un’intera società civile profondamente irresponsabile e priva di senso civico; la triste fiaba di un paese egoista che non poteva che condurre la nazione al fallimento nonostante le sue grandissime potenzialità.
 Peccato davvero!
…. Che musica però in questi "stramaledetti" anni ottanta-novanta! :-)

martedì 8 settembre 2015

Problema migranti: Analisi di un approccio discutibile


Problema migranti: Lavorano e fanno figli: così i migranti finanziano l'Europa _ Analisi di un approccio discutibile.

Dopo le aperture della Germania nei riguardi del problema relativo all’accoglienza dei profughi sembra cambiato il clima politico riguardo a questo tema che, effettivamente negli ultimi mesi ha raggiunto un certo livello di criticità e non sembra accennare ad arrestarsi. Non è ancora chiaro cosa abbia fatto cambiare il vento, forse la semplice impossibilità di arrestare il fenomeno senza poter ricorrere a metodi scopertamente antidemocratici, oppure a causa di ragioni più profonde di ordine politico, economico e/o demografico. In ogni caso, già si percepisce anche il mutamento di come il tema viene affrontato dai mezzi d’informazione che, dopo aver trattato la questione sottolineando più gli aspetti umanitari, il fenomeno dello sfruttamento e le frizioni che tali sommovimenti finiscono per creare presso i paesi di accoglienza, adesso cominciano a spostare il “tiro” sugli aspetti benefici e sulle opportunità positive che possiamo aspettarci da tale esodo.

Ad esempio, oggi su La Repubblica appare quest’articolo:


Che comincia a spiegare al “popolo” come il fenomeno dell’immigrazione, ben lungi dall’essere problematico deve essere visto come un’indispensabile opportunità da cogliere al fine di mantenere in adeguato equilibrio i nostro squilibrati e dissestati sistemi pensionistici, minati alla base da una popolazione locale sempre più senescente.

Non contesto, ed anzi condivido in parte queste argomentazioni. Esse, viste alla luce dell’attuale quadro normativo su cui si basa la nostra previdenza, mi sembrano assolutamente coerenti; mi permetto però di ironizzare sul fatto che tali ragioni avrebbero potuto anche essere fatte valere già molti mesi (se non anni) fa! E, pertanto, mi sorprende un po’ la coincidenza che esse appaiano solo adesso in tutta evidenza, proprio nel momento in cui la linea politica tende a cambiare se non, persino, a rovesciarsi!

Dunque, lasciamo stare per un attimo gli aspetti umanitari legati a questo fenomeno che, a parer mio, rimangono quelli veramente rilevanti sia sul piano etico sia su quello sociale e torniamo al messaggio: “L’apporto migratorio è fondamentale per la stabilità dei nostri conti pubblici”. Questo è probabilmente vero, a rigore, solo sulla base dello “status quo”, ovvero, solamente se si affronta il problema sulla base della sola demografia e della permanenza delle regole attuali evitando quindi di prendere in considerazione anche altri scenari che, ad esempio, implichino ulteriori modifiche dei nostri sistemi pensionistici e sanitari. Ci sarebbero infatti almeno due approcci diversi percorribili per risolvere il problema della stabilità dei conti relativamente a queste voci: il primo si basa sul tentativo di mantenere un rapporto equilibrato fra giovani attivi e anziani pensionati; il secondo renderebbe necessarie l’istituzione di nuove regole al fine di rompere (finalmente) l’attuale patto (sarebbe meglio dire “vincolo”!) generazionale che sta alla base dei nostri sistemi pensionistici. Questi ultimi nonostante la pressoché totale applicazione di sistemi contributivi, si basano ancora su metodi che, di fatto, erogano le pensioni correnti non con i frutti delle rendite e dei contributi maturati dai percipienti, ma con quanto versato dai futuri aventi diritto. In altre parole le pensioni attuali sono pagate con i contributi correnti di chi andrà in pensione a suo tempo e, il trattamento di questi ultimi sarà calcolato non come conseguenza di investimenti fatti con il proprio denaro (buoni o cattivi che essi siano!) ma in funzione di regole prestabilite che, tra l’altro, potrebbero sempre essere messe in discussione nel momento in cui il sistema non si “regga” (come è stato fatto spesso in passato)..Tutto ciò, non è tanto dovuto a questioni di mutualità ed equità quanto al perverso lascito delle gestioni allegre del passato. Pochi, ad esempio, si soffermano a porsi la seguente domanda: “Perché un sistema contributivo mi costringe ad andare in pensione solo ad una certa età e non quando ritengo di avere una rendita vitalizia sufficiente?” Bene! La ragione fondamentale di ciò è da ricercare in quanto esposto poco sopra.

Tornando a noi, se ci si basa sul primo approccio (quello basato sull’equilibrio demografico), come conseguenza si possono e si devono fare affermazioni come quella che segue e che è contenuta nel sottotitolo dell’articolo citato: “Per salvare le nostre pensioni servono 250 milioni di rifugiati entro il 2060. Ecco perché per gli economisti sono una risorsa”. Per seguire coerentemente questa strategia di lungo periodo però, si dovrebbero anche discutere una serie di questioni di fondo, che, invece, lasceremo (come sempre) da risolvere alle generazioni future. Ad esempio ne sottolineo solo alcune:

- Stiamo basandoci su un modello che implica una crescita demografica indefinita. Questo, infatti, a livello globale, mi sembra l’unico modo per garantire la permanenza di un certo rapporto fra nuove e vecchie generazioni anche per i secoli a venire. Siamo sicuri che questo sia un modello sostenibile? Non sarebbe invece più cautelativo cercare di immaginarsi sistemi che mantengano la propria efficienza anche in presenza di una crescita stagnante o negativa della popolazione o che, quantomeno, tengano in conto un’alterazione sensibile (che già sta avvenendo) fra gli equilibri generazionali all’interno della stessa?

- Stiamo anche sostenendo che tale popolazione crescente dovrà mantenere un elevato o almeno equilibrato tasso occupazionale. Siamo sicuri anche di questa affermazione? Tra l’altro, mi sembra che si dia anche per scontato che tale livello occupazionale riguardi posizioni di una certa qualità e stabilità, quantomeno, non certo minate alla base da aleatorietà, basse remunerazioni e precariato. Dove e come pensiamo di trovare tali ulteriori occasioni di occupazione nel prossimo futuro (e qui da noi nei nostri paesi!) sulla base di quanto possiamo vedere già oggi?

Si dà quindi per scontato che tutte queste soluzioni ce le darà il “progresso” anch’esso, ovviamente, destinato a proseguire indefinitamente e, soprattutto a un tasso adeguato per risolvere senza eccessive frizioni tutti questi problemi socio-eco-ambientali, Personalmente, invece, comincio a sospettare che il genere umano non abbia ancora capito che ormai non si può più permettere il “laissez faire” del passato e l'affidarsi alla futura provvidenza per la soluzione delle variabili lasciate indefinite; ormai, infatti, siamo troppo diffusi e invasivi per poterci permettere di evitare di pianificare le nostre scelte senza chiarire le modalità attraverso le quali pensiamo di risolvere i problemi, possibilmente, senza compromettere gli equilibri esistenti. Per esempio, mi sembra che anche una conoscenza solo approssimativa delle dinamiche demografiche in atto debba portare ad accettare che la crescita della popolazione umana a 11 miliardi attorno alla data convenzionale del 2050 sia ormai cosa fatta (salvo tragedie che nessuno vuole invocare al fine di alleggerire questo dato). Dunque ci toccherà gestire e possibilmente non subire passivamente questo fenomeno e, già da adesso, per esempio, bisognerebbe cominciare a chiedersi se è il caso di proseguire oltre con questo trend dopo tale data e come fare, eventualmente per invertire questa tendenza!

Detto in altre parole pensare che a lungo termine ci si possa veramente poggiare su organizzazioni e modelli socio-economici che diano per scontata e necessaria la crescita infinita di alcune variabili fondamentali come la popolazione, la crescita economica e quella occupazionale (che non sempre va al pari passo con la crescita economica!); o che necessitino, per costruzione, il mantenimento di certi rapporti fra le stesse (ad esempio, un certo rapporto fra giovani attivi e anziani assistiti) mi sembra, quantomeno, contro intuitivo.

mercoledì 2 settembre 2015

Recensione: Il Cervello Anarchico


“Il Cervello Anarchico”, di Enzo Soresi, edizioni Utet ISBN: 978-88-418-9792-8
 
Forse il titolo di questo saggio può risultare fuorviante perché non si tratta dell’ennesima incursione speculativa su un tema di moda qual è attualmente quello delle neuroscienze e, in effetti, l’opera di Soresi può lasciare perplessi anche solo per il fatto che risulta un po’ strano che un medico, specialista di oncologia polmonare abbia scritto un libro che ha come protagonista il cervello.
 
Le ragioni di questa scelta, in effetti, a pare mio, emergono nel corso dell’opera nella quale l’Autore, attraverso la sua esperienza professionale, descrive il delicato equilibrio e le relazioni fra i sistemi nervoso, endocrino e immunitario, determinanti nello spiegare, almeno in parte, i diversi livelli di risposta soggettiva alle cure somministrate a diversi pazienti per le medesime patologie.
 
A mio avviso Soresi riesce a trasmettere al lettore l’importanza di avere nei confronti del nostro organismo una visione unitaria che ne colga le caratteristiche salienti nel suo complesso e che tenga presente le complicate interconnessioni che caratterizzano il suo equilibrio omeostatico; all’opposto, sarebbe da rifuggire una visione troppo specialistica e meccanicistica che si focalizzi eccessivamente solo sul funzionamento (o malfunzionamento) di singole aree e comparti. Questa visione “dall’alto” gli permette di ricordarci che la medicina non può essere considerata alla stregua di una scienza esatta; essa si colloca in un territorio di frontiera dove le risorse psicologiche del paziente, le intuizioni del medico e il ricorso ai metodi sperimentali possono fare la differenza nel determinare la guarigione o, quantomeno, nell’allungare la speranza di vita di fronte ad una patologia grave e/o terminale. In questa “pratica” medica, solo il dogma viene bandito mentre tutti gli altri strumenti, placebo e pratiche alternative compresi, possono essere tenuti in degna considerazione e a disposizione come strumenti finalizzati al benessere del paziente.