mercoledì 30 dicembre 2015

Recensione: Non luogo a procedere


“Non luogo a procedere”, di Claudio Magris, edizioni Garzanti, ISBN: 978-88-11-68917-1.
Libro che reputo vicino ai confini dell’” illeggibile” e che ho rischiato di interrompere più di una volta. Evidentemente non mi è piaciuto lo stile dell’Autore che potrei definire: psichedelico, allucinato, delirante, frenetico e, comunque, disordinato. Forse Magris voleva scrivere troppe cose, infatti, ad ogni riga emergono notizie e riferimenti curiosi che, però, finiscono per stordire e far perdere il filo di una storia che, per inciso, non c’è! Ho trovato strabordante la necessità dell’Autore di mettere in mostra troppi concetti e troppa conoscenza al costo di mantenersi distante da una trama che, a mio avviso si perde, o meglio, si profila come una semplice scusa per parlare d’altro. Sicuramente, egli riesce in più parti a descrivere la brutalità e la follia della guerra ma, per il resto, il romanzo è solo un caleidoscopio di immagini slegate

lunedì 21 dicembre 2015

Recensione: L’invisibile ovunque


“L’invisibile ovunque”, di Wu Ming, edizioni Einaudi, ISBN: 978-88-0622591-9.
Più che un romanzo completo, si tratta di quattro racconti incentrati sulla Grande Guerra. I primi due, a mio avviso completamente slegati dal resto, gli ultimi due collegati da un filo conduttore che è l’arte, in particolare, la pittura surrealista.
Viste le aspettative che ho verso questo collettivo di autori, considero “L’invisibile ovunque” al di sotto degli standard ai quali questi scrittori mi hanno ormai abituato, questo però non vuol dire che esso manchi d’interesse, semplicemente, forse, non è sempre possibile produrre capolavori, ogni tanto, viene fuori “solo” qualcosa di godibile ma non di eccezionale.
C’è da aggiungere comunque che Wu Ming qualcosa finisce sempre per regalarlo ai suoi lettori, e non c’è volta che io non sia stato costretto a fare qualche breve ricerca per appagare la curiosità che suscitano le loro idee e i loro protagonisti. Per me, quest’aspetto è l’unica caratteristica che salva questa raccolta da un giudizio più impietoso e riguarda il caso del terzo e quarto racconto che, fanno emergere alcuni personaggi storici, aspetti ed eventi della prima guerra mondiale veramente impensabili dando a quest’opera un taglio originale e un punto di vista sul conflitto assai inconsueto. Nello specifico, si finisce per portare alla luce un insospettabile quanto stranissimo rapporto fra il filone artistico del surrealismo e l’arte del mimetismo e del camuffamento. Chi l’avrebbe mai detto! Eppure sembra tutto vero o, almeno, plausibile.
Già solo per seguire questa traccia, dunque, potrebbe valere la pena di leggersi questa breve raccolta che, comunque, non annoia e si divora in un attimo.
 

domenica 13 dicembre 2015

Decreto salvabanche: I risparmiatori hanno ragione? Parte 2

Avevo cominciato la prima parte di questo intervento chiedendomi chi dovesse sopportare il peso economico di questo dissesto e, nella mia riflessione precedente ho sostenuto che fossero gli investitori a dover sopportare il costo delle proprie scelte incaute. Questa affermazione, per me rimane ancora valida e, pertanto la ribadisco, nel contempo però è importantissimo cercare di spiegare il processo attraverso la quale queste cose succedono.

La domanda giusta da porsi è dunque la seguente: “Com’è potuto accadere?”. Com’è possibile che dopo la firma di montagne di carta straccia incomprensibile da parte dei risparmiatori, l’istituzione di autority di controllo e tutela degli stessi, l’adesione a codici etici di grande spessore morale da parte degli organi delle banche, eccetera, eccetera, alla fine si scopre che tutto ciò non riesce mai a risultare né sufficiente né utile per tutelare effettivamente i soggetti che farebbero volentieri a meno di correre rischi finanziari? Il sospetto che viene è che in realtà, nella sostanza, non si voglia veramente intervenire in questa direzione anche perché, lavorare seriamente verso questo obiettivo, non solo ridurrebbe la redditività dell’attività di intermediazione, ma farebbe venire meno uno dei ruoli dichiarati della stessa, ovvero l’obiettivo di trasferire e distribuire certi tipi di rischi!
Torniamo però al nostro caso! Mano a mano che sui quotidiani vengono pubblicate le informazioni che riguardano la prima applicazione del “Salva banche” ecco che si delinea il solito quadro dei “furbetti del quartierino” e la tragedia (che è tale, visto che, oltre al danno economico, c’è anche scappato il morto!) si muta nella solita farsa all’italiana o meglio, nel solito copione nostrano. Riassumiamo i punti principali:
-          Il nostro Ente di controllo (la Banca d’Italia), anche di fronte ad una serie di norme europee vincolanti, impone l’emissione di nuova liquidità allo scopo di rafforzare gli indici patrimoniali degli istituti e per far fronte alla grave situazione di dissesto. che incombe sugli stessi.

-          A questo scopo, gli istituti emettono strumenti ad alto rischio: azioni e obbligazioni subordinate, adeguandosi alle disposizioni del “controller”.

-          Questi titoli, al posto di essere collocati presso investitori istituzionali vengono “spacciati” (è proprio il caso di dirlo) a gente sostanzialmente ignara attraverso una politica “commerciale” avallata dai vertici presso la rete attraverso la solita ricetta di minacce ed incentivi nei confronti dei collocatori.

-          Post operazione, salta fuori la leggina “Salva vertici”, la rete viene in parte abbandonata a se stessa e/o sacrificata di fronte al popolo in tumulto e i risparmiatori rimangono con il cerino in mano.

-          Dopo un po’ di clamore popolare, l’” Uomo del destino” del momento (toccherà a Renzi la parte?), accoglie i postulanti rappresentanti del popolo dei truffati e arrangia un po’ le cose. Alla peggio pagheranno i contribuenti!

Cerchiamo però di entrare un po’ più nel meccanismo esaminando più da vicino i singoli punti.
La Banca d’Italia effettua i suoi controlli e, giustamente, deve anche adeguarsi alle norme europee che, tra le altre cose, si occupano di garantire il sistema contro il dissesto degli istituzioni di credito (ci ricordiamo dell’ultima crisi legata ai mutui sub-prime?). Da anni l’Unione Europea e gli organi di controllo lavorano su norme e indicatori di solidità patrimoniali che dovrebbero limitare il rischio di dissenso bancario. Fin qui tutto bene! Quello che però non si riesce mai a capire bene è il “perché” la Banca d’Italia, una volta che siano state scoperti seri indizi di dissesto e di sbilancio patrimoniale non possa/voglia incidere di più promuovendo anche la messa in atto di processi più tempestivi nella messa sotto tutela di quelle istituzioni che danno segnali di preoccupazione e, in particolare, non si comprende bene perché in queste situazioni non si promuova fin da subito una politica più incisiva di risanamento diretta dall’alto e, tra l’altro finalizzata anche ad ottenere un serio e tempestivo ricambio di quei vertici aziendali che, avendo prodotto  tale situazioni negative, si sono chiaramente dimostrati non confacenti all’incarico. Ci sarà forse qualche remora che impedisce di agire tempestivamente contro soggetti che, non raramente, sono titolari di posti e rendite di posizione tipicamente allocati a lobbisti e attaché della politica? Il sospetto è legittimo …
Ma passiamo al punto successivo! Come abbiamo visto il processo di rifinanziamento passa di solito attraverso l’iniezione di nuovi capitali di rischio raccolti sotto varia forma. Nel nostro caso si è trattato soprattutto di azioni e obbligazioni subordinate. Questi, sono strumenti tipicamente speculativi e dovrebbero essere collocati solo presso investitori istituzionali e/o accorti e informati. Chiaramente, queste categorie di investitori si tengono ben distanti in questi casi da questo genere di impegni a meno che: il rendimento garantito sia “notevolmente alto” e quindi compensativo di un rischio altrettanto marcato e/o, intendano intervenire essi stessi direttamente nella gestione, presumibilmente estromettendo i preesistenti organi di controllo. Ecco quindi che si crea un altro elemento di cortocircuito del sistema. Per ottenere nuove risorse gli istituti coinvolti, o meglio, i vertici degli stessi, dovrebbero o attirare nuovi investitori a “interessi d’usura”, oppure lasciare le proprie comode poltrone ad altri che, mettendo i soldi, vorranno anche poter prendere le decisioni! Questo vorrebbe il “mercato”, ma questo è esattamente ciò che è inviso ai nostri vertici perché i “licenziati” in questo caso sarebbero esattamente loro!
Qual è la via di uscita quindi?
La “via di mezzo”, ovviamente, cioè quella di collocare “spazzatura” rischiosa ma a tassi accettabili per la banca (solo un po’ migliori di quelli ottenibili su attività prive di altrettanto rischio!) a investitori ignari del vero pericolo che stanno correndo.
E, qual è il modo attraverso il quale si riesce a fare ciò?
 Il solito modo, cioè applicare solo la “forma” delle leggi evitando, con la complicità di tutti (i potenti) di applicarle anche nella “sostanza”.
Ecco quindi che all’investitore viene fatta firmare un profilo di rischio complicato e incomprensibile e, quando serve, ecco che si usa la rete commerciale per irretire il cliente e costringerlo a modificare le posizioni più prudenziali. Tutto nel nome della “libertà” di scelta dell’investitore (che quando fa comodo si suppone laureato in economia!). Ma tutto ciò non basta!
 Cosa dovrebbe fare l’autority e non fa (almeno con chiarezza)?

 Essa dovrebbe classificare chiaramente i prodotti bancari in funzione del rischio costringendo le banche a fornire come prima cosa un documento molto sintetico (una pagina) in cui si metta in estrema evidenza il rischio per l’investitore. Immagino che, per esempio che, se per ogni forma d’investimento dovessimo firmare un foglio che presenta in bell’evidenza un grosso cerchio “rosso”, “giallo” o “verde” e portasse una grossa dicitura sulla sfondo con le parole “Alto rischio”, “Rischioso”, “Rischio limitato”, forse entreremmo un po’ più nello spirito dell’informativa che un “non addetto ai lavori” dovrebbe ricevere. Dopo di ciò, l’investitore dovrebbe ricevere l’intero regolamento del titolo e dovrebbe essere obbligatoriamente rispedito a casa a leggerselo! Se dopo un’opportuna meditazione già non lo capisce, evidentemente non si tratta di qualcosa che va bene per lui.
Riamane comunque il fatto, in ogni caso, certi tipi di prodotto non potrebbero essere presentati a soggetti che dichiarano un profilo “prudenziale”; sono gli stessi clienti, infatti che dovrebbero presentare istanza per il cambiamento del loro profilo di rischio e non viceversa. Solo dopo di ciò, si dovrebbe poter proporre loro prodotti strutturati sulla base del nuovo profilo. Tra l’altro, anche solo il sottomettere all’attenzione dei clienti strumenti non idonei dovrebbe essere considerato sanzionabile. Infine, forse si dovrebbe distinguere chiaramente la figura del consulente e quella del collocatore. Il primo avrebbe l’obiettivo di capire le esigenze del cliente e consigliarlo e, ove serve, anche scoraggiarlo fortemente ad effettuare avventure finanziarie di dubbio esito. Questi dovrebbe, in sostanza essere il “tutore” del proprio cliente. Il secondo, invece, si incarica di promuovere la vendita di prodotti che possano essere posti in relazione con le esigenze dell’investitore, ma dovrebbe, in primo luogo, superare le obiezioni del tutore, prima che quelle del cliente stesso (che diciamolo, spesso non è in grado di capire di cosa si sta parlando!).
Fatto tutto questo, si vedrebbe chiaramente quello che gli “addetti” sanno già, cioè, che la maggior parte dei prodotti bancari, soprattutto quelli che comportano i maggiori margini per le banche sarebbero per lo più invendibili per la fascia della clientela “retail” che si qualifichi anche come “prudente”. Non parlo solo degli strumenti finanziari che hanno dato scandalo in questi giorni (azioni e obbligazioni), ma anche di tutti gli altri prodotti assicurativi e previdenziali che, continuamente vengono normalmente proposti dalla rete (es. Unit linked, index linked, fondi pensione, fondi e Sicav, ecc.). Tutto finito!
Visto così è chiaro dunque il “perché” succedono queste cose. In altre parole è quasi impossibile mantenere l’enfasi sulla parola “tutela” e nel contempo, sperare anche di “far soldi” o spesso, persino, di rimanere entro un canale di “margini” accettabili e, di conseguenza, tutti fanno finta di non vedere e tirano avanti come sempre, sennò il sistema si inceppa!

giovedì 10 dicembre 2015

Decreto salvabanche: I risparmiatori hanno ragione? Parte 1


Il decreto “Salva banche”, recentemente applicato nei casi di dissesto della Banca dell’Etruria, Banca Marche, Carife e CariChieti, ha scatenato l’ira dei risparmiatori.
Ora, a parer mio, anche tenendo presente la rabbia legittima di chi è stato truffato dal proprio istituto di credito di fiducia, bisognerebbe fare le dovute distinzioni rispetto alle ragioni e all’opportunità di applicazione di tale decreto e, soprattutto, si potrebbe prendere in considerazione (eventualmente anche in sede europea) l'opportunità per procedere ad alcune modifiche dei principi che stanno alla base dello stesso.
Innanzi tutto, per entrare nel merito bisognerebbe distinguere fra due tipi di casistiche che, a parer mio, sono molto diverse fra loro:
-          I soggetti che hanno perso i risparmi in quanto titolari di azioni e obbligazioni degli istituti oggetto della procedura concorsuale.

-          I soggetti che hanno perduto la quota eccedente dei loro saldo di conto corrente rispetto a quanto coperto dal fondo di garanzia, attualmente fissato a 100.000 euro.
Anche se a prima vista questa può sembrare una posizione “dura”, personalmente, penso che la prima categoria di soggetti non debba venire tutelata. Questo anche in quei casi dove, purtroppo, gli istituti abbiano abusato della fiducia dei loro risparmiatori.
Forse il mio parere potrebbe apparire un po’ spietato ma, ricordo a tutti, che i prodotti finanziari sono prodotti speculativi, si viene remunerati anche in virtù dei rischi che si corrono e, pertanto, l’ignoranza non può essere portata a giustificazione dei propri errori d’investimento. In ogni caso, non si può pensare e sperare che sia la collettività a dover far fronte ai propri personali ammanchi.
Semmai, forse si potrebbe intervenire in maniera più radicale riguardo alla stesura dei profili di rischio dei risparmiatori, ad esempio, ai titolari di un profilo “basso”, certi prodotti non dovrebbero nemmeno essere presentati e, nel caso in cui questi vengano effettivamente collocati, allora sì, dovrebbe scattare qualche forma di assicurazione o garanzia a favore dell’investitore ignaro, ma nel contempo dovrebbe anche partire un’azione penale nei confronti del soggetto (parlo proprio dell’addetto bancario, non dell’istituto) che ha incautamente e forse fraudolentemente proposto e collocato strumenti non adatti al profilo di rischio dell’investitore. Insomma, se non si individuano correttamente le responsabilità e i soggetti di queste azioni a che cosa serve firmare tutte quelle scartoffie che ci propinano periodicamente gli istituti di credito?
Comunque, ribadisco il concetto, in quei casi nei quali l’investimento corrispondeva al profilo di rischio dell’investitore, nulla dovrebbe essere dovuto ne garantito. Queste sono le regole del gioco e se non si vuole fronteggiare la possibilità di una perdita si deve anche evitare di correre il corrispondente rischio.
Giudizio diverso per il secondo tipo di risparmiatori, per me andrebbero tutelati, anzi dico di più, secondo me bisognerebbe estendere significativamente le garanzie a favore di chi tiene i soldi sul conto corrente proprio al fine di evitare i rischi e, per esempio, sarei chiaro nel ricomprendere in queste casistiche anche gli investimenti finanziari che sono comunque di liquidità (es. i depositi a termine).
Per certi versi, mi rendo conto che il mio approccio potrebbe essere visto come paradossale, in fondo esiste già una garanzia notevole per questi soggetti (100.000 euro) e, di conseguenza, sembrerebbe che l’intenzione sia quella di tutelare chi è già ricco persino di più di quanto lo sia già! Penso però che non sia corretto vedere le cose in questo modo un po’ “populista”. La ratio sulla quale si basa il mio approccio benevolo verso i “correntisti” (come concetto esteso ai detentori di investimenti assimilabili alle posizioni di conto corrente) poggia sul fatto che l’investimento in liquidità non può certo qualificarsi come un investimento “rischioso”, anzi, è estremamente evidente l’intento dell’investitore di evitare i rischi.
Tra l’altro, chi non ha paura di nascondere la sua liquidità, magari ingente, difficilmente ha pendenze e “scheletri nell’armadio” nei confronti del fisco o di eventuali creditori, né, tendenzialmente è interessato a truffare gli enti attraverso dichiarazioni ISEE mendaci. In pratica, un alto saldo di conto corrente, può anche essere visto come un indice, seppur rozzo, della “trasparenza” di un certo soggetto e, come tale, questa forma d’impiego andrebbe incentivata rispetto ad altre più “furtive” e sospette (es. oro, brillanti, titoli al portatore, rapporti di gestione aperti presso fiduciarie, ecc.).
A tutto ciò ci sono poi da aggiungere alcune considerazioni di ordine più pratico. La prima è semplicissima, i soldi, se si ha la fortuna di averli, da qualche parte bisogna pur metterli! E allora che si fa se si possiede più di 100.000 euro e li si vuole tenere liquidi? Si apre un c/c presso un altro istituto? Questa sarebbe l’unica soluzione prospettata attualmente perché garantirebbe anche su questi nuovi depositi l’estensione della garanzia; tale approccio però ha il difetto di essere poco pratico, inutilmente costoso, nonché meno trasparente per tutti coloro che hanno buone ragione legali per accertare l’origine e l’ammontare di queste sostanze.
In sintesi,  non capisco perché non si incentiva di più il risparmiatore a seguire soluzioni semplici e trasparenti rimuovendo anche quei residui elementi di rischio che non portano nessun vantaggio alla collettività.
In pratica servirebbe verificare I presupposti che regolano il fondo di garanzia che, per mio conto, dovrebbe essere innanzi tutto uno strumento per tutelare le forme di risparmio svincolandole dai destini degli istituti presso I quali esse vengono funzionalmente poste in essere, nel contempo, mantenendo un occhio di riguardo anche rispetto alle ragioni, alle forme e alle funzioni di tale risparmio. Il fondo di garanzia, invece, non ha nessuna ragione per effettuare un'opera di tutela nei confronti di chi si assume un rischio speculativo nei confronti del quale, è il singolo investitore che deve provvedere a cautelarsi.
 

martedì 10 novembre 2015

CINQUANTA!


Oggi compio cinquant’anni e mi sento in dovere di venire incontro a quelli che soffrono gli anniversari decennali. Normalmente è una sindrome che comincia intorno ai quarant’anni, ma alcuni percepiscono già come fastidiosa la soglia dei trenta. Anche se tutto ciò è vagamente illogico perché è indubbiamente evidente che si invecchia giorno per giorno e non a scaglioni, da un punto di vista meramente simbolico, mi sento di dare ragione a chi comincia a preoccuparsi per l’approssimarsi dei fatidici “enta”, mentre ritengo meno giustificato tanto pessimismo per coloro che caracollano in mezzo alle prime decine degli “anta”; da quelle vette, infatti,  se sei stato anche solo un po’ fortunato e/o accorto, il paesaggio, almeno per un po’ tende a migliorare.
Provo a spiegarmi meglio …

Mi ricordo il periodo fra i trenta e i quaranta come uno dei più faticosi della mia esistenza. Per il mondo sei definitivamente “grande”, non hai più scuse. Questa qualifica infamante di norma presuppone una serie quasi infinita di fregature e, di conseguenza, da te ci si aspetta impegno a trecentosessanta gradi (o forse a novanta?): devi essere compagno responsabile e assennato (questa parte, in effetti non mi è pesata per nulla J, per adesso, infatti sono stato molto fortunato … di questo devo ringraziare la sorte ed anche, ovviamente, la mia compagna), spesso, padre presente e amorevole, ma soprattutto, gran lavoratore. Quest’ultima è ovviamente la parte peggiore! Lavorare, si sa, continua a rimanere più che altro una spiacevole necessità per la maggior parte degli uomini. Non avere un lavoro è tragico e averlo, persino quando si è tanto fortunati da svolgere un’attività che non sia sottopagata e/o precaria, risolve solo parzialmente i problemi e si traduce spesso in un’attività, almeno in parte priva di senso, tediosa, frustrante, stressante, formale e non avulsa da aspetti darwinisti fondati, però, su regole che si sono allontanate troppo da quelle di natura per essere istintivamente completamente comprensibili (per esempio, non puoi uccidere nessuno, e questo è spesso male; però, normalmente non si viene mangiati dalle tigri quando si fa un errore! E questo è pur sempre un vantaggio J). A peggiorare le cose c’è poi il problema che la nostra società mira a produrre studenti eterni fino alla soglia dei trent’anni, centometristi della carriera fra i trenta e i quaranta (a trentacinque sei già potenzialmente un mezzo fallito!) e “trombati” dai trentasette in su! Un ciclo di vita un tantino distorto, tenendo presente che (è questa sì che è una tragedia per noi cinquantenni con un sacco di idee, interessi e cose da fare), dovremo probabilmente continuare a lavorare fino a 99 anni senza avere una reale speranza di andare in pensione e voltare definitivamente le spalle ad un mondo (quello del lavoro) generalmente votato all’insensatezza. Diciamolo, non era male quando, proprio intorno ai “cinquanta” potevi cominciare a fare il conto alla rovescia e fantasticare sui progetti riguardo a come avresti investito il TFR che, per inciso, quando sarà venuto per noi il momento di incassarlo, ci sarà stato sicuramente scippato da qualche brillante riforma pensionistica.
Tutto finito! E ci tocca accettare le cose come stanno!
Rispetto alla "ruota del criceto" dei "trenta", Il panorama dai “quaranta” in poi, tende invece a rischiararsi e, se sei stato fortunato e, diciamolo, se anche ti sei “sbattuto” un po’ (perché le cose raramente vanno a posto da sole), a “cinquanta” rischi persino di incontrare un clima come quello che trovo in questi splendidi giorni di novembre (invero, un po’ aiutati dal surriscaldamento climatico!); un periodo magico della vita indubbiamente fugace, ma brillante, calmo e piacevole come una bella “estate di San Martino” …
 Innegabilmente è autunno, ma non è ancora inverno!

Volente o nolente scopri che sei quasi fuori delle mischia, forse hai perso qualche pezzo navigando i proverbiali sette mari, ma se va bene, se hai ancora un pizzico di fortuna (o almeno, non “sfiga”) puoi limitarti a osservare ogni vicenda un po' più da lontano e solo perché non è ancora il momento e non ti puoi ancora permettere di lasciare andare le cose, purtuttavia, non sei più nell’occhio del ciclone. Il tuo mondo lo controlli bene, senza molto sforzo (anche perché, questi “giovani” fanno poi tutta questa paura? Hai voglia!). Ne esci come un vecchio gattone, un po’ malmenato ma ancora pronto all'ultima zampata (ma sarà veramente l'ultima?) da mollare se c’è l’occasione e se proprio ti interessa, però non ti senti più tenuto a partecipare a tutte le risse a prendere di slancio tutte le trincee ..., non hai già forse fatto molto? Magari non tutto quello che volevi, ma pazienza! Forse ci sarà ancora occasione, sennò amen! Forse hai anche più di un rimpianto ma adesso, almeno in senso relativo, sei “più in alto” e guardi il tuo mondo con gli occhi del rocciatore che ammira le valli sottostanti. Il fiume nel fondo valle scorre tranquillo e argentino e, come il tempo non si fermerà e non va fermato. Certo, verrà presto il momento di scendere in basso, verso l’ombra e questo lo sappiamo! Speriamo che sia una bella passeggiata, ma per adesso … godiamoci il bel paesaggio!

 Carpe diem.
 

domenica 8 novembre 2015

Recensione: Crimea – L’ultima crociata


“Crimea – L’ultima crociata”, di Orlando Figes, edizione Einaudi, ISBN: 978-88-06-22424-0.
La guerra di Crimea (1853-1856) fu uno dei conflitti più importanti del diciannovesimo secolo. Fece più di 800.000 morti fra civili e militari, produsse intensi fenomeni di pulizia etnica e di ricollocazione di intere popolazioni (dopo di essa, ad esempio, i tartari di Crimea finirono di essere maggioranza!) e non pochi effetti di lungo periodo sia nel contesto europeo (ad esempio accelerando il processo dell’unità d’Italia) sia in quello asiatico e medio-orientale (fu, di fatto, l’evento scatenante che portò al “Grande Gioco” la strategia di mutuo contenimento che contrappose  inglesi e russi in quelle aree!).   Eppure si tratta di un evento oggi quasi dimenticato, tenuto piuttosto in ombra nei testi scolastici. Raramente viene rammentato, neppure quando episodi recenti, come è avvenuto nel caso del distacco di questa area geografica dall’Ucraina nel 2014, trovino una loro spiegazione e un profondo collegamento con i miti collettivi e nazionali originati da questo lontano conflitto. Non si può capire, infatti, tanto accanimento, tanto fervore se non si tiene conto, per esempio, di cosa significhi per la Russia il ricordo delle gesta dell’assedio di Sebastopoli!
L’Autore ricostruisce egregiamente le cause e la genesi del conflitto e le vaste conseguenze che seguirono la sua conclusione. Egli, tra l’altro, propone una tesi riguardo alle origini della guerra che non può che intrigare, stupire e scioccare quei lettori che ormai interpretano queste tipologie di eventi soprattutto sulla base dell’esigenza della Realpolitik. Egli, infatti, attribuisce buona parte delle responsabilità del conflitto alle tensioni ideologiche alle esigenze di propaganda e, soprattutto, a quelle di natura religiosa che contrapponevano i vari attori in campo.
Per certi versi, quindi, la guerra di Crimea fu l’ultima crociata in cui fu realmente sentita in Occidente l’esigenza di esercitare il controllo su luoghi simbolici quali Costantinopoli e i Luoghi Santi. Essa, come le altre prima di lei, non fu solo una ragione di conflitto contro l’Islam, ma fu anche percepita, per quanto riguarda la cristianità ortodossa, come la missione della “terza Roma”, contro il mondo musulmano ma anche in opposizione alle altre accezioni e interpretazioni del Cristianesimo.

Recensione: Sherlock Holmes e le trappole della logica

"Sherlock Holmes e le trappole della logica”, titolo originale: “Conned Again, Watson”, di Colin Bruce, traduzione di Luca Scarlini e Lorenzo Stefano Borgotallo, Raffaello Cortina editore, ISBN: 978-88-7078-712-2.

La traduzione del titolo in italiano risulta un po’ fuorviante perché questo bel libro è più incentrato sulle applicazioni del calcolo delle probabilità rispetto a quanto faccia effettivamente riferimento alla sola applicazione della logica deduttiva.

L’Autore si serve della famosa copia costituita da Holmes e Watson per illustrare una serie di micro enigmi fra essi concatenate, con l’intenzione di svelarci alcune applicazioni ingegnose del calcolo combinatorio, ma anche per mettere in guardia il lettore riguardo alla scorretta applicazione delle informazioni che possono derivare da un’osservazione superficiale e da una non corretta valutazione dei fattori di scala.

La morale è che il ragionamento scientifico è uno strumento potente del pensiero, ma anch’esso non è privo di insidie e la sua cattiva applicazione può portare altrettanto lontano dalla verità quanto la superstizione, l’istinto, oppure la banale ignoranza.

Leggero, scorrevole e educativo!

domenica 18 ottobre 2015

Recensione: Contro le elezioni – Perché votare non è più democratico


“Contro le elezioni – Perché votare non è più democratico”, titolo originale: “Tegen verkiezingen”, di David Van Reybrouck, traduzione di Matilde Pinamonti, Feltrinelli editore, ISBN: 978-88-07-17295-3.
L’istituzione politica della democrazia sta attraversando un periodo di crisi particolarmente evidente proprio in quei paesi nei quali essa ha avuto origine. In tutte le democrazie occidentali, da anni crescono costantemente l’astensione al voto e la sfiducia verso politici e partiti, mentre si diffonde la sensazione che il regime democratico non sia sufficientemente rapido, decisionista ed efficiente per affrontare le nuove sfide che si intravvedono per il futuro.
Questo breve saggio cerca in maniera sintetica di analizzare le principali cause di tale crisi e propone qualche strumento correttivo facendo innanzitutto riferimento alla storia delle istituzioni democratiche.
Interessante la tesi di fondo: la nomina di delegati attraverso un meccanismo elettivo non è l’unico modo per affrontare il problema della rappresentanza, né forse il migliore, né tanto meno quello che ha caratterizzato alcune rilevanti esperienze democratiche del passato, prima fra tutte quella Ateniese. Ma quale sarebbe invece, oltre alle forme di democrazia diretta, un’alternativa credibile alle votazioni di candidati professionisti? La risposta dell’Autore è semplice (anche se solo in apparenza!) quanto inattesa e sconcertante: bisogna ricorrere a metodi d’estrazione casuale! Sistemi che, in passato erano tutt’altro che inusuali. Questo era anche il modo che veniva impiegato per eleggere i principali organi rappresentativi dell’antica città ellenica durante la sua età dell’oro, cioè: il Consiglio dei cinquecento, il Tribunale del Popolo e la Magistratura, ma che venne anche utilizzato diffusamente in altri contesti lungo tutto il medioevo e il periodo rinascimentale.
Ancora più sorprendente, è la tesi dell’Autore che insinua qualche dubbio rispetto ai veri obiettivi dei sistemi elettorali settecenteschi. Egli spiega come il ricorso alle elezioni dei primi regimi repubblicani, lungi dal doversi considerare come metodi genuinamente democratici, fossero stati istituiti per garantire una composizione elitaria delle camere rappresentative (di origine borghese e aristocratica) a tutto discapito dei ceti più popolari e meno abbienti.
Di conseguenza, ecco che l’Autore cerca, da una parte di spiegare che siamo intrappolati in un ragionamento pregiudizievole che egli definisce “fondamentalismo elettorale” che dà per scontato il nesso necessario democrazia-elezioni, mentre dall’altro illustra i risultati di un altro modo di procede e intendere la democrazia, la cosiddetta “democrazia deliberativa”, che si basa sull’utilizzo dell’estrazione casuale per sostituire e/o integrare il funzionamento degli esistenti organismi di rappresentanza e che ha già prodotto risultati concreti in alcuni casi tanto rilevanti quanto insospettabili.
Si tratta quindi di un saggio che, personalmente, ho trovato molto interessante; anche se, devo comunque avvertire che, collocandomi anch’io fra gli scontenti della politica e conoscendo già le antiche tecniche dei “ballottaggi”, avevo già autonomamente accarezzato queste idee ed ero, conseguentemente, un soggetto adatto ad accogliere prontamente le proposte dell’Autore.
Ho invece trovato criticabile il titolo dell’opera, almeno per come si presenta nella versione italiana. Personalmente, ho dato fiducia all’Autore solo sulla base di una sua opera precedente (“Congo”, Feltrinelli, ISBN: 978-88-07-49177-1), che verte su tutt’altro argomento; diversamente invece, salvo esplicite segnalazioni, difficilmente avrei scelto un saggio con un titolo così poco accattivante.

 

Recensione: Les Revenants – Quando ritornano


“Les Revenants – Quando ritornano”, titolo originale: “The Returned”, di Seth Patrick, traduzione di Gianna Lonza, Piemme editore, ISBN: 978-88-566-4784-6.
In una cittadina di montagna, dominata da una grande diga, il bacino si svuota lentamente senza che si riesca a determinare le cause del deflusso dell’acqua. L’abbassamento del livello comincia a fare riemergere l’antico abitato sommerso che giace in fondo all’invaso e con esso ricominciano a circolare vecchie storie e antiche leggende. Fatto ancora più eccezionale, i morti ritornano! Non tutti, non tanti, solo alcuni, alla spicciolata e senza una logica e una ragione apparente. Non si tratta però dei “soliti” ritornanti della letteratura horror, tenebrosi spettri vendicativi o zombi marcescenti, ma di persone “normali” che si ripresentano a casa come niente fosse, immemori della propria sorte e della causa che ha prodotto la loro prematura dipartita. Essi ritornano esattamente, con la medesima età apparente, con i medesimi abiti e fattezze con i quali sono stati interrati, magari molti anni prima; sono molto affamati (ma mangiano cibo “normale” J) e non riescono a dormire, ma per il resto non differiscono da ciò che erano in vita.
Comprensibile lo shock reciproco e il miscuglio di sentimenti che tocca sia i vivi sia i redivivi; i primi, magari dopo anni di crisi e elaborazione del lutto, si ritrovano improvvisamente davanti i loro cari non-più-estinti, per i quali, hanno intensamente pregato e desiderato il ritorno, ma intanto la loro vita è andata avanti ed è cambiata senza di loro; mentre i secondi, sono costretti a prendere coscienza della propria morte e dei mutamenti che sono ormai avvenuti in seno alle proprie famiglie di allora, ai propri parenti o ai propri partner e dello scompiglio che crea la loro rivenuta. Tutti poi sono costretti a riflettere sul mistero che avvolge le ragioni di questo inspiegabile ritorno; perché sono tornati solo alcuni e non tutti? Qual è la causa e lo scopo di tutto ciò? Si stanno forse realizzando le antiche profezie bibliche annunciate nell’Apocalisse? … e nel frattempo si diffondono episodi inquietanti che lasciano intendere come questa innaturale coabitazione possa anche essere pericolosa!
Mi ero informato riguardo a questa idea narrativa quando avevo incontrato i riferimenti alla storia nel romanzo di Emmanuel Carrère “Il Regno” (Adelphi, ISBN: 978-88-459-2954-0) dove, un breve commento autobiografico dell’Autore spiegava che aveva curato la sceneggiatura di quella che sarebbe diventata una serie tv di grande successo in Francia; ma allora, non era ancora uscito (almeno in Italia) questo bellissimo romanzo scorrevole, coinvolgente ed incalzante, più thriller che horror e, comunque, lontanissimo dal genere zombie-splatter che, trovo francamente e a “pelle” un po’ ridicolo (in realtà non ho mai letto romanzi appartenente a questo “genere”!).  
L’idea alla base del romanzo è invece veramente interessante e, oltre a garantire una trama avvincente, induce anche a qualche riflessione profonda sul significato della vita e della morte.

giovedì 1 ottobre 2015

Recensione: Laudato Sì – Testo integrale dell’Enciclica


“Laudato Sì – Testo integrale dell’Enciclica”, di Jorge Mario Bergoglio (Papa Francesco), Piemme Editore, ISBN: 978-88-566-4894-2.
 
Si tratta di un documento esplicito, semplice e diretto che affronta alcune tematiche, la cui ricerca di soluzione diviene sempre più urgente. L’Enciclica, scritta forse anche in prospettiva della prossima Conferenza delle Parti della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC), che si terrà a Parigi a partire dal prossimo novembre, è incentrata sul tema della tutela dell’Ambiente.
 
Con tale termine deve intendersi non solo tutto ciò che è legato alle problematiche dell’inquinamento, dei cambiamenti climatici o all’eccesso di sfruttamento delle risorse, ma anche ciò che riguarda più strettamente l’organizzazione, il modo di vivere, i riferimenti etici, morali e culturali delle società umane.
 
In estrema sintesi, il Pontefice condanna ogni forma di eccesso che possa riguardare l’iniquo sfruttamento di uomini e natura e, senza mezzi termini, si schiera contro l’ipocrisia di chi mette in dubbio le cause umane del deterioramento ambientale e dell’iniqua ripartizione delle ricchezze e delle risorse mondiali.
 
Ricordando a tutti, ma soprattutto ai cristiani, l’imperativo biblico di custodire il creato, su un piano più strettamente culturale egli sembra aggiungersi al coro, sempre più nutrito, di soggetti che invitano alla ricerca della “Vita Buona” intesa in senso aristotelico, cioè, attiva, responsabile, armonica e priva, per quanto possibile di eccessi.
 
Dal mio punto di vista, ho trovato questa Enciclica piuttosto interessante. Non tanto per i contenuti di ogni singolo punto che, dovrebbero essere noti o (ri)conoscibili da tutti coloro che si sforzano di osservare le cose con un minimo di obiettività, ma perché sembra proclamare senza ambiguità una vera e propria scelta di campo ideologica, quantomeno, da parte del Pontefice (non è dato sapere se dell’intera ecumene!). Difficile, infatti, non leggere una seria condanna degli eccessi del capitalismo, della mercificazione della ricerca scientifica, del modello consumista, delle sperequazioni nella distribuzione della ricchezza, delle pseudo-scienze economiche che illudono la gente riguardo alle reali possibilità di crescita infinita, dell’individualismo e della scarsa lungimiranza nei confronti delle successive generazioni. Dall’altra parte, ravviso dei tentativi di lasciarsi alle spalle alcuni aspetti di tradizionalismo bigotto, in primo luogo, proprio questo sforzo, che appare genuino, di smarcarsi dai “Potenti” di porsi in contrapposizione ad essi, dall’altra, l’emergere di un maggior senso di tolleranza verso alcune forme di comportamento sociale non proprio in linea con l’ortodossia, ma, soprattutto, la manifestazione di un certo spirito modernista e progressista che lascia spazio ed ha fiducia nella scienza “Buona” e nella tecnologia quando esse siano applicate a beneficio di tutti per il miglioramento delle condizioni di vita e dell’intero ambiente.

venerdì 18 settembre 2015

Recensione: Il Paese Reale – Dall’assassinio di Moro all’Italia di oggi


“Il Paese Reale – Dall’assassinio di Moro all’Italia di oggi”, di Guido Crainz,  Donzelli Editore, ISBN: 978-88-6036-732-7.
L’Autore nell’ultimo libro di una trilogia che comprende: “la storia del miracolo italiano” e “il paese mancato”, ripercorre la storia italiana dalla fine degli anni settanta del novecento (Aldo Moro fu ucciso nel maggio 1978) fino al 2012.
Personalmente, ho apprezzato molto questa ricostruzione dei fatti, anche se, penso di poter far notare che da un punto di vista della metodologia utilizzata ai fini della loro ricostruzione, l’Autore abbia tenuto troppo in considerazione le citazioni dei personaggi e i titoli di cronaca apparsi sui quotidiani a detrimento di altri tipi di documentazione che, a rigore, potrebbero essere considerati più oggettivi. Egli però può essere giustificato per questa scelta in quanto, in fondo, si tratta ancora di fatti e di storia molto recente e intorno ai quali prevale ancora l’aspetto dell’inchiesta giornalistica, non immune da un certo fervore ideologico, più che l’approccio basato sul confronto con altre fonti e il ricorso a documentazione d’archivio.
E’ dunque difficile apparire imparziali e, a questo proposito, anche il sottoscritto non rientra fra le eccezioni ed anche per me è assai difficoltoso formulare un giudizio obbiettivo su questo periodo.  Questa difficoltà è innanzitutto dovuta ad un aspetto puramente anagrafico, infatti, il lasso di tempo preso in considerazione rappresenta il paesaggio e la scenografia entro il quale ho passato la maggior parte della mia esistenza. Ero un giovane liceale sul finire degli anni settanta, uno dei tanti studenti universitari nella seconda metà degli anni ottanta, giovane lavoratore nei primi anni novanta e infine neo genitore alle soglie del nuovo millennio! Il libro di Crainz ha dunque, per molti versi, riavvolto la bobina del film della mia vita (della quale, per fortuna, fino ad oggi non posso lamentarmi!) e mi ha fatto rivivere la parte peggiore di essa rammentandomi la visione del disastroso contesto politico di quegli (e questi) anni determinato dalla profonda immaturità di un’intera società civile profondamente irresponsabile e priva di senso civico; la triste fiaba di un paese egoista che non poteva che condurre la nazione al fallimento nonostante le sue grandissime potenzialità.
 Peccato davvero!
…. Che musica però in questi "stramaledetti" anni ottanta-novanta! :-)

martedì 8 settembre 2015

Problema migranti: Analisi di un approccio discutibile


Problema migranti: Lavorano e fanno figli: così i migranti finanziano l'Europa _ Analisi di un approccio discutibile.

Dopo le aperture della Germania nei riguardi del problema relativo all’accoglienza dei profughi sembra cambiato il clima politico riguardo a questo tema che, effettivamente negli ultimi mesi ha raggiunto un certo livello di criticità e non sembra accennare ad arrestarsi. Non è ancora chiaro cosa abbia fatto cambiare il vento, forse la semplice impossibilità di arrestare il fenomeno senza poter ricorrere a metodi scopertamente antidemocratici, oppure a causa di ragioni più profonde di ordine politico, economico e/o demografico. In ogni caso, già si percepisce anche il mutamento di come il tema viene affrontato dai mezzi d’informazione che, dopo aver trattato la questione sottolineando più gli aspetti umanitari, il fenomeno dello sfruttamento e le frizioni che tali sommovimenti finiscono per creare presso i paesi di accoglienza, adesso cominciano a spostare il “tiro” sugli aspetti benefici e sulle opportunità positive che possiamo aspettarci da tale esodo.

Ad esempio, oggi su La Repubblica appare quest’articolo:


Che comincia a spiegare al “popolo” come il fenomeno dell’immigrazione, ben lungi dall’essere problematico deve essere visto come un’indispensabile opportunità da cogliere al fine di mantenere in adeguato equilibrio i nostro squilibrati e dissestati sistemi pensionistici, minati alla base da una popolazione locale sempre più senescente.

Non contesto, ed anzi condivido in parte queste argomentazioni. Esse, viste alla luce dell’attuale quadro normativo su cui si basa la nostra previdenza, mi sembrano assolutamente coerenti; mi permetto però di ironizzare sul fatto che tali ragioni avrebbero potuto anche essere fatte valere già molti mesi (se non anni) fa! E, pertanto, mi sorprende un po’ la coincidenza che esse appaiano solo adesso in tutta evidenza, proprio nel momento in cui la linea politica tende a cambiare se non, persino, a rovesciarsi!

Dunque, lasciamo stare per un attimo gli aspetti umanitari legati a questo fenomeno che, a parer mio, rimangono quelli veramente rilevanti sia sul piano etico sia su quello sociale e torniamo al messaggio: “L’apporto migratorio è fondamentale per la stabilità dei nostri conti pubblici”. Questo è probabilmente vero, a rigore, solo sulla base dello “status quo”, ovvero, solamente se si affronta il problema sulla base della sola demografia e della permanenza delle regole attuali evitando quindi di prendere in considerazione anche altri scenari che, ad esempio, implichino ulteriori modifiche dei nostri sistemi pensionistici e sanitari. Ci sarebbero infatti almeno due approcci diversi percorribili per risolvere il problema della stabilità dei conti relativamente a queste voci: il primo si basa sul tentativo di mantenere un rapporto equilibrato fra giovani attivi e anziani pensionati; il secondo renderebbe necessarie l’istituzione di nuove regole al fine di rompere (finalmente) l’attuale patto (sarebbe meglio dire “vincolo”!) generazionale che sta alla base dei nostri sistemi pensionistici. Questi ultimi nonostante la pressoché totale applicazione di sistemi contributivi, si basano ancora su metodi che, di fatto, erogano le pensioni correnti non con i frutti delle rendite e dei contributi maturati dai percipienti, ma con quanto versato dai futuri aventi diritto. In altre parole le pensioni attuali sono pagate con i contributi correnti di chi andrà in pensione a suo tempo e, il trattamento di questi ultimi sarà calcolato non come conseguenza di investimenti fatti con il proprio denaro (buoni o cattivi che essi siano!) ma in funzione di regole prestabilite che, tra l’altro, potrebbero sempre essere messe in discussione nel momento in cui il sistema non si “regga” (come è stato fatto spesso in passato)..Tutto ciò, non è tanto dovuto a questioni di mutualità ed equità quanto al perverso lascito delle gestioni allegre del passato. Pochi, ad esempio, si soffermano a porsi la seguente domanda: “Perché un sistema contributivo mi costringe ad andare in pensione solo ad una certa età e non quando ritengo di avere una rendita vitalizia sufficiente?” Bene! La ragione fondamentale di ciò è da ricercare in quanto esposto poco sopra.

Tornando a noi, se ci si basa sul primo approccio (quello basato sull’equilibrio demografico), come conseguenza si possono e si devono fare affermazioni come quella che segue e che è contenuta nel sottotitolo dell’articolo citato: “Per salvare le nostre pensioni servono 250 milioni di rifugiati entro il 2060. Ecco perché per gli economisti sono una risorsa”. Per seguire coerentemente questa strategia di lungo periodo però, si dovrebbero anche discutere una serie di questioni di fondo, che, invece, lasceremo (come sempre) da risolvere alle generazioni future. Ad esempio ne sottolineo solo alcune:

- Stiamo basandoci su un modello che implica una crescita demografica indefinita. Questo, infatti, a livello globale, mi sembra l’unico modo per garantire la permanenza di un certo rapporto fra nuove e vecchie generazioni anche per i secoli a venire. Siamo sicuri che questo sia un modello sostenibile? Non sarebbe invece più cautelativo cercare di immaginarsi sistemi che mantengano la propria efficienza anche in presenza di una crescita stagnante o negativa della popolazione o che, quantomeno, tengano in conto un’alterazione sensibile (che già sta avvenendo) fra gli equilibri generazionali all’interno della stessa?

- Stiamo anche sostenendo che tale popolazione crescente dovrà mantenere un elevato o almeno equilibrato tasso occupazionale. Siamo sicuri anche di questa affermazione? Tra l’altro, mi sembra che si dia anche per scontato che tale livello occupazionale riguardi posizioni di una certa qualità e stabilità, quantomeno, non certo minate alla base da aleatorietà, basse remunerazioni e precariato. Dove e come pensiamo di trovare tali ulteriori occasioni di occupazione nel prossimo futuro (e qui da noi nei nostri paesi!) sulla base di quanto possiamo vedere già oggi?

Si dà quindi per scontato che tutte queste soluzioni ce le darà il “progresso” anch’esso, ovviamente, destinato a proseguire indefinitamente e, soprattutto a un tasso adeguato per risolvere senza eccessive frizioni tutti questi problemi socio-eco-ambientali, Personalmente, invece, comincio a sospettare che il genere umano non abbia ancora capito che ormai non si può più permettere il “laissez faire” del passato e l'affidarsi alla futura provvidenza per la soluzione delle variabili lasciate indefinite; ormai, infatti, siamo troppo diffusi e invasivi per poterci permettere di evitare di pianificare le nostre scelte senza chiarire le modalità attraverso le quali pensiamo di risolvere i problemi, possibilmente, senza compromettere gli equilibri esistenti. Per esempio, mi sembra che anche una conoscenza solo approssimativa delle dinamiche demografiche in atto debba portare ad accettare che la crescita della popolazione umana a 11 miliardi attorno alla data convenzionale del 2050 sia ormai cosa fatta (salvo tragedie che nessuno vuole invocare al fine di alleggerire questo dato). Dunque ci toccherà gestire e possibilmente non subire passivamente questo fenomeno e, già da adesso, per esempio, bisognerebbe cominciare a chiedersi se è il caso di proseguire oltre con questo trend dopo tale data e come fare, eventualmente per invertire questa tendenza!

Detto in altre parole pensare che a lungo termine ci si possa veramente poggiare su organizzazioni e modelli socio-economici che diano per scontata e necessaria la crescita infinita di alcune variabili fondamentali come la popolazione, la crescita economica e quella occupazionale (che non sempre va al pari passo con la crescita economica!); o che necessitino, per costruzione, il mantenimento di certi rapporti fra le stesse (ad esempio, un certo rapporto fra giovani attivi e anziani assistiti) mi sembra, quantomeno, contro intuitivo.

mercoledì 2 settembre 2015

Recensione: Il Cervello Anarchico


“Il Cervello Anarchico”, di Enzo Soresi, edizioni Utet ISBN: 978-88-418-9792-8
 
Forse il titolo di questo saggio può risultare fuorviante perché non si tratta dell’ennesima incursione speculativa su un tema di moda qual è attualmente quello delle neuroscienze e, in effetti, l’opera di Soresi può lasciare perplessi anche solo per il fatto che risulta un po’ strano che un medico, specialista di oncologia polmonare abbia scritto un libro che ha come protagonista il cervello.
 
Le ragioni di questa scelta, in effetti, a pare mio, emergono nel corso dell’opera nella quale l’Autore, attraverso la sua esperienza professionale, descrive il delicato equilibrio e le relazioni fra i sistemi nervoso, endocrino e immunitario, determinanti nello spiegare, almeno in parte, i diversi livelli di risposta soggettiva alle cure somministrate a diversi pazienti per le medesime patologie.
 
A mio avviso Soresi riesce a trasmettere al lettore l’importanza di avere nei confronti del nostro organismo una visione unitaria che ne colga le caratteristiche salienti nel suo complesso e che tenga presente le complicate interconnessioni che caratterizzano il suo equilibrio omeostatico; all’opposto, sarebbe da rifuggire una visione troppo specialistica e meccanicistica che si focalizzi eccessivamente solo sul funzionamento (o malfunzionamento) di singole aree e comparti. Questa visione “dall’alto” gli permette di ricordarci che la medicina non può essere considerata alla stregua di una scienza esatta; essa si colloca in un territorio di frontiera dove le risorse psicologiche del paziente, le intuizioni del medico e il ricorso ai metodi sperimentali possono fare la differenza nel determinare la guarigione o, quantomeno, nell’allungare la speranza di vita di fronte ad una patologia grave e/o terminale. In questa “pratica” medica, solo il dogma viene bandito mentre tutti gli altri strumenti, placebo e pratiche alternative compresi, possono essere tenuti in degna considerazione e a disposizione come strumenti finalizzati al benessere del paziente.

martedì 25 agosto 2015

Recensione: Un Anno sull’Altipiano


“Un Anno sull’Altipiano”, di Emilio Lussu, edizioni Einaudi, ISBN: 978-88-06-21917-8.
 
Si tratta di un classico sulla Prima Guerra Mondiale scritto dall’Autore fra il 1936 e il 1937 durante una convalescenza in Svizzera e pubblicato in Francia nel 1938 (Lussu era un fuoriuscito antifascista fuggito dal confino e, pertanto, egli non poteva rientrare in patria). Il libro venne pubblicato in Italia per la prima volta solo nel dopoguerra.
 
Gli eventi trattati riguardano un solo anno di guerra, fra il giugno 1916 e il luglio 1917, periodo entro il quale la Brigata Sassari fu trasferita sull’Altipiano di Asiago per arginare l’offensiva della truppe austro-ungariche attuata nel corso della “Strafexpedition", (“Spedizione punitiva”).
 
Lussu scrisse il suo resoconto solo a seguito delle forti pressioni esercitate da Gaetano Salvemini, suo grande amico e compagno di lotta contro il regime fascista e forse, proprio per questo, il libro si presenta sotto forma di un memoriale molto “asciutto” (circa 200 pagine), sobrio, incredibilmente scorrevole, coinvolgente ma, curiosamente privo di eccessi retorici. Ciò mi appare singolare, se si tiene conto che l’Autore non nasconde ne rinnega il fatto di essere stato un giovane studente “interventista”.
 
Coerentemente, egli si arruolò volontario per la Grande Guerra e ne uscì con il grado di capitano dopo essere stato decorato più volte per atti di coraggio (fonte Wikipedia); eppure, a parer mio, in “Un Anno sull’Altipiano” emerge il ritratto di una figura pacata, lontanissimo dalla prosopopea dell’eroe marziale, agli antipodi rispetto a figure guerresche e grottesche quali ad esempio, il nostro “vate” nazionale, Gabriele D’Annunzio.
 Osservatore attento e empatico nei confronti dei propri commilitoni e persino dei suoi avversari, per i quali è capace di parole d’ammirazione, non ama evidentemente i paroloni e le frasi altisonanti e si limita a descrivere la realtà della guerra per quel che è, facendo ricorso ad uno stile da cronista moderno che, a parer mio precorre i tempi. Semmai, egli, pone una certa enfasi nello stigmatizzare l’incredibile stupidità, disumanità, supponenza e impreparazione degli ufficiali di grado superiore e, in poche pagine riesce a rendere chiaro al lettore dove va il merito del successo italiano, tutto da ascrivere alla tenacia, al coraggio e allo spirito di corpo di soldati e ufficiali inferiori e non certo dovuto alle doti tattiche e strategiche dei nostri alti comandi.

martedì 18 agosto 2015

Recensione: Liberi Servi– Il Grande Inquisitore e l’enigma del Potere


“Liberi Servi– Il Grande Inquisitore e l’enigma del Potere” di Gustavo Zagrebelsky, edizioni Einaudi, ISBN: 978-88-06-20458-7.

Il saggio è incentrato su la “Leggenda del Grande Inquisitore”, uno dei capitoli più noti de i “Fratelli Karamazov”, di Fëdor Dostoevskij. A partire da quel testo, Zagrebelsky estende la sua analisi un po’ all’intera produzione letteraria del noto scrittore russo tracciandone un excursus che mette in evidenza il progressivo approfondimento dei temi cari all’Autore: la distorsione attuata dal cattolicesimo (contrapposto al mondo ortodosso) del messaggio cristiano, il rapporto “necessario” che sussiste fra i concetti di “Bene” e “Male”, gli effetti corrosivi del nichilismo, l’ostilità verso il progresso tecnologico, il timore dell’allontanamento dal mondo tradizionale e pastorale a scapito di un inurbamento foriero di artificialità e disumanizzazione, ecc.

In sintesi il saggio, che estende la sua analisi anche al nostro attuale modo di vivere, mi è apparso utile e ben fatto, ma devo aggiungere che, a mio parere, i temi trattati nella “Leggenda del Grande Inquisitore”, per quanto interessanti e per quanto bella essa sia, non valgano più la fatica di affrontare un romanzo come “Fratelli Karamazov” che, ormai per me, ha fatto il suo tempo.

lunedì 17 agosto 2015

Recensione: L'Adversaire


“L’Adversaire”, di Emmanuel Carrère, edizioni Folio, ISBN: 978-2-07-041621-9.

Se questo romanzo fosse una “fiction” avremmo scosso le spalle delusi dalle “sparate” dell’Autore colpevole di aver messo in piedi una trama che, secondo logica e buon senso non potrebbe stare in piedi. Invece si tratta di una storia vera, incredibile, surreale, impossibile, come solo la realtà sa essere in certi casi.

Jean-Claude Romand è un medico di successo ricercatore presso l’OMS con sede a Ginevra. Vive da frontaliero di lusso attraversando quotidianamente il confine e conducendo una vita agiata ma un po’ appartata nella provincia francese; conosce e frequenta politici e personaggi di spicco; manda i figli alle scuole private; è stimato da amici e parenti e si permette persino un’amante che corteggia a suon di cene e doni costosi. Il 9 gennaio 1993, “inspiegabilmente” uccide moglie, figli e genitori tentando (senza convinzione) il suicidio. “Perché!”, si chiedono tutti? Perché la vita di Jean-Claude per oltre quindici anni è stata una totale impostura; egli non è nulla di ciò che sembra: non è medico (non è neppure laureato), non lavora all’OMS e campa truffando gli ignari parenti e, nel momento in cui il suo castello di menzogne ha cominciato a sgretolarsi, non ha retto alla vergogna di vedersi svelato di fronte ai propri affetti.

Jean-Claude verrà condannato all’ergastolo (per tranquillizzarvi, nel romanzo viene detto che dovrebbe uscire quest’anno, nel 2015!) e l’Autore vorrà conoscerlo, intrattenere con lui della corrispondenza e, soprattutto cercherà di “capirlo” (anche se, non di “giustificarlo”).

La lettura di questo romanzo potrebbe apparire a molti un tantino fastidiosa, personalmente però, lo definirei un caso “interessante” e quello che lo rende tale ai miei occhi non è tanto l’impostura, che non è certo un fenomeno raro (nei fatti di cronaca si legge spesso di falsi medici e avvocati e molti di noi conoscono persone che hanno mentito per anni riguardo al loro curriculum universitario!), ma la dicotomia fra quella che è la vera vita del protagonista contrapposta a quanto, invece, viene creduto e percepito all’esterno anche dalle persone più intime. Il più abissale e noiosissimo “nulla” (di quello che a me sembra il ritratto di un perfetto “sfigato”) rivestito da una scintillante patina di successo.

Dietro a tutto ciò, personalmente e da profano vedo solo della gran vigliaccheria, l’Autore, invece, che a quel tempo doveva essere nella sua fase di fervore religioso, si sforza di trovarci qualcosa di più, e finisce per scorgerci nientemeno che l’ombra delle corna e degli zoccoli de l’”Adversaire”, in altre parole, il Diavolo. Boh!

mercoledì 15 luglio 2015

Recensione: I Fratelli Karamazov


“I Fratelli Karamazov”, titolo originale: “Brat'ja Karamazovy”, di Fëdor Dostoevskij, traduzione di Agostino Villa, edizioni Einaudi, ISBN: 978-88-06-22033-4.
A mio avviso l’opera di Dostoevskij merita ancora la sua fama di capolavoro, quanto meno per la rilevanza che ancora caratterizza alcuni dei temi trattati e a causa della notorietà che lo circonda e che continua ad alimentarne la critica.
A parte queste considerazioni ed anche un po’ più modestamente, è bene aggiungere che il romanzo è bello al di là e nonostante la sua fama un po’ ingombrante. Una volta cominciata l’opera e non appena ci si sia abituati ad uno stile ormai un po’ superato, si arriva ad un punto dove, come per ogni buon racconto, si desidera semplicemente sapere come andrà a finire la faccenda e cosa succederà ai diversi comprimari. Da un altro punto di vista, però, se si tiene conto che i personaggi e le situazioni descritte cominciano a sentire il peso degli anni e ad apparire, di conseguenza, un po’ forzati, forse comincia ad essere legittimo ritenere di poter sottrarsi al compito di digerirne la non modesta mole senza sentirsi per questo troppo in colpa verso il nostro vecchio professore di letteratura del liceo.
Personalmente, dopo “Delitto e Castigo” del medesimo Autore aspettavo l’occasione per leggere anche quest’opera e, in particolare, ero interessato a inquadrare più esattamente all’interno della stessa il famoso e forse abusato pezzo della “Leggenda del Grande Inquisitore” che appare nel libro quinto del romanzo. L’occasione me l’ha data la recente uscita di un saggio incentrato sul medesimo argomento “Liberi Servi – Il Grande Inquisitore e l’enigma del Potere” di Gustavo Zagrebelsky (Einaudi ISBN 978-88-06-20458-7). A questo punto, ho sciolto gli indugi e le vele!
 Ho trovato che “La leggenda” regga ancora e pienamente la fama che la circonda; per me si tratta di un pezzo di grande letteratura. Forse, però, se si è interessati solo ad essa, non vale la pena di leggersi tutte le 1033 pagine che costituiscono la presente edizione al solo scopo di inquadrarla al meglio.
A me, per altro, queste mille e passa pagine non sono pesate e vorrei anche aggiungere che sarebbe assai limitativo ridurre la bellezza e l’importanza di quest’opera alle poche decine di pagine attraverso le quali si sviluppa “La leggenda”. Essa costituisce, infatti, sicuramente una parte notissima ed importante del romanzo, ma non può comunque assumere una tale evidenza da potersi sostituire ad esso e neppure per poterlo rappresentare efficacemente e completamente.

lunedì 13 luglio 2015

Caso Grecia: Chi ha vinto? ... Un bilancio personale ...


Nel giorno dell’avvenuto accordo far il Governo greco e Eurosummit faccio un po’ fatica a districarmi sulle diverse versioni che sembrano emergere dai mezzi di informazione. Questo è stato il tema costante di questi giorni, dove ho avuto l’impressione che il giudizio dei mass media nei confronti della linea di resistenza greca e dell’iniziativa referendaria prima, e delle varie fasi che hanno portato all’accordo dopo, fosse quanto meno ondivago.
A questo punto, mi sgancio da tutte queste chiacchere e provo a dare un giudizio personale, a pelle, sui recenti avvenimenti senza tenere troppo conto dei cosiddetti dati oggettivi che, a quanto pare “oggettivi” non sono per niente (ma insomma! I greci le riforme negli ultimi anni le hanno fatte oppure no? Vanno in pensione a 50 anni oppure no! Hanno un sacco di dipendenti pubblici sfaccendati si o no?)! … Possibile che non ci sia la possibilità di ottenere una serie di dati comparati senza dover passare le giornate sulla rete a vagliare dati inaffidabili? … ma lasciamo perdere …
Tornando a noi:
-          Io penso innanzi tutto che il governo greco sia stato coraggioso, tanto coraggioso da sfiorare l’imprudenza e l’impudenza. Anche la scelta di indire un referendum è stata una scelta da capogiro, ma pure coerente con il mandato che lo stesso esecutivo aveva ricevuto (devo ammettere che io avrei votato “si”, non fosse altro che per codardia!). Hanno rischiato veramente di finire fuori dall’euro a pedate, ma ci hanno dato anche una grande lezione di democrazia (magari anche di populismo che, comunque con la democrazia c’entra eccome!). Soprattutto, ci hanno ricordato, e sarebbe bene non dimenticarlo subito, che l’Unione Europea deve diventare anche una questione politica e non limitarsi a poco più di un’unione doganale con una politica economica e monetaria lasciata in appannaggio alle banche e ai grandi gruppi industriali. Per me non è mai stato così chiaro (e spero che lo sia anche a molti altri) che è necessario impegnarsi maggiormente per potenziare il governo UE. Sennò i grandi problemi che stanno alle porte (sicurezza e immigrazione) e in seno (disparità economiche e sociali) all’Unione non verranno né affrontati né risolti e finiranno per travolgerci.   
-          Ora Syriza rischia di spaccarsi e Tsipras è accusato di aver ceduto alle richieste delle autorità monetarie. Lo scissionismo è la malattia endemica della sinistra, ci sono sempre duri e puri disposti a resistere ad ogni cedimento e fisiologicamente portati al muro contro muro (lungo il quale, spesso e volentieri vorrebbero allineare il loro oppositori in modo da poter risolvere definitivamente e fisicamente il problema), la politica però, è l’arte del compromesso e, a parer mio, mi sembra che il governo greco non avesse troppi altri margini di manovra; posta la questione di principio, toccava fare i “compiti a casa” o tornare alla dracma. Riguardo a Tsipras, ammetto di non conoscere il suo curriculum personale e, pertanto, non penso di poterlo giudicare, ma noto che alcuni dei provvedimenti che ha posto in essere, parlo almeno dell’eliminazione delle agevolazioni sull’IVA per le isole e delle tasse sugli armatori, vadano nella direzione che io ritengo corretta per una maggior equità fiscale. L’omogeneizzazione dell’IVA (tassa che normalmente non condivido e che, considero un po’ barbara per un sistema fiscale evoluto) non solo ridistribuisce il costo delle riforme fra la Grecia insulare (che ha patito di meno!) e quella metropolitana (che ha patito molto), ma è anche l’unica possibile per garantire un minimo di gettito in una società che è propensa, forse anche più dell’Italia, ad evadere il fisco in tutti i modi. Per quanto riguarda gli armatori, invece, essi sono storicamente i “ricchi” di Grecia, lobby potente e assai tutelata! Da dove quindi dovrebbe partire in Grecia una politica fiscale redistributiva se non da loro? E che dovrebbe fare un governo di sinistra se non tassare loro?
-          Si legge, infine, che i tedeschi avrebbero “umiliato” i greci http://www.lastampa.it/2015/07/13/economia/il-premier-belga-c-laccordo-sulla-grecia-8m1EEnyt50Ie1JocvR9gfO/pagina.html). Io, di nuovo, non credo neppure a questo! Alla fine si tratta di una partita che, moralmente non ha visto né vinto né vincitori. I “nordici” (non solo i tedeschi!) hanno tenuto duro ribadendo, con una certa ragione, che non si possono usare “due pesi e due misure” e, stante le regole in vigore “ora”, non ci sono alternative al rigore per quegli stati che non sono capaci di tenere i loro conti in ordine. Soprattutto, non si può (e non è moralmente corretto!) costringere alcuni paesi a dure politiche per risanare i conti pubblici e ad altri consentire di continuare sulla strada delle mancate riforme (posto che per la Grecia sia effettivamente così!). I greci, supportati dai giudizi di più di un economista, (vedi ad esempio, Krugman, Stigliz e Piketty) hanno invece ricordato che una maggior unione politica forse permetterebbe di mettere in atto politiche diverse dalla semplice austerity. Ma per arrivare a ciò, aggiungo io, bisognerebbe avere gli strumenti per poter decidere tutti insieme (e torniamo alla politica!), un sistema di regole che permetta di mettere in atto un ciclo espansivo (magari un po’ drogato da qualche intervento in stile Keynesiano) ma che, nel contempo, ci metta al riparo dagli “sbracamenti”, dalle “promesse da marinaio” e dalle ricette facilone (svalutazioni competitive, finanziamenti a pioggia ma, soprattutto agli “amici”, spese pubbliche dissennate e programmi di costruzione faraonici di cattedrali nel deserto …!) spesso proposte in passato dalla nostra, quasi mai responsabile, classe politica. Bisogna poi dire, rimanendo sul pragmatico, che per il futuro i greci continueranno ad avere dalla loro il “problema” del debito (per le banche non vi è nulla di più spinoso di un grosso debito inesigibile!) e, pertanto, se le riforme non funzioneranno, i creditori perderanno i loro soldi, quelli già erogati fino ad ora e quelli di prossima erogazione. Un conto salato per l’affermazione di un principio! Dunque, ai “tedeschi” rimane il punto segnato in favore del rispetto delle regole ma anche (a loro e a noi) il possibile aggravio di perdita se le cose non dovessero andare per il verso giusto.
-          Infine, al di là delle ragioni e dei possibili ragionamenti, per me, è un grosso sollievo poter pensare ai greci come facenti ancora a pieno titolo della “famiglia”. A supporto di questa sensazione, non ho particolari ragioni razionali da addurre, ma solo ragioni di “pancia”, solo la sensazione che, senza di loro, l’idea di Europa sarebbe un po’ meno brillante.