lunedì 8 ottobre 2012

Etica e azione – Una riflessione sul mito del Superuomo ispirata da “Delitto e Castigo” di F. Dostoevski

Il capolavoro di Dostoevski non lascia indifferenti, molti rimangono colpiti da qualcuno dei temi trattati nel romanzo o dalla figura di qualche personaggio e questo è quanto, è successo anche a me. Prima di leggerlo, avevo l’impressione che l’interesse dei più s’incentrasse sul ruolo salvifico della religione, probabilmente ciò è vero, ma adesso mi rendo conto che questo elemento costituisce al più uno degli assi, non necessariamente il principale, intorno al quale ruota la vicenda.
 Il libro è caleidoscopico e tocca moltissimi temi, personalmente, quello che mi ha attratto di più è quello incentrato sui rischi del nichilismo e sulla figura del protagonista Rodion Romanovič Raskolnikov. Durante il romanzo emergono le ragioni profonde che guidano la mano assassina del giovane studente, esse sono inizialmente confuse, ma infine appaiono nitidamente. L’omicidio, apparentemente compiuto a scopo di rapina trova una prima giustificazione nella disastrata situazione economica di Raskolnikov; i soldi sottratti alla vecchia usuraia dovrebbero servire al protagonista per rimettersi sui binari, trovare ampie risorse per continuare gli studi e per impostare una vita di successo, ma anche per affrancare la madre e la giovane sorella dall’obbligo del suo mantenimento. Già a proposito di quest’ultimo punto però, emerge l’ambiguità di Raskolnikov perché la sua volontà d’indipendenza non mi appare genuinamente motivata dall'intenzione di non gravare sui famigliari, quanto da un incontenibile e mal indirizzato senso di orgoglio che lo spinge a un tentativo infruttuoso di affrancarsi prima del tempo. Lui poi avrebbe la soluzione al problema, basterebbe impegnarsi sopportando lo stato d’indigenza, adattarsi a qualche modesta fonte di guadagno imitando il comportamento del suo amico Dmitrij Prokofevič Vrazumichin (Razumichin ) per il quale, sembra provare sì ammirazione, ma anche molta invidia.
 Raskolnikov, a mio avviso, è innanzi tutto un pigro, vuole immediatamente indipendenza e agi e non è (più) disposto a soffrire per migliorare la sua condizione, non vuole faticare nella sua scalata al successo e come molti deboli e inetti si culla nell’illusione della svolta ottenuta con un colpo di teatro. Sotto questa luce, tutta la sua preoccupazione verso i famigliari appare come una semplice scusa, una giustificazione morale elaborata a priori per addormentare la propria coscienza. Poi però emergono le vere ragioni nascoste che guidano l’azione del protagonista, svelando l’effetto corrosivo dell’approccio nichilista. Egli, oggettivamente un fallito, si sente invece un Napoleone (non è raro in personaggi di tal fatta!), un uomo del destino che deve mettersi alla prova e ha la necessità di dimostrare a se stesso la sua capacità e volontà di saltare lo steccato morale che dovrebbe rendere evidenti le sue qualità di superuomo. Compiendo il delitto, eliminando consapevolmente una semplice “piattola” (così egli definisce la vittima prima e dopo l’omicidio) egli, nelle sue intenzioni deliranti, si rende padrone della propria morale e spiana il proprio destino. Secondo me, proprio in questo punto avviene un tipico cortocircuito che caratterizza il pensiero nichilista. L’aspetto che sfugge a ogni logica è quello di pretendere di autoproclamarsi “superiore” grazie ad un clamoroso atto d’indipendenza compiuto contro l’etica condivisa. Seguendo questa china non si oltrepassano i propri limiti in termini positivi, non si ascende, ma anzi si precipita regredendo al ruolo patetico di “super infame”. L’errore grossolano è quello di pensare che il Superuomo, posto che abbia senso questo termine, si possa incoronare da sé, quando invece è il proprio destino, la propria storia, o nei casi fortunati, quella ufficiale a farlo, ma sempre a posteriori. Non ci si candida a essere “eccezionali”, forse infine si scopre semplicemente di esserlo, o almeno di essere visti come tali. Tutto ciò però avviene, posto che effettivamente succeda, (perché non è detto che il proprio operato sarà rilevato) attraverso il giudizio di altri. Neanche la rivisitazione del passato, del percorso che si è compiuto, è soggettivamente rilevante perché l’eventuale scoperta matura esternamente, non è mai del soggetto che, invece, guarda al proprio passato solo per trarre esperienza e per misurare i propri progressi. Nella realtà, comunque, non esiste nessun Superuomo, ma solo un semplice uomo in formazione, alla continua ricerca del proprio compimento in relazione ai modelli che lo ispirano. Se per gli altri egli finisce per essere un eroe, un personaggio eccezionale, egli non si vedrà mai così, egli, infatti, fa le cose per sé e poiché necessarie al proprio completamento e le sue opere, magari straordinarie, intimamente si danno come atti dovuti e necessari, doveri ai quali egli non si può sottrarre.
Ecco l’errore tragico di Raskolnikov, non si diventa Superuomo in virtù di una prova singola, a un rito d’iniziazione; e poi, l’ho già detto, il Superuomo non esiste, è un concetto illusorio. Si può però divenire padroni del proprio destino, qualsiasi esso sia, e questo avviene solo quando si accetta di seguire la via del perfezionamento, sapendo che tale percorso non conduce necessariamente al successo e alla gloria terrena. Il premio è la pace, l’accettazione di sé, la consapevolezza di essere e di agire nel giusto. Il processo però, necessita per forza tempi lunghi e non può implicare una rottura con la morale del momento. Si deve lavorare per la giustizia, ma la percezione di ciò che è giusto si sviluppa lentamente grazie ad un incessante lavoro di studio e di miglioramento. E’ la cultura, lo spirito di analisi e la capacità di osservazione che deve guidare l’azione. in ogni caso, mai ci si separa completamente dall’etica contemporanea verso la quale non si ricerca mai una rottura, semmai si scruta il futuro cercando di vederne o promuoverne l’evoluzione. Anche il legame verso la tradizione deve rimanere saldo, incentrato su quei principi basilari che si sanno fondamentali, come la “regola aurea” oppure il generico rispetto della vita, per quanto possibile. Per l’uomo la vita è importante in tutte le sue forme, non esistono “piattole”. Levare la vita può essere un atto necessario o anche solo utile o comunque dettato dal contesto oggettivo, al modo in cui funzionano le cose, ma non deve mai essere banalizzato, relegato nell’irrilevanza, pena la perdita dell’umanità, dello status di uomo, del senso di giustizia. Per questi motivi, la via del perfezionamento non prevede rivoluzioni ma riforme graduali, un progresso che ci si augura incruento legato al maturare dei tempi, alla ricerca del senso e dell’armonia di gesti, parole e azioni e non può ridursi a un unico eclatante atto volitivo.

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