martedì 22 febbraio 2011

Recensione: Il Secco e L'umido - Una breve incursione in territorio fascista

“Il secco e L’umido – Una breve incursione in territorio fascista”, titolo originale “Le sec e L’humide”, di Jonathan Littell, edizioni Einaudi, ISBN 978-88-06-19742-1. L’autore ripercorre uno dei testi pubblicati da Léon Degrelle (il fondatore del rexismo belga, organizzazione che finirà per confluire nell’alveo dei movimenti nazifascisti), “la campagna di Russia”, scritto durante l’esilio in Spagna dopo la fine della seconda guerra mondiale. Littell esegue un’analisi delle parole e delle immagini che compongono il testo effettuando una vera e propria analisi psicologica dell’autore allo scopo di andare ad individuare gli aspetti salienti della personalità di un tipico soggetto fascista. Il risultato è veramente interessante, anche per uno che, come me, non ha nessuna famigliarità con i termini e le figure della psicologia classica. Il secco e l’umido sono una delle contrapposizioni fondamentali che contribuiscono a formare e alimentare il pensiero e la personalità (l’autore la definisce “io-corazza”) del soggetto fascista che appunto contrappone il “secco”, percepito come: positivo, vitale, integro, solidale, duro, pulito, asciutto; all’”umido”: negativo, mortale, putrescente, disomogeneo, molle, sporco, bagnato. Littell cerca quindi di dimostrare come nel testo di Degrelle emergano continue ricorrenze che attribuiscono le caratteristiche del “secco” a se stesso, ai suoi commilitoni, alle condizioni ambientali favorevoli ed in generale alla “civiltà” occidentale e fascista, mentre gli attributi dell’umido sono riservati al nemico sia morto che vivo, al territorio ostile ed agli eventi atmosferici avversi. Sarà quindi il fango della steppa ucraina e la montante e non arginabile marea “rossa” ed “asiatica” l’incubo e la Nemesi di Degrelle e di quelli come lui.

lunedì 21 febbraio 2011

IL VENTO DELLA DEMOCRAZIA SOFFIA DA SUD

A fare una seria riflessione su quando sta succedendo nel mondo arabo, si traggono moltissimi motivi di ottimismo e qualche amara constatazione. L’ottimismo è legato all’evidente successo che stanno riscontrando i moti democratici che rischiano letteralmente di cambiare il volto dell’intero medioriente. In Tunisia ed Egitto il processo di transizione sembra decisamente in fase avanzata, la rivolta dilaga in Libia e cova in Algeria, mostra le sue prime avvisaglie nel lontano Yemen, mentre i regimi di Siria e Marocco attendono quello che sembra un inarrestabile tsunami; io penso che, anche a Teheran, dove il regime è ancora intento a leccarsi le ferite lasciate dalla “rivoluzione verde” gli ayatollah non dormano sonni tranquilli! In tutto il levante, una folla d’individui scende in piazza e diviene “Popolo” (quello con la “P” maiuscola), chiede la fine di antichi privilegi, rivendica il diritto di cambiare la propria società, vuole riforme, rappresentatività, lavoro, giustizia sociale e libertà, in sintesi invoca una piena e vera Democrazia. Certo, non è facile capire cosa porterà infine questa serie spontanea di moti di piazza, se effettivamente questo sia il sorgere di una vera alba di democrazia o se invece il tutto degenererà in nuovi regimi autoritari o peggio in una serie di teocrazie, intanto, però cerchiamo di ricevere la lezione positiva che ci impartiscono i nostri cugini d’oltremare, che dimostrano come una società compatta, giovane e motivata possa spazzare nell’arco di pochi giorni regimi che sembravano solidi e imperturbabili.
Tutto ciò avviene, e qui si apre il capitolo riguardante le amare constatazioni, nel più assoluto silenzio del “democratico” Occidente, il quale, non solo tace, ma che, in preda a mille paure tifa neanche tanto nascostamente per il ripristino dello status quo, invocando e sperando nel meno azzardato e più confortante ordine sociale garantito dalle baionette di qualche uomo forte di regime. Il nostro lassismo e la nostra ipocrisia e invero vergognosa! Dopo essersi riempiti la bocca per decenni riguardo alla necessità di esportare la democrazia come forma più elevata del pensiero umano e inoltre, a garanzia dei nostri valori e della nostra cultura, dopo aver giudicato il mondo arabo totalmente incapace di una qualsiasi forma di rinnovamento e rinascimento, emerge il nostro vero timore che è quello di vedere messi in discussione la nostra tranquillità, ma soprattutto i nostri affari e il nostro vacillante potere economico sulla regione.
Questo però non è tutto. Per chi vuole aprire gli occhi, è anche evidente lo sconfortante paragone che si può effettuare fra la forza ed il dinamismo che dimostrano i giovani mediorientali, che ancora costituiscono la stragrande maggioranza della popolazione locale, rispetto allo spettacolo che invece diamo noi, società di vecchi, immobili, pavidi ed apatici, incapaci non solo di promuovere, ma anche solo di accogliere il “nuovo”.
L’ultima riflessione, un po’ a latere, la faccio compiendo una comparazione riguardo a un particolare aspetto istituzionale che ormai differenzia le nostre società civili da quelle mediorientali, l’istituzione di cui parlo è l’esercito. Non sarà sfuggito ai più il ruolo determinante che ha assunto l’esercito nazionale nel determinare il successo o l’insuccesso dei moti di piazza; quando i militari, per lo più di leva, si sono schierati con i rivoltosi per il regime non vi è stato scampo. In Egitto l’esercito si è frapposto fra la popolazione e le forze speciali di polizia fedeli al Presidente Mubarak, in Libia si parla di diserzioni di massa, di scontri fra unità dell’esercito, del ricorso a squadre di mercenari per reprimere i moti; in Iran invece la rivoluzione verde è abortita sotto i colpi delle milizie fedeli al regime teocratico, mentre l’esercito non è stato fatto intervenire perché ritenuto poco affidabile. Noto come sia un fatto storico facilmente riscontrabile quello che dimostra come tutti i regimi si siano sempre appoggiati su propri organismi militari che tendessero a sostituire o sminuire l’importanza degli eserciti nazionali di leva, veri e propri puntelli delle istituzioni democratiche. Se però osserviamo come siano ormai le cose in tutto l’Occidente noteremo che la leva è ormai stata eliminata dappertutto! Forse, magari anche solo provando ad immaginare un lontano futuro, ampio abbastanza da farci dimenticare i nostri moti risorgimentali, le due guerre mondiali e l’umanità degli alpini, dovremmo provare a chiederci a chi sarebbe fedele il nostro esercito di professionisti stipendiati nel caso in cui, sfortunatamente, ce ne fosse bisogno!

giovedì 17 febbraio 2011

Recensione: La banalità del male

“La banalità del male”, titolo originale “Eichmann in Jerusalem”, editore Feltrinelli, ISBN 978-88-07-81640-8. Si tratta di un famosissimo saggio che descrive il processo ad uno dei massimi responsabili “operativi” della soluzione finale, Adolph Eichmann. Eichmann viene catturato a Buenos Aires nella primavera del 1960 da un commando israeliano, tradotto in Palestina e qui processato per: “Crimini contro il popolo ebraico, crimini contro l’umanità e crimini di guerra”. Il verdetto finale sarà la condanna a morte mediante impiccagione. La Arendt si reca a Gerusalemme come inviata del New Yorker per assistere al'evento. L’autrice osserva criticamente sia il convenuto sia il processo; il primo apparirà più che altro come un grigio, modesto e appunto “banale” burocrate, il secondo non potrà sfuggire alla critica di spettacolarizzazione, effetto per altro previsto e voluto dalla leadership sionista di allora e chiaramente riscontrabile nonostante il genuino impegno dei giudici per mantenere il dibattimento nell’ambito della ricerca di un giudizio “giusto”. Alla fine il libro, veramente molto bello, lascia il lettore stupito e a disagio; per molti versi, infatti, sembra più voler indirizzare l’attenzione sul tema assai scabroso del collaborazionismo ebraico, soprattutto di matrice sionista, e sul clima di generale antisemitismo che pervadeva l’intera cultura europea dell’epoca, rispetto a quanto non si soffermi sulla mediocrità e sulla pochezza del convenuto, il quale, nella sua totale opacità e stolidità appare a tratti grottescamente comprensibile e persino quasi giustificabile, dato il contesto in cui svolgeva le proprie azioni! Eichmann, dal mio punto di vista, non è dipinto come un mostro (questo infatti sarebbe in un qualche modo "rassicurante" per noi!), appare invece anche troppo conforme alla più cruda e veritiera immagine del “banale” uomo comune, che nel suo più totale vuoto interiore semplicemente non si pone domande e si adegua a svolgere il suo tedioso lavoro burocratico qualsiasi esso sia, forse anche lo sterminio di suoi simili.