venerdì 20 marzo 2020

Recensione: Vietnam – Una tragedia epica 1945 – 1975


"Vietnam – Una tragedia epica 1945 – 1975” di Max Hastings, traduzione di Filippo Verzotto, editore Neri Pozza, ISBN 978-88-545-1850-6.

Il saggio racconta la Guerra del Vietnam in dettaglio a partire dal 1945, quando il Paese era ancora unito sotto la dominazione francese, fino alla caduta di Saigon, allora capitale della Repubblica del Vietnam (cosiddetto “Vietnam del Sud”), avvenuta nell'aprile 1975).

A mio avviso, l’Autore ha scritto un’opera eccezionale ricostruendo i fatti in maniera precisa ed equilibrata, spiegando nitidamente il contesto che ha guidato le azioni, gli errori, i vincoli di tutte le parti in causa.
Ne viene fuori un quadro desolante che riporta chiaramente, senza nessuna ombra di ambiguità quello che ormai gli storici hanno da tempo dimostrato; per anni in Vietnam gli USA hanno combattuto una guerra che i decisori politici sapevano perduta in partenza. La scelta di proseguire il confitto venne presa sostanzialmente sulla base di considerazioni più legate alla politica interna USA (tra l’altro, di breve termine) e a ragioni di “immagine”, rispetto a quanto ciò fosse effettivamente necessario sulla base delle reali necessità di politica estera legate al “containment”, la strategia attuata per arginare la diffusione del comunismo.

A me personalmente, appare grottesco constatare come tale conflitto, che finì per trascinare l’intera Indocina nel caos e nell'orrore (si pensi, per esempio alla Cambogia) e ad influenzare pesantemente anche il pensiero occidentale, sarebbe probabilmente stato facilmente evitabile fin a partire dalla fine del secondo conflitto mondiale se solo si fosse rispettato il legittimo desiderio d’indipendenza delle popolazioni locali e si fossero favorite poche, incisive riforme sociali e politiche tali a quali a quelle che, ai giorni nostri, ci apparirebbero semplicemente minime e “scontate”.

Si scelse invece di supportare un anacronistico regime post-coloniale da parte della Francia il che portò al solo risultato di umiliare i francesi e dividere il paese permettendo l’insediarsi al Nord di uno spietato regime comunista contrapposto, al Sud, ad un regime poco più liberale e totalmente corrotto.
Dopo il disimpegno della Francia il governo USA commise (io direi “scientemente”) gli stessi errori dei predecessori francesi continuando costantemente a supportare i regimi instaurati nel sud del Paese e avendo, nello stesso tempo, piena consapevolezza della loro inadeguatezza ed incapacità sia di riformare il Paese, sia di reggersi sulle proprie gambe.

L’aspetto più ironico di tutto questo sta, infine, nel constatare che l’Indocina e il Vietnam in particolare, avevano sostanzialmente un valore pari a “zero” nelle scelte strategiche degli USA (e dell’URSS e. forse anche della Cina!) e, infatti, furono lasciate a sé stesse nel momento in cui l’opinione pubblica americana divenne in maggioranza sfavorevole al proseguimento del conflitto.

Tanto orrore per nulla, in sintesi!

… E fosse almeno servito ad imparare la lezione!

giovedì 19 marzo 2020

Recensione: L’educazione di un fascista


"L’educazione di un fascista”, di Paolo Berizzi, editore Feltrinelli, ISBN 978-88-07-17372-1.

Si tratta di un’indagine inquietante riguardante la tendenza crescente verso una progressiva “fascistizzazione” che sembra caratterizzare fasce sempre più ampie della popolazione a partire soprattutto dai giovanissimi.

Ho poco da aggiungere al mio giudizio su quest’opera, a parte il fatto di dire che il quadro disegnato dall'Autore mi appare, almeno a grandi linee, credibile.

C’è però un particolare legato al mio vissuto personale che mi impedisce di valutare correttamente parte del quadro presentato. In particolare, proprio in virtù della mia esperienza diretta faccio fatica a giudicare l’obiettività di quanto riportato nella prima parte del saggio: “L’arte della lotta”; anche perché sono rimasto sinceramente stupito di scoprire di conoscere (sarebbe meglio dire: di scoprire di aver conosciuto in passato!) almeno uno dei personaggi citati nel saggio.

Pratico un’arte marziale da più di trent'anni!
E, nella mia esperienza, che ha brevemente toccato anche l’agonismo (ma che si è interrotta circa 25 anni fa!), mi sono anche cimentato nei circuiti di gara del kung fu e della kick boxing che, all'epoca, includevano spesso i praticanti della muay tay.

Sono sempre stato orgoglioso di praticare la mia disciplina (che appartiene certamente e orgogliosamente al filone “delle arti marziali miste”) e a dividere la mia esperienza con praticanti di altre forme di quest’”arte” e, pertanto, trovo estremamente difficile ricollocare la mia esperienza nel quadro un po’ fosco tracciato dall'Autore.
Personalmente, non ho mai minimamente pensato ad abbinare pratica sportiva e politica, ne ho mai visto tali atteggiamenti messi in atto dai maestri che ho frequentato, ne ho mai notato che qualche praticante ostentasse le sue idee nonostante il fatto che, spesso, fossero ben note ad ognuno le rispettive ideologie e/o inclinazioni politiche. In palestra, al di là di qualche “sfottò” in periodi particolarmente “caldi” (ad esempio, prima o dopo le tornate elettorali) proprio di politica non si parlava e non si parla mai e questo senza nemmeno che esistano norme che prevengano tali tipi di discussione. Semplicemente, per come la vedo io, perché sul tatami tutto ciò non interessa a nessuno, in quanto, al di là delle differenze, su quel parterre siamo solo “noi”, gruppo di sportivi accomunati dalla medesima passione. Forse sono solo stato fortunato!

Detto ciò, che riassume la mia esperienza e che va detto a difesa del buon nome dei praticanti di tutte queste forme di sport, ritengo che il quadro tracciato dall'Autore possa essere considerato veritiero se applicato a certi contesti e luoghi specifici; forse più oggi rispetto a ieri; ed è anche innegabile come, purtroppo, questi sport attirino spesso anche una buona dose di esaltati e spostati. Ho sempre pensato che questo fosse, in fondo, inevitabile.

Dunque, “casco” dal proverbiale “pero” e prendo atto! Tutto ciò, senza contestare le argomentazioni dell’Autore, che mi sembrano basate su di un'esperienza e ricerche rigorose.

giovedì 12 marzo 2020

Coranavirus: Dove sta la giusta misura fra restrizioni e ragionevolezza?

In questi casi, dove la salute collettiva è in pericolo, è difficile tracciare una linea che garantisca il più possibile la libertà individuale mantenendo nel contempo il focus sull'obiettivo principale: contenere il contagio.
Le misure restrittive sono dunque tanto necessarie quanto auspicabili.
Ma fino a dove ci si deve spingere?
Personalmente ritengo sacrosante quasi tutte le misure poste in essere o in corso di introduzione; verso alcune di esse però (poche in realtà) dissento totalmente, e non perché non siano umanamente attuabili, ma perché le trovo stupide, almeno fino a "prova contraria" argomentata, possibilmente, su basi scientifiche.
Di quali misure parlo?
Intendo stigmatizzare tutte quelle istruzioni che vogliono limitare l'accesso ai parchi pubblici impedendo di praticare attività sportiva all'aperto e/o passeggiare.
Che senso hanno?
Ovvio che è chiaro come, in entrambi i casi, tali attività debbano venire condotte da soli o, al più con i famigliari conviventi (in questo ultimo caso il rischio di contagio è comunque presente anche restando a casa!) e, in ogni caso, rispettando le indicazioni già comunicate rispetto agli spazi che devono frapporsi fra non conviventi; se praticate a queste condizioni, però, in che modo potrebbero influire negativamente sui rischi di diffusione della malattia?
Per favore quindi, rimaniamo ragionevoli e, soprattutto, cari governanti, smettete di trattarci come minorati mentali! Sarò il primo, infatti, a fare marcia indietro per evitare un parco affollato, ma trovandolo relativamente sgombro, cosa devo fare per poterci andare senza farmi inseguire dall'esercito? Prendermi un cane dichiarando che lo porto a passeggio a fare i suoi bisogni?

martedì 3 marzo 2020

Recensione: L’Odissea raccontata da Penelope, Circe, Calipso e le altre


"L’Odissea raccontata da Penelope, Circe, Calipso e le altre”, di Marilù Oliva, editore Solferino, ISBN 978-88-282-0361-2.

L’Odissea narrata e vissuta da un punto di vista inusuale, quello dei suoi coprotagonisti e comparse femminili. Divinità come Atena, splendida quanto distante dalla comprensione della condizione umana; semidee come Calipso e Circe, forti dei loro poteri, ma sole e, in fondo fragili;  donne pazienti, sagge, astute e adattabili come Penelope, degna compagna di Ulisse e suo pari nell'ingegno; donne forti e rassegnate come Euriclea, capaci di sopportare e accettare la condizione servile e di ritagliarsi un ruolo all'interno dello spazio angusto lasciato ad esse dalla società e cultura greca ed, infine,  anche “ragazzine” infatuate come Nausicaa, tanto romantiche quanto ingenue.

Tutte ci raccontano il protagonista; Ulisse, eroe e mascalzone, astuto e vanaglorioso vagabondo dall'animo contraddittorio quale quello che agita tanti altri uomini, così divisi fra la ricerca della pace domestica e la sete di avventura.