giovedì 26 settembre 2013

Il caso telecom è il problema delle "reti"


Riguardo alla vicenda Telecom è “scoppiato” il caso della rete (alleluia) e i nostri ineffabili politici si sono “improvvisamente” accorti del problema. E dire che il tema dello scorporo delle rete dovrebbe avere un carattere generale e, soprattutto, dovrebbe essere la prima cosa alla quale si pensa quando si attuano delle privatizzazioni di quei servizi che, tradizionalmente non ponevano problemi di questo genere in quanto pubblici e monopolisti.
Tanto per chiarire, quindi, il problema non riguarda solo la rete telefonica fissa, ma anche tutte le altre reti, a partire da quella della telefonia mobile (visto che l’argomento è all’ordine del giorno),  ma non solo, perché senza doverci pensare troppo, si arriva a comprendere che di “reti” ce ne sono tante e non tutte sono già state scorporate e portate sotto il controllo diretto o indiretto della Stato o di sue emanazioni (regioni, province, comuni, ecc.); cito ad esempio: la rete elettrica, quella autostradale, ferroviaria, telefonia fissa e linee dati, telefonia mobile, distribuzione del gas, acqua potabile, ecc..
Dovrebbe sembrare naturale, ma evidentemente non lo è, che le reti debbano rimanere in qualche modo sotto controllo pubblico (magari seguendo un modello come quello attuato con TERNA, la società che gestisce la rete elettrica), di cosa si parla sennò quando ci si riempie la bocca utilizzando il termine “infrastrutture” (per le quali, se non erro, abbiamo pure un ministero preposto!)?
Nel caso di Telecom, ovviamente il problema doveva porsi subito all’atto della privatizzazione (ed anche per la rete mobile, come ho già anticipato), in questo modo non ne staremmo parlando adesso e, soprattutto, non si aprirebbero i prevedibili dibattiti riguardo al valore della rete, sul reperimento delle risorse e sul veicolo che dovrà occuparsi della futura gestione (posso suggerire di ricorrere ad una società da quotare in borsa?). Nel caso in cui poi, l’operazione andasse in porto si porrebbe il problema di come uniformare la rete, per esempio spiegando come si intende agire nei confronto di coloro che, nel frattempo hanno sviluppato reti indipendenti ed anche, potenziali duplicazioni (es Fastweb nella rete fissa e “Tre” e Vodafone nella telefonia mobile) e chiaro infatti che, se la rete è giustamente da considerarsi strategica, essa deve anche garantire uniformità di accesso a tutti gli operatori di mercato e, dall’altra parte, non può “tollerare” sovrapposizioni (per di più fuori del controllo della sfera pubblica).

mercoledì 25 settembre 2013

Qualche riflessione sulle vendite di Telecom e Alitalia


L’esito presunto delle vicende Telecom e Alitalia, cioè il passaggio del controllo in mani straniere non è tanto preoccupante per finale annunciato; quello che invece inquieta è come il tutto è stato gestito dalla nostra classe imprenditoriale e politica. Non c’è nulla di intrinsecamente sbagliato, infatti, nel fatto che un’azienda nazionale passi di mano e finisca sotto controllo estero, anzi, nel gioco della globalizzazione, avviene spesso e gli esiti per l’occupazione locale e per lo sviluppo dell’attività non sono sempre negativi. A questo proposito, basta guardare a un esempio recente dove l’ottica dovrebbe apparire esattamente rovesciata, alludo a ciò che sta succedendo nel caso dell’acquisizione di Chrysler da parte della FIAT che è avvenuta con l’accordo del governo USA, dei sindacati e delle maestranze e che, ben lungi dal mettere in crisi l’eccellenza locale rischia semmai di mettere in pericolo la vocazione italiana della casa madre.
Dall’altra parte, accantonata per un attimo la favoletta della libertà imprenditoriale e della globalizzazione, è chiaro che uno Stato “come Dio comandi” cerca di darsi una politica industriale che passa anche attraverso una strategia di supporto e di controllo di quelle attività che esso ritenga “strategiche”.
Immancabilmente i governi italiani mostrano, invece, di non avere nessuna visione strategica che non sia la mera visione clientelare, pertanto, le operazioni gestite dalla nostra classe politica, spesso condotte sotto l’ombrello e la partitura orchestrata da Mediobanca, sono nel lungo termine (e spesso anche nel breve periodo) fallimentari traducendosi nell’erosione della capacità di sviluppo e di sopravvivenza delle realtà economiche oggetto di “ripartizione”.
Anche la nostra classe imprenditoriale non è ovviamente priva di difetti e, normalmente partecipa volentieri a queste operazioni di saccheggio purché non debba metterci soldi propri e capitali di rischio.
 L’Italia era una nazione che vantava una preminenza assoluta nella tecnologia della telefonia ma il passaggio di Telecom ai privati, compiuto senza nuovi apporti di capitali e sostanzialmente basandosi esclusivamente sull’indebitamento ha impedito per decenni di investire seriamente in ricerca e sviluppo facendo così perdere progressivamente all’azienda quella preminenza tecnologica e quelle risorse che potevano permettergli di essere agente aggregante anziché oggetto d’acquisizione. Tra l’altro, proprio il passaggio del controllo di Telecom avvenuto alla fine degli anni novanta ha comportato la vendita all’estero dell’Omnitel - Infostrada alla tedesca Mannesmann. Dal punto di vista del sistema Italia il danno è stato quindi duplice perché alla fine dell’operazione solo uno dei due principali operatori nazionali rimaneva sotto il controllo d’imprenditori nazionali che, invece, perdevano il controllo di un’azienda competitiva; Telecom (o meglio, Telco) invece, usciva dall’operazione azzoppata poiché zavorrata da una mole ingente di debiti. A peggiorare ulteriormente le cose vale anche il giudizio corrente secondo il quale, il beneficio ricavato dallo Stato per la privatizzazione fu largamente inferiore alle attese; in pratica, la Telecom fu, di fatto, svenduta con grave danno all’erario e alle tasche del contribuente. L’operazione riguardante Alitalia è pure stata peggiore, la società, animale politico per definizione e, insieme a “mamma” RAI sovrano ostello di nomine politiche e assunzioni per raccomandazione, non ha mai prodotto grandi utili ma, più spesso, consistenti perdite da ripianare, tutto poi si poteva definirla salvo che “strategica”. Venderla ad Air France per tempo non sarebbe poi stato neanche troppo un cattivo affare, ma di nuovo, sono entrate in gioco la nostra solita cordata raccogliticcia d’imprenditori nazionali e la politica (ed anche, visti i tempi, la tipica demagogia da campagna elettorale). Il risultato di tutto ciò sarà che, probabilmente, Alitalia sarà venduta al pretendente di sempre ma a un prezzo sensibilmente inferiore.
Altri esempi di questo tipo non sono difficili da trovare, basti pensare a com’è stato gestito il problema delle privatizzazioni nel modo bancario che ha introdotto la stortura delle fondazioni. Notevole anche l’esempio dell’ILVA che ci lascia il dilemma se abbandonare il settore dell’acciaio, condannare un’intera popolazione alla disoccupazione, oppure lasciarla al dissesto ambientale.
 Alla fine i conti, dunque, li pagano sempre i soliti noti: in primo luogo le maestranze, a seguire i contribuenti, prima o poi, però, finiremo di avere anche solo qualcosa da privatizzare ... e a quel punto? ...

venerdì 20 settembre 2013

Recensione: Il mondo fino a ieri – Che cosa possiamo imparare dalle società tradizionali


"Il mondo fino a ieri – Che cosa possiamo imparare dalle società tradizionali”, titolo originale: “The World Untill Yesterday. What Can We Learn from Traditional Societies”, di Jared Diamond, traduzione di Anna Rusconi, edizioni Giulio Einaudi, ISBN: 978-88-06-21452-4.  

Questa volta, l’Autore di “Armi acciaio e malattie” e di “Collasso” ha scritto un libro, nelle premesse, meno ambizioso di quanto ci aveva abituato in passato, ma non per questo meno interessante. In quest’opera Diamond non si occupa direttamente dell’origine e del destino della civiltà ma, facendo ampio ricorso ai suoi studi e alla sua personale esperienza sul campo si arma di lente d’ingrandimento e fa una sorta di comparazione tra il modo di vivere e le istituzioni di un certo numero di società tradizionali comparandole con ciò che succede nelle moderne società occidentalizzate, lo scopo è, da una parte quello di estrapolare e recuperare quei comportamenti che potrebbero contribuire a migliorare la nostra qualità di vita, dall’altra, quello di fornire una spiegazione razionale del comportamento delle popolazioni tradizionali e delle motivazioni che hanno portato a mutamenti comportamentali, culturali e istituzionali nelle società moderne o comunque caratterizzate da una maggiore complessità e densità della popolazione.

L’Autore pone l’accento su argomenti specifici che riguardano le società pre-moderne descrivendo, ad esempio: le diverse ragioni e modi attraverso i quali avviene la gestione del territorio, della proprietà, della giustizia civile e penale, le motivazioni delle guerre tribali, degli scambi, dei commerci e delle relazioni interculturali ponendo persino l’attenzione sui diversi criteri di valutazione del rischio fisico e ambientale. Vengono poi descritti i rapporti famigliari, le diverse tradizioni matrimoniali e i differenti atteggiamenti verso la cura degli anziani, le abitudini alimentari e gli effetti legati alla differenziazione culturale e linguistica. 

Ne viene fuori un libro molto interessante che non annoia mai e ci regala elementi preziosi di riflessione che possono mutare in meglio anche la nostra esistenza personale.

giovedì 12 settembre 2013

Siria e Medio Oriente: Qualche riflessione sui movimenti insurrezionali, dittature e ruolo dell'occidente


Leggendo i resoconti del giornalista della Stampa Domenico Quirico che si riferiscono alla sua prigionia in Siria rilevo, un po’ amareggiato, come l’evoluzione dei movimenti insurrezionali segua spesso il medesimo schema: parte fra mille ideali di uguaglianza e libertà, per poi precipitare in forme più o meno evidenti di banditismo. Parlando dei paesi islamici, questo è successo in Afghanistan, in Somalia, in Mali e, con le dovute differenze, in Libia e, ovviamente sta avvenendo in Siria. Forse questa situazione non toccherà l’Egitto ma, e qui si aggiunge un nuovo elemento di riflessione, se il paese sarà risparmiato da queste forme di balcanizzazione della lotta, non sarà tanto per le qualità morali dimostrate dalle opposte fazioni, ma solo perché, in questo caso, la giunta militare sembra aver ripreso più che in altre parti il controllo della situazione. Anche questa possibile eccezione, quindi, non fa altro che fornire conferma a uno schema che sembra ripetersi all’infinito e dove emerge chiaramente quanto sia difficile rompere il circolo vizioso che sembra prevedere, per certi paesi, solo l’alternativa fra varie forme di dittatura e il caos. Riguardo ai racconti di Quirico noto anche che, le uniche note positive (o almeno, non totalmente negative!) nei confronti dei propri carcerieri le ha riservate a quelli che, per noi laici e occidentali dovrebbero essere considerati i nostri arcinemici, cioè ai militanti di Al Nusra, la cellula siriana affiliata ad Al Quaeda, mentre, sempre basandosi sulle dichiarazioni del giornalista, il resto dei gruppi militanti è risulterebbe costituito per lo più solo da briganti privi di ogni ideologia e morale. Ciò fornisce un altro elemento di pessimismo alle mie riflessioni perché, se come ho dichiarato, l’esito di questi conflitti prevede sostanzialmente solo due finali possibili: il ritorno a qualche forma di dittatura o, in alternativa, la disintegrazione dell’autorità statale, si potrebbe anche aggiungere che il risultato che prevede la restaurazione delle forme autoritarie può, a sua volta, portare a due sole scelte: l’instaurazione di un regime militare che s’ispira a sedicenti valori “occidentali” di modernizzazione e laicità, oppure, l’ascesa di un regime teocratico. Nessuna di queste due forme è, ovviamente, auspicabile per noi, né tantomeno, saremmo avvantaggiati dal caos prodotto dall’ennesimo “stato fallito”, difficilmente però possiamo seriamente pensare di ottenere esiti diversi se non attraverso impopolari e onerose operazioni di peace keeping che mettano, di fatto, queste aree sotto controllo e sotto tutela. In conclusione, se non abbiamo la volontà, la forza e magari anche la supponenza e l’arroganza per percorrere una tale ipotesi, tanto vale tenersi accuratamente lontani da queste situazioni rimanendo il più possibile fuori dalla mischia.

martedì 10 settembre 2013

IMU e Service Tax: I soliti pasticci


La questione della tassa patrimoniale sulla prima casa evidentemente tocca qualche corda profonda nella psiche degli italiani (e non solo il portafoglio :-)). A mio avviso, infatti, riguardo a questo argomento si dimostrano totalmente irrazionali. Chiaramente, bisogna innanzi tutto tenere presente che il tema non è, almeno nel breve periodo, legato al livello globale dell’imposizione fiscale. Infatti, se da una parte è riconosciuto che il sistema faccia ormai fatica a digerire ogni nuovo incremento della pressione fiscale, dall’altra, è noto che il gettito dell’IMU dovrà essere sostituito, nella sostanza, da qualche nuovo tributo o dall’incremento di quelli esistenti. 
Personalmente, non riesco a capire come aumenti di imposta che colpiscano altri aspetti e settori possano sembrare preferibili. Sicuramente, non mi sembra che un ulteriore aumento dell’IVA sia auspicabile, non solo perché tale intervento finirebbe per essere fiscalmente regressivo nei confronti dei redditi più bassi, ma soprattutto perché si configurerebbe come un ulteriore incentivo all’evasione fiscale, mentre la tanto decantata “Service Tax” sembra studiata a tavolino più che altro per superare le difficoltà degli enti locali nel sopperire alla mancanza di gettito causato dalla soppressione dell’IMU e non certo per gestire le cose con maggiore efficienza. A questo proposito, posto che si parla di un’imposta sui servizi, cosa servirebbe, per esempio, permettere ai Comuni di fissare l’aliquota d’imposta della nuova tassa (TASI) in base alla rendita catastale? A onor del vero, il decreto prevede anche la possibilità di rifarsi al criterio della “superficie” occupata, ma, se il principio che sorregge la nuova imposintrodotto deve essere quello previsto dalle norme europee secondo le quali: “chi inquina, paga!”, tutto ciò non avrebbe alcun nesso con l’aliquota catastale e neppure, entro certi limiti, con la superficie degli stabili!
Certo, l’IMU si era dimostrata in parte iniqua, frutto più di un’operazione che aveva lo scopo di sopperire alle esigenze di cassa di breve periodo rispetto a quanto fosse pensata per riequilibrare le diverse fonti impositive; andava sicuramente ricalibrata tenendo conto del livello dei redditi (sarebbe bastato prevedere qualche forma di detraibilità in capo alla dichiarazione dei redditi!) e del numero dei famigliari, ma soprattutto, avrebbe dovuto basarsi su un sistema di rendite catastali efficiente che riflettesse le situazioni locali e gli effetti della crisi immobiliare. Detto ciò, però, il principio era giusto ed anche rispettoso dei tanto strombazzati (solo demagogicamente!), programmi di localizzazione delle risorse e federalismo fiscale.
Siamo dunque di fronte al solito italico pasticcio che, purtroppo, riflette la mancanza di responsabilità di buona parte della classe politica che continua a preferire gli slogan elettorali ad una seria opera di riforma.