giovedì 30 agosto 2012

Recensione: Delfini

“Delfini”, di Banana Yoshimoto, edizioni Feltrinelli, ISBN 978-88-07-72261-5.

Kimiko, scrittrice dal carattere molto indipendente, ha una relazione con Goro, un uomo che vive anch’egli un po’ fuori dagli schemi tradizionali (almeno in relazione ai rigidi standard dettati dalla società nipponica). Essi non sono ancora sposati nonostante lei sia nel mezzo della “trentina” (è quindi sia oltre il termine massimo secondo gli standard giapponesi!), mentre lui è molto legato a Yukiko, una donna assai più anziana di lui, con la quale intrattiene un rapporto molto aperto ma profondo. Kimiko non ritiene che la storia con Goro abbia un futuro e pertanto decide di rilassare il legame recandosi ad aiutare un’amica presso un tempio buddista che accoglie donne in difficoltà. Al tempio Kimiko si occupa della cucina e, entrando per forza in contatto che alcune delle ospiti, comincia a interessarsi alle loro storie personali, ad apprezzare la propria attività di volontaria e la vita comunitaria che si svolge all’interno del tempio. Li, soprattutto, conosce Mami, una ragazza dotata di una sensibilità al limite del paranormale, alla quale si lega. Kimiko sente una certa riluttanza a tornare a Tokyo e pertanto, dovendo riprendere a lavorare, accoglie la proposta di un amico che le concede l’uso di una casa situata nella campagna nei dintorni del tempio. Qui però Kimiko si trova male e comincia a fare sogni inquietanti. Grazie all’intervento di Mami scopre sia la ragione che turba l’atmosfera del luogo, alla quale le due donne pongono rimedio, sia una novità imprevista che cambierà radicalmente la sua vita; Kimiko, infatti, si scopre incinta di Goro! Superata la prima fase di stupore Kimiko, decide di tenere quella che, secondo Mami, sarà una bambina e con ciò il romanzo si avvia a un finale che vedrà nuovamente coinvolti tutti i protagonisti della storia.

Si tratta di un racconto sulle donne scritto da una donna che per di più ha come tema centrale la maternità circonfusa da tutti i suoi istinti e dai suoi profondi misteri femminili. Secondo il punto di vista delle figlie di Eva, questo tema per un uomo è incomprensibile e, parafrasando W. Churchill si tratta di: ” … un rebus avvolto in un mistero che sta dentro un enigma …” (lui però parlava della Russia sovietica.:-)). Può darsi che sia vero, ma comunque tutto ciò non ha per nulla tolto interesse a un libro che a me è piaciuto molto. Forse mi tentano i misteri e, sicuramente, non mi piacciono gli enigmi irrisolti, ma soprattutto, non mi dispiace gettare uno sguardo in altri universi (e quello femminile è effettivamente interessante). Comunque, la bellezza del libro non sta tutta li, almeno per me che non avevo letto in precedenza altre opere di quest’Autore. Ho trovato curiosa l’atmosfera onirica e i vaghi riferimenti, forse involontari, allo “spirito” dei luoghi, a quella corrente sotterranea che istintivamente distende o mette i sensi in allerta e ci fa decretare che un posto è “buono” oppure è “cattivo”. Ci sono poi alcune scene e situazioni che a me sembrano veramente peculiari e che mi confermano alcune specificità della cultura giapponese. Devo aggiungere infine, che, per pura coincidenza, alcuni luoghi del romanzo mi sono apparsi straordinariamente famigliari! Ad esempio, parlando del tempio nel quale si rifugia Kimiko; nei dintorni di Tokyo si trova Kamakura, una cittadina che ospita alcuni di questi edifici religiosi, uno di questi, il Tōkei-Ji, guarda caso (ma magari ce ne sono migliaia così!) è un monastero femminile che dava rifugio alle donne che fuggivano o volevano divorziare dai loro mariti. Il tempio è piccolo e raccolto e gli spazi verdi sono limitati e ben curati, un po’ come i famosi “campi” dei quali parla l’Autore. Chissà che la Yoshimoto non avesse in testa proprio quel luogo!

domenica 19 agosto 2012

Recensione: La Scienza del Male – L’empatia e le Origini della Crudeltà

“La Scienza del Male – L’empatia e le Origini della Crudeltà”, titolo originale: “The Science of Evil”, di Simon Baron-Cohen, traduzione di Gianbruno Guerrerio, edizioni Raffaello Cortina, ISBN 978-88-6030-469-8.

Che cos’è e da dove viene la malvagità? E’ possibile evitare di fare ricorso a cause metafisiche e a spiegazioni religiose fornendo una definizione scientifica di Male riguardo all’agire degli esseri umani?
Ricorrendo al concetto di empatia l’Autore, insegnante di psicopatologia e psicologia e specialista nello studio dell’autismo, propone una tesi molto promettente per venire a capo del problema. L’empatia è un concetto che può essere definito come la “Capacità di un individuo di comprendere in modo immediato i pensieri e gli stati d'animo di un'altra persona”. Baron-Cohen fornisce una definizione analoga ma più incentrata sugli studi medici e psicologici: “C’è empatia quando smettiamo di focalizzare la nostra attenzione in modo univoco (single-minded), per adottare invece un tipo di attenzione “doppia” (double-minded) ”, in sintesi, questo avviene quando si smette di considerare esclusivamente il proprio punto di vista e interesse per sforzarsi di immedesimarsi in quello degli altri. Al contrario, la mancanza di empatia s’individua nella tendenza a considerare gli altri soggetti (umani e non!) con i quali si entra in relazione come semplici oggetti “inanimati” e, proprio attraverso questo processo di spersonalizzazione, diventa più facile infliggere il dolore, manipolare e usare le altre persone.
Da cosa dipende però il livello d’empatia di ogni essere umano? In quali aree cerebrali risiede la maggiore o minore capacità empatica? L’Autore affronta entrambi gli interrogativi spiegando che il livello medio di empatia di ogni essere umano e le sue fluttuazioni dipendono da una complessa combinazione di fattori genetici e ambientali che tendono a influenzare permanentemente o episodicamente il livello di funzionamento di un’estesa zona cerebrale che costituisce il “circuito dell’empatia”. Le esperienze fatte fin dalla fase neonatale, i traumi e gli abusi subiti possono essere importanti ai fini dello sviluppo di tali aree cerebrali; i soggetti “affetti” da un livello zero-negativo di empatia (i potenziali “malvagi”), fra i quali lo studioso colloca: narcisisti, psicopatici e borderline, sono spesso caratterizzati dal sottosviluppo o dal sottoutilizzo di alcune di queste aree. Anche i fattori genetici, però, appaiono rilevanti com’è dimostrato dagli studi effettuati su quelle categorie di soggetti che l’Autore colloca fra i cosiddetti “zero-positivi” (sindrome di Asperger e autistici comuni) per i quali, seppur in sostanziale assenza di capacità empatiche non si sviluppa la propensione a danneggiare gli altri. Tra l’altro, per me curiosamente, ma, a ben pensare molto logicamente, pare che i soggetti zero-positivi tendano a essere “immunizzati” contro la malvagità, grazie alla loro naturale attitudine, spiccatamente matematica, a “sistematizzare”, cioè a ricercare un rigoroso ordine naturale nell’ambiente che li circonda.
Eppure, nota lo stesso l’Autore, tutte queste spiegazioni non sono ancora sufficienti, infatti, gli individui che sono biologicamente collocabili ai livelli inferiori della curva dell’empatia, sono percentualmente una minoranza rispetto alla maggioranza della popolazione che, per definizione, si colloca invece su livelli medi. Pertanto, bassi livelli fisiologici di empatia possono contribuire a spiegare singoli casi di disadattamento o di violenza e trovano effettiva conferma nell’analisi dei casi di suicidio o nelle statistiche delle caratteristiche della popolazione carceraria, ma non riescono a spiegare il fenomeno della malvagità di massa. Per fare luce su tali fenomeni bisogna introdurre altri elementi, ad esempio, la tendenza al “Conformismo” come dimostrato dagli esperimenti di Solomon Asch (dove le persone affermavano che una linea era più lunga di un’altra andando clamorosamente contro l’evidenza dei sensi solo per adeguarsi al giudizio generale), oppure l’”ubbidienza all’autorità” come evidenziato nei noti casi dell’esperimento di Philip Zimbardo della “prigione di Stanford” (dove un gruppo di studenti fu suddiviso fra “guardie” e “ladri” facendo scattare l’istinto di prevaricazione dei primi sui secondi), oppure ancora l’esperimento di Stanley Milgram (dove i partecipanti erano indotti a credere di punire, anche in caso di errori banali, altri soggetti infliggendogli scosse elettriche progressivamente sempre più potenti), fino alle riflessioni sulla “banalità del Male” fatte da Hannah Arendt a seguito del processo al noto criminale nazista Adolf Eichmann. Riguardo a queste problematiche, probabilmente l’empatia di base non basta a spiegare tutto, mentre entrano in gioco moltissimi altri aspetti e variabili e, dal punto di vista dei soggetti implicati, anche la volontà o l’incapacità di valutare le conseguenze delle proprie azioni in modo più profondo. A questo proposito nel libro di Baron-Cohen è citata una catena di eventi indicativa che vale la pena di riportare:
- Persona A: Nel mio municipio avevo semplicemente l’elenco degli ebrei. Non feci delle retate di ebrei, ma passai l’elenco quando mi fu richiesto.
- Persona B: Mi fu chiesto di andare a quegli indirizzi, arrestare quelle persone e portarle alla stazione dei treni. Questo è tutto quello che feci.
- Persona C: Il mio lavoro era quello di aprire le porte dei treni, solo quello.
- Persona D: Il mio lavoro era far salire i prigionieri sul treno.
- Persona E: Il mio lavoro consisteva nel chiudere le porte dei treni, non nel chiedere dove il treno era diretto e perché.
- Persona F: il mio lavoro consisteva semplicemente nel guidare il treno.
- …
- Persona Z: il mio lavoro consisteva semplicemente nell’aprire i rubinetti delle docce da cui veniva emesso il gas.

Verosimilmente, ognuno dei singoli passaggi evidenziati non furono compiuti da soggetti patologicamente afflitti da un grado insolitamente basso di empatia, al contrario, l’esempio vuole mettere tutti in guardia rispetto alla capacità di ognuno di noi di compiere singole azioni non empatiche le cui conseguenze possono portare lontano in termini di malvagità.

venerdì 17 agosto 2012

Alcune considerazioni sull'ultimo libro dell'economista Paul Krugman: “Fuori da questa crisi, adesso!”

“Fuori da questa crisi, adesso!” del nobel dell’economia Paul Krugman, ha il pregio di andare direttamente e senza mezzi termini al nocciolo della questione: ha senso affrontare una crisi economica di questo tipo, che ha più di un’affinità con la Grande Depressione attuando manovre di austerità? L’Autore ricorda che Il modello classico keynesiano prevedrebbe in questo caso una politica di spesa espansiva da parte dei governi e fa notare come, proprio questo genere d’intereventi possa senza dubbio spiegare la ripresa americana avvenuta nel corso della Seconda Guerra Mondiale e poi proseguita lungamente nel corso del dopoguerra. Dall’altra parte, nonostante che il nobel dell’economia tenda a minimizzare gli effetti pratici e psicologici dell’aumento dei disavanzi statali, si contrappone uno scenario politico, finanziario ed economico che sembra impedire de facto il proseguimento di tali interventi almeno per quei paesi che appartengono all’area dell’euro e che non hanno più, singolarmente, il completo controllo della loro politica monetaria. Il problema sembra dunque avvitarsi in un tipico circolo vizioso; seguendo un approccio onesto alle teorie economiche, la crescita della spesa pubblica sarebbe la soluzione logica alla crisi per sopperire alla mancanza di spesa del settore privato ma, sostanzialmente, tale intervento appare improponibile perché un’ulteriore crescita dei disavanzi è vista come inaccettabile dai mercati finanziari la cui approvazione è necessaria per la sottoscrizione del debito in scadenza, nello stesso tempo le banche centrali europee (e, indirettamente, i governi) che controllano le autorità monetarie dell’unione (in questo caso la BCE) non sono ancora riuscite a mettersi d’accordo riguardo a un programma di sottoscrizione di debito pubblico di quei paesi che sono maggiormente in difficoltà. In conclusione, proprio la necessità di rendere le proprie emissioni “attraenti” costringe i singoli Stati a una politica di austerità incentrata sul rigore. Nel frattempo, prendendo spunto dalla crisi e approfittando della disoccupazione crescente, parte dell’elite economica, politica e finanziaria spinge a riformare in senso restrittivo tutto il sistema di previdenza e di contrattualistica del mercato del lavoro. Alla fine, dietro i problemi economici fanno capolino quelli politici e direi persino culturali. Krugman invoca riforme che richiamano le cure messe in atto durante la Grande Depressione, ma si dimentica che né in Italia né negli altri paesi occidentali sembrano profilarsi figure di politici carismatici quali furono Herbert Hoover (che pure essendo repubblicano aumento le imposte sulle imprese e le aliquote fiscali massime dal 25% al 63%) e soprattutto Franklin D. Roosevelt. Questi personaggi ricordiamolo, imposero delle ricette inedite seguendo una loro visione delle cose, andando spesso contro il parere dei sedicenti esperti e, soprattutto, opponendosi (e non favorendo) le principali elite finanziarie ed economiche del paese (che spesso tacciarono Roosevelt, i suoi esperti e i programmi federali di “Comunismo”), lo fecero grazie ad un largo seguito popolare, ma con una certa “prepotenza” (e più di una scorrettezza) che spesso si confuse con l’autoritarismo (per altro allora dilagante in forme molto più perverse anche in Europa e in Russia). Per quanto ci riguarda, non mi sembra che, guardando al panorama italiano, siano disponibili soggetti di tale fatta, al più sembra che si possa contare su alcuni soggetti indubbiamente competenti (come il nostro attuale premier Monti) ma sicuramente legati alle visioni tradizionali dell’economia, quando non proprio in conflitto fra i propri interessi di ceto e quelli della maggior parte della popolazione. Nel nostro caso poi, a parer mio, l’esecutivo è tutt’altro che “amato” e supportato dalle camere (che sono ancora l’espressione della nostra classe politica precedente) che al più lo sopportano in attesa che tolga loro quelle castagne dal fuoco che loro non saprebbero cavare per incompetenza (hanno avuto vent'anni per provarci!), per la scarsa considerazione che ha di loro la comunità finanziaria, o che, soprattutto, (qualora si continui a seguire le ricette tradizionali) implicherebbero da loro scelte che sarebbero invise all’elettorato. Forse, neppure l’opinione pubblica sembra considerare l’attuale Governo molto più che un male necessario che produrrà il solito "lacrime e sangue". Non penso quindi che, in questa situazione, ci si possa permettere soluzioni che escano dal seminato di ciò che è considerato possibile e auspicabile da quei “Very serious people” che Krugman stigmatizza con ironia. Dunque, a meno di improvvise illuminazioni dei nostri VSP che possano cambiare le possibili opzioni economiche a disposizione, ci tocca sperare in un miracolo da parte della politica. Forse una nuova legge elettorale che sia meno indecente di quella attuale ci regalerà il prossimo “uomo del destino”?

martedì 14 agosto 2012

Recensioni: Storia delle Eresie Libertarie – Dai testi sacri al Novecento

“Storia delle Eresie Libertarie – Dai testi sacri al Novecento”, di Valerio Pignatta, edizioni Odoya, ISBN 978-88-6288-129-6.

Ho trovato questo libro sorprendente fin dall’introduzione, pensavo, infatti, che l’opera fosse incentrata sulla descrizione dei rispettivi quadri storici che fecero da terreno di coltura ai vari movimenti eretici sviluppatisi a partire dal medioevo fino alla Rivoluzione industriale e, non mi aspettavo invece che l’Autore tracciasse un filo conduttore fra essi e che, soprattutto, lo riannodasse con quello dei movimenti anarchici che si distinsero a partire dal diciottesimo secolo. Secondo l’Autore, è proprio dalle caratteristiche delle Sacre Scritture che trova origine la corrente di egualitarismo, di promozione dell’interesse collettivo e di avversione dell’autoritarismo che caratterizzerà i movimenti eretici. La Bibbia, infatti, non fa che seguire una consolidata tradizione ebraica che è fatta risalire alla struttura sociale originaria imperniata sulle (dodici) tribù e sulla naturale propensione delle strutture tribali a perseguire nei confronti dei propri membri forme di cooperazione, di eguaglianza politica ed economica e di avversione verso forme evidenti di sperequazione e accentramento del potere. Nel corso dell’opera si pone l’accento e si enfatizza l’ideologia “anarchica” dei Vangeli e della predicazione di Gesù come delle prime comunità cristiane, incentrate su un egualitarismo evidente, la comunione dei beni, il rifiuto di ogni violenza e il non riconoscimento delle autorità civili e religiose (appena mitigato dall’evangelico “… Date a Cesare ciò che è di Cesare …”). Quest’atteggiamento porterà i primi cristiani a negare la fondatezza di ogni differenza sociale e di casta e a rifiutare ogni forma d’omaggio alle autorità (a cominciare dalla figura dell’imperatore), accompagnandolo al divieto di occupare cariche politiche e di magistratura e al rifiuto di prestare il servizio militare e, spesso, alla condanna della proprietà privata.
Andando alla ricerca del concetto originario di “Ecclesia”, vista come collettività di uguali, e posta alla base del cristianesimo delle origini, le sette e i movimenti eretici si rivolteranno anche e soprattutto contro le chiese istituzionali (quella cattolica come quelle riformate) che saranno considerate alla stregua di traditrici del messaggio originale del Cristo e puntello di un iniquo sistema di sfruttamento dei pochi a carico dei molti. Secondo l’Autore, questa corrente sotterranea che già può farsi risalire ai primissimi anni del cristianesimo (ad es., nel testo è citato Tertulliano [fra il 155 e il 230 d.C.]), troverà sfogo impetuoso nei movimenti eretici medioevali come quello dei Catari, dei Valdesi, dei seguaci di Fra Dolcino e di altri d’ispirazione gioachinista (cioè ispirati all’opera di Gioachino da Fiore [1130 -1203 d.C.]), ma sarà anche d’ispirazione all’ordine dei Francescani (che a loro volta, però, daranno origine ad alcuni movimenti eretici!). Tale corrente continuerà a scorrere impetuosa durante il periodo della Riforma (in particolare l’Autore parla degli Anabattisti, degli Hussiti e dei Fratelli del Libero Spirito) per poi continuare a emergere durante tutto l’arco della storia moderna, (ad esempio durante la guerra civile in Inghilterra attraverso l’esperienza di Levellers, Diggers e Ranters), in epoca vittoriana (es. Quaccheri), per confluire nella visione del filone pacifista dell’anarchismo ottocentesco, che l’Autore approfondisce soprattutto attraverso l’opera di Tolstoj e Kropotkin e di coloro che a essi s’ispirarono.

mercoledì 8 agosto 2012

Recensione: Fuori da questa crisi, adesso!

“Fuori da questa crisi, adesso!”, titolo originale: “End This Depression Now!”, Paul Krugman, traduzione di Roberto Merlini, edizioni Garzanti, ISBN 978-88-11-68670-5.

Paul Krugman, premio nobel per l’economia, d’inclinazioni liberal e dichiaratamente neokeynesiano, prova con quest’opera a dare una spiegazione della crisi e, soprattutto, propone senza mezzi termini e descrivendola con estrema chiarezza, una soluzione per uscirne. Tale proposta si accorda con la tradizione e l’esperienza di una delle grandi “scuole” macroeconomiche, quella che, sostanzialmente, si basa sui concetti già esaminati da John Maynard Keynes a partire dagli anni venti del novecento e imperniati sull’intervento dello Stato a sostegno dell’economia attraverso il meccanismo della crescita del disavanzo pubblico.
Vista l’enfasi che viene posta oggigiorno nello stigmatizzare i disavanzi “Eccessivi”. Il Libro si presenta come originale e interessante fin dalle premesse, infatti, le opinioni dell’Autore appaiono in contrapposizione frontale con le indicazioni di soluzione della crisi fornite da coloro che vengono sarcasticamente definiti nell’opera come “Very serious people”, e che, attualmente sembrano aver imposto la loro visione di liberalizzazioni, tagli e sacrifici, ai governi e all’opinione pubblica. Il Libro induce veramente a profonde riflessioni perché l’Autore, a volte fra le righe, a volte esplicitamente, insinua che la visione rigorista ora in corso d’applicazione sia in America come in Europa, non sia solo frutto di una visione errata e dogmatica della situazione, ma che sia anche, almeno in parte, dovuta alla necessità di tutelare l’interesse di pochi a scapito dei molti che invece patiscono le conseguenze della crisi.
Personalmente ho trovato questo Libro chiaro, autorevole e scorrevole e ne raccomando la lettura a tutti quelli che vogliono acquisire una maggiore consapevolezza riguardo a questi temi ormai di dominio e d’interesse pubblico.

Termino ponendo l’accento su alcuni aspetti critici che sono i seguenti:
1) Secondo la mia opinione, le soluzioni prospettate da Krugman sembrano più tagliate per il caso degli Stati Uniti, rispetto a quanto invece siano immediatamente applicabili in Europa. In questo caso, come giustamente ricorda l’Autore, esiste anche un problema di disomogeneità e di localismo della politica che rende più difficoltosa l’applicazione di politiche espansive basate sulla crescita del disavanzo.
2) Rimango poi scettico su alcuni aspetti dell’opera, non tanto riguardo al quadro teorico, che personalmente condivido, ma rispetto alla sua applicabilità politica. Pensando al caso Italiano, infatti, mi assillano i dubbi sull’effettiva opportunità di fare gestire questo genere d’interventi (posto che effettivamente ci sia la possibilità di metterli in atto!) alla nostra attuale classe politica, chiaramente incapace di gestire efficientemente e diligentemente uno strumento come il disavanzo che per sua natura, implica responsabilità e rispetto per le generazioni a venire.