lunedì 29 ottobre 2012

H 312 – L’handicap del sistema Italia: Sintesi di uno studio de La Stampa in collaborazione con la fondazione David Hume relativo alla produttività delle imprese italiane.

Oggi su La Stampa è stata pubblicata la sintesi di un’indagine che aveva come oggetto uno studio sulla produttività delle imprese italiane.


http://www.lastampa.it/2012/10/29/economia/l-handicap-dell-impresa-italia-YyANHjgzpqFIEyybfxjgcO/pagina.html

Tale studio è stato riassunto dall’esposizione dell’indice “H” (come “handicap”) che vorrebbe provare a misurare quanto sarebbe l’utile netto di un’impresa italiana se, conservando lo stesso tipo di organizzazione, al posto di operare sul territorio nazionale, essa fosse dislocata in un altro paese europeo. Andando subito al risultato, supponendo un utile netto pari a “100” ottenuto in Italia, l’indice “H” inteso come valore medio varrebbe nel resto d’Europa “312”. Vale a dire che la stessa impresa all’estero guadagnerebbe circa il triplo. L’indagine evidenzia anche che, se si guarda a una minoranza di singoli paesi (Germania, Belgio, Svezia e Danimarca), la nostra impresa guadagnerebbe meno di “100” (rispettivamente: 89, 51, 39 e addirittura registrerebbe una perdita in Danimarca, -36), ma, al contrario, nel resto d’Europa i risultati sarebbero molto migliori, con un vantaggio che va, dai “110” se si operasse in Francia, che passa a “214” nel Regno Unito e a “295” in Spagna, per finire con gli stellari “703” dell’Estonia! Personalmente, però, rimango colpito dai punteggi di: Slovenia (390), Polonia (595), Repubblica Ceca (609), Slovacchia (618) che non a caso sono state terreno di accoglienza nel recente passato di massicce delocalizzazioni d’imprese italiane. Manca purtroppo una comparazione con la Romania, per la quale mi aspetterei, anche in questo caso, di vedere apparire i numeri più alti della forchetta.

L’aspetto assolutamente interessante che emerge dall’indagine riguarda il costo del lavoro che è chiaramente scagionato come principale responsabile delle relativamente cattive performance del “Bel Paese”. A questo proposito, quindi, sarebbe utile cercare di capire il perché se ne parla tanto, posto che, se da una parte viene riconosciuto un problema riguardante il “cuneo fiscale” (delta fra il costo del lavoro e la retribuzione netta), dall’altra é anche detto chiaramente che le retribuzioni sono comunque oggettivamente più basse di quanto potrebbero essere in riferimento al resto dell’Europa. L’Italia, comunque, dal punto di vista delle retribuzioni nette si colloca esattamente all’interno della media, mentre pesa semmai il costo di tutti gli altri beni e servizi diversi dal lavoro che interessano la produzione. In questo caso, solo operando in Danimarca un’azienda italiana sarebbe danneggiata peggiorando i costi del 4,8%, nel resto d’Europa invece si otterrebbero benefici consistenti, ad esempio, operando in Francia o Germania si conseguirebbe una riduzione dei costi intorno al 7,5%.

Dai dettagli dello studio (apparso in otto puntate sul quotidiano) emergono invece i veri fattori che zavorrano le imprese italiane. L’analisi ne pone in evidenza alcuni che sono i “soliti noti”: Alto costo dell’energia e pessima qualità delle infrastrutture, inefficienza del sistema del credito sia sul lato dell’erogazione sia riguardo ai tempi d’incasso (e che tra l’altro vede primeggiare proprio la pubblica amministrazione fra i debitori meno virtuosi!), l’alto livello di tassazione che grava sulle imprese, le inefficienze burocratiche e i relativi extra-costi, il cuneo fiscale delle retribuzioni.

Se ne trae quindi un quadro a tinte fosche, ma che, a ben vedere, può anche essere visto come un’opportunità e indurre a un cauto ottimismo, perché traccia una possibile scaletta di interventi che potrebbero essere posti in essere dimostrando dove e come sia possibile ottenere significativi aumenti di produttività a seguito di scelte percorribili. Molto dipende dall’attuazione di scelte politiche ed è comunque consolante sapere che l’opera di razionalizzazione rientra nelle possibilità di una leadership realmente intenzionata a percorrere un sentiero di riforme che diano efficienza al nostro sistema paese allontanando lo spettro del declino.

domenica 28 ottobre 2012

Recensione: A Morte il Tiranno – Anarchia e violenza da Crispi a Mussolini

“A Morte il Tiranno – Anarchia e violenza da Crispi a Mussolini”, di Erika Diemoz, edizioni Einaudi, ISBN: 978-88-06-20691-8.

Fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del novecento, gli anarchici italiani furono considerati fra le più pericolose minacce terroristiche del momento. Attivi nella propaganda a difesa degli oppressi, presunti mandanti ed esecutori di attentati efferati che colpirono direttamente teste coronate e personaggi politici di spicco, essi impressionarono, affascinarono e terrorizzarono l’opinione pubblica con le loro gesta spregiudicate degne dei più fanatici degli accoliti, finendo per circonfondere la comunità anarchica internazionale di una profonda aura di mistero. Per decenni le polizie di mezza Europa tentarono di dipanare le “trame” anarchiche e andarono alla caccia della “Cupola” di quest’organizzazione che si voleva potente e impenetrabile come i vertici di una setta misterica. Le indagini, infine, non riuscirono a scoprire nulla di sostanziale, anche perché, effettivamente, non esistevano né vertice né struttura segreta. Esisteva invece un’inquieta, dinamica, variopinta e solidale collettività anarchica internazionale in mezzo alla quale, insieme a molto individualismo, ricorrevano alcuni carismatici esponenti di spicco. Attraverso questa comunità le idee libertarie circolavano le iniziative si moltiplicavano e i singoli “fatti” (così erano chiamati gli atti di protesta e gli attentati) venivano esaltati, perpetrati e spesso imitati.

L’Autore attraverso una mole notevole di documenti tratti dagli archivi della polizia, dagli atti processuali, da articoli di giornale e dalla corrispondenza privata, ci guida attraverso questo mondo illustrando efficacemente il clima socio-economico dell’epoca e raccontando la vita degli attentatori, spesso singoli disperati, e degli altri protagonisti, sia di parte anarchica sia di parte istituzionale.
Ho trovato personalmente interessante costatare in alcuni processi contro gli attentatori anarchici, il ruolo riservato alla scienza, allora incentrata sulle teorie lombrosiane, e mi ha colpito la sagacia di non pochi politici e studiosi all’epoca contemporanesi dei fatti che, correttamente, facevano risalire la violenza anarchica alle difficili condizioni di vita dei ceti popolari che caratterizzavano la penisola italiana e la congiuntura europea del periodo.

Per me, quindi, il libro è risultato curioso e interessante e, curiosamente, trovo che finisca per dimostrare, a onta dei mezzi a disposizione dei protagonisti e nel bene come nel male, la grande potenza, dedizione e spirito di rivalsa che sa ispirare l’ideale della libertà.

martedì 23 ottobre 2012

Recensione: Amerigo – La vita avventurosa dell’uomo che ha dato il nome all’America

“Amerigo – La vita avventurosa dell’uomo che ha dato il nome all’America”, titolo originale: “Amerigo, The Man Who Gave His Name to America”, di Felipe Fernàndez-Armesto, traduzione di Ester Borgese, edizioni Bruno Mondadori, ISBN: 978-88-61-59274-2.

Fernàndez-Armesto è uno storico che riesce sempre a stupire proponendo spesso punti di vista fuori dal comune eppur straordinariamente convincenti. Anche questa biografia, che sicuramente non è all’altezza di altre opere dello stesso Autore, ha comunque dietro una grande opera di ricerca e soprattutto uno stile narrativo sconcertante che, apparentemente, vuole produrre un risultato eccezionale, quasi una burla. Fernàndez-Armesto sembra volerci mettere in guardia proprio contro le insidie della ricerca biografica che, nel bene o nel male, contribuisce per definizione a creare e perpetuare il mito intorno al soggetto trattato. Le biografie, infatti, spesso ripercorrono la vita e le gesta di personaggi che la storia o l’opinione comune ha riconosciuto come eccezionali, di conseguenza, il lettore si aspetta che nella vita di questi personaggi emerga qualcosa di speciale, persino in quei casi in cui l’affresco sia fatto a tinte fosche. Si rimane quindi comprensibilmente spaesati ad apprendere che il grande navigatore che ha legato il proprio nome al Nuovo continente in realtà non fosse eccezionale per nulla: faccendiere, ex mago, mercante di non eccelsa attitudine e di mediocre successo e infine neanche troppo valente né come navigatore né come osservatore e neppure come cosmografo. Secondo la ricostruzione dell’Autore, Amerigo non era né un eroe né un anti eroe e anzi, esso assomigliava “straordinariamente” sia nelle qualità personali sia nel bilancio della sua carriera a una persona assolutamente normale. E come finì il suo nome sulle carte geografiche allora? Banalmente, fu una commistione di errori altrui e di fortuna sfacciata, niente di più normale! Per sapere i dettagli, però, conviene veramente leggere il libro, perché è proprio vero che la realtà supera spesso anche la più fervida fantasia.

domenica 21 ottobre 2012

Uomini con il coltello in tasca

Sono sempre più colpito dalla lettura di molti fatti di cronaca. Il copione sembra sempre lo stesso anche se cambiano leggermente i contesti; un insulto, una manovra sbagliata, un urto accidentale, un’occhiata troppo intensa, un rifiuto, un amore respinto ed ecco che salta fuori una lama e finisce a coltellate, spesso non una, decine. Poi la solita lagna:”ho perso la testa!”. Questo è appena successo a un ragazzo che ha ferito gravemente la sua giovane ex fidanzata e ucciso la sorella che cercava di difenderla. Io mi chiedo però: ”Ma come? Come puoi dire di aver perso la testa? Non può succedere così!”. Certo può accadere che un litigio finisca in tragedia, in fondo, riconosco questa possibilità, sono, infatti, imprevedibili i frutti dell’ira. Semmai sono allibito riguardo al fatto che ci si accanisca su un soggetto fragile, un anziano oppure, appunto, una donna, ma a parte ciò, si sa che l’insidia si nasconde dietro una spinta avventata che provoca una brutta caduta, l’urto accidentale di uno spigolo, uno schiaffo istintivo, un pugno violento che sfonda il torace o il setto nasale … persino un’arma impropria raccolta per strada o nella cucina di casa, anche quello ci può stare, quella è fatalità! Seppur magari scatenata anch’essa da un eccesso malato, quello è “perdere la testa”, andare oltre a quanto ci si era proposti di fare.
Invece una coltellata no! Li c’è un’arma di mezzo e, dietro la scelta di girare armati c’è un intero sistema di pensieri, un universo sbagliato e un abisso di debolezza che non può essere scusato così facilmente. Nel momento in cui uno si mette in tasca un’arma, si accompagna al gesto il proposito di usarla. La testa quindi la si perde lì, nel momento in cui si sceglie di vivere da vili.



martedì 16 ottobre 2012

Una parabola "Celeste"

Sembra proprio la ridanciana testa del “Celeste” quella che appare infissa alla staccionata del palazzo della Regione Lombardia. Forse, a Dio piacendo, l’oscura giungla di Conrad ha finalmente richiamato a se l’ennesimo dei suoi “cuori di tenebra”! ... Anche se, aggiungerei, neanche nella caduta il personaggio regge comunque degnamente il paragone.

venerdì 12 ottobre 2012

Recensione: Vergogna – Metamorfosi di un’emozione

“Vergogna – Metamorfosi di un’emozione”, di Gabriella Turnaturi, edizioni Feltrinelli, ISBN: 978-88-07-10484-8.


Il libro cerca di analizzare in chiave moderna il sentimento della vergogna, cercando di capire come esso si sia adattato e differenziato all’interno della società moderna.

In passato il sentimento della vergogna era fortemente legato al concetto di onore, a sua volta, parte integrante di un certo ruolo e status sociale. Il tessuto sociale tendeva a essere più coeso e maggiormente orientato verso un sistema condiviso di valori, pertanto, spesso la vergogna segnalava uno stato per il quale un soggetto veniva meno agli obblighi formali legati a una certa carica e ruolo. Nella società moderna, molto più segmentata rispetto al passato, se non improntata decisamente verso l’individualismo, ma anche caratterizzata dall’assottigliamento delle differenze fra aspetti personali e privati e immagine pubblica, la vergogna sembra aver perso l’importanza originale ed è spesso relativizzata rispetto ai valori di riferimento di un qualche individuo o sottogruppo diventando personalizzata, quasi “fai da te”. Spesso la ragione dello svergognamento non è più fondata sul timore di un giudizio morale dato dall’intera collettività, ma dipende più dalla mortificazione originata dal mancato conseguimento di obiettivi personali, dalla mancata risposta a modelli estetici o di consumo veicolatici dai media, da un fallimento in termini di prestazioni o dalla condanna di un ristretto gruppo di riferimento e di appartenenza con il quale si condividono obiettivi e valori non di rado differenti rispetto a quelli che caratterizzano l’insieme della società. In un sistema incentrato sul narcisismo, sulla spettacolarizzazione, malato di performance e incantato dal mito della felicità, la vergogna e il disagio a essa collegato sono spesso relegati a semplici fastidi, a disagi da curare, riparare e superare rapidamente per poter “ripartire” e le cadute di ordine morale finiscono per essere banalizzate, relegate a semplici episodi sfortunati, scivoloni occasionali di una rappresentazione, di una mascherata fatta a beneficio di un pubblico che, seguendo la logica del “così fan tutti”, s’immagina ugualmente intimamente compromesso.

In una parte successiva del saggio è invece analizzata l’emozione della vergogna in funzione del controllo sociale. In questo caso, la possibilità di istillare vergogna, di bollare come “vergognoso” il comportamento di singoli o gruppi è stato in passato, ed è ancora adesso uno degli strumenti a disposizione dei leader per far convergere il consenso e per reprimere il dissenso.

Vi è poi un’altra sfaccettatura di questa emozione che emerge quando il sentimento insorge non relativamente al soggetto ma al contesto entro il quale egli si riconosce. Questo succede quando ci si vergogna di qualcuno o di qualcosa fatta da altri, quando si sente di patire un danno d’immagine a seguito dell’operato di altri. Questo coinvolgimento può riguardare sia la cerchia ristretta degli affetti per allargarsi a tutti quegli insiemi ai quali si sente di appartenere: la famiglia allargata, la propria squadra, il proprio gruppo di lavoro, la propria azienda, i propri correligionari, i compagni di partito, la patria fino all’intero genere umano.

La reazione alla vergogna ha forti conseguenze, sia nel caso in cui essa sia provata nei confronti dei propri atti, sia quando è provata nei confronti di altri e può dare origine a stati e comportamenti negativi, attraverso il senso di colpa, l’isolamento, l’alienazione e la depressione, ma più spesso positivi, aventi la finalità di superare lo stato vergognoso che s’intende comunque transitorio. Interessante è la parte del libro relativa al legame fra vergogna provata per altri e il senso d’indignazione, che finisce per essere rilevante per i cambiamenti politici e per quelli sociali finendo per creare quei “movimenti d’opinione” fondamentali ai fini dell’alternanza politica e al rinnovamento e all’evoluzione della società.

Il tema è dunque interessante, ma il libro, seppur ben scritto, non è riuscito a essere coinvolgente. Non penso che ciò dipenda dallo stile dell’Autore che è chiaro e scorrevole, quanto dal fatto che l’argomento è stato trattato solo in chiave sociologica, e non anche antropologica, fisiologica ed evolutiva. Vi sono poi delle argomentazioni che mi sono apparse ripetitive e alla fine la lettura risulta fin troppo distaccata rispetto a un argomento che tanto dipende dalle correnti sotterranee delle nostre umane passioni.

mercoledì 10 ottobre 2012

Legge di stabilità, IMU sugli immobili della Chiesa, Tobin Tax: Tre buone iniziative del Governo Monti

Sono stupito e piacevolmente sorpreso dalle ultime iniziative del Governo Monti. Non mi aspettavo, infatti, che ci fosse una vera intenzione di tagliare le aliquote IRPEF, e questo nonostante che, guardando le cose con il senno di poi, qualche voce riguardo a questa possibilità fosse filtrata nei giorni scorsi. Sicuramente qualcuno starà già pensando a qualche astuta manovra preelettorale, ma per quanto mi riguarda, ciò che emerge dalla nuova legge di stabilità mi sembra un buon compromesso fra rigore e compensazioni. Oso anche pensare che questo provvedimento lasci intravvedere un nuovo approccio verso la soluzione della crisi che passi da una logica incentrata solo su tagli e sacrifici un po’ troppo indiscriminati a una politica basata maggiormente sul riequilibrio dei redditi.


Si potrebbe pensare che, almeno sul fronte dell’immagine si potesse fare di più, a questo proposito, la ciliegina sulla torta forse sarebbe stata l’introduzione di una super aliquota per i redditi “altissimi” (es. maggiori di 300.000 euro), allineandosi così all’iniziativa del francese Hollande. Io però sono dell’opinione che non fosse il momento per un provvedimento del genere che in realtà, in termini di gettito, si sa più psicologico o demagogico che di sostanza. Una mossa del genere avrebbe chiaramente indicato un cambio di rotta verso politiche maggiormente ispirate a un qualche “New Deal”, ma forse avrebbe agitato inutilmente le acque in cambio di poca sostanza.
Invece, uno scambio fra sgravi IRPEF e aumento dell’IVA sembra un compromesso accettabile, anche perché, nella sostanza, immunizza i contribuenti virtuosi (solo nel caso di redditi correnti confrontati alle spese correnti però!) mentre colpisce indirettamente gli evasori.

Buone notizie anche sul fronte del versamento dell’IMU, dove il Governo mantiene il suo impegno nel cercare di assoggettare all’imposta anche quegli immobili ecclesiastici dove è svolta un’attività produttiva di reddito e ottima l’intenzione di allinearsi alle iniziative di Francia e Germania riguardo all’applicazione della Tobin Tax sulle transazioni finanziarie.

lunedì 8 ottobre 2012

Etica e azione – Una riflessione sul mito del Superuomo ispirata da “Delitto e Castigo” di F. Dostoevski

Il capolavoro di Dostoevski non lascia indifferenti, molti rimangono colpiti da qualcuno dei temi trattati nel romanzo o dalla figura di qualche personaggio e questo è quanto, è successo anche a me. Prima di leggerlo, avevo l’impressione che l’interesse dei più s’incentrasse sul ruolo salvifico della religione, probabilmente ciò è vero, ma adesso mi rendo conto che questo elemento costituisce al più uno degli assi, non necessariamente il principale, intorno al quale ruota la vicenda.
 Il libro è caleidoscopico e tocca moltissimi temi, personalmente, quello che mi ha attratto di più è quello incentrato sui rischi del nichilismo e sulla figura del protagonista Rodion Romanovič Raskolnikov. Durante il romanzo emergono le ragioni profonde che guidano la mano assassina del giovane studente, esse sono inizialmente confuse, ma infine appaiono nitidamente. L’omicidio, apparentemente compiuto a scopo di rapina trova una prima giustificazione nella disastrata situazione economica di Raskolnikov; i soldi sottratti alla vecchia usuraia dovrebbero servire al protagonista per rimettersi sui binari, trovare ampie risorse per continuare gli studi e per impostare una vita di successo, ma anche per affrancare la madre e la giovane sorella dall’obbligo del suo mantenimento. Già a proposito di quest’ultimo punto però, emerge l’ambiguità di Raskolnikov perché la sua volontà d’indipendenza non mi appare genuinamente motivata dall'intenzione di non gravare sui famigliari, quanto da un incontenibile e mal indirizzato senso di orgoglio che lo spinge a un tentativo infruttuoso di affrancarsi prima del tempo. Lui poi avrebbe la soluzione al problema, basterebbe impegnarsi sopportando lo stato d’indigenza, adattarsi a qualche modesta fonte di guadagno imitando il comportamento del suo amico Dmitrij Prokofevič Vrazumichin (Razumichin ) per il quale, sembra provare sì ammirazione, ma anche molta invidia.
 Raskolnikov, a mio avviso, è innanzi tutto un pigro, vuole immediatamente indipendenza e agi e non è (più) disposto a soffrire per migliorare la sua condizione, non vuole faticare nella sua scalata al successo e come molti deboli e inetti si culla nell’illusione della svolta ottenuta con un colpo di teatro. Sotto questa luce, tutta la sua preoccupazione verso i famigliari appare come una semplice scusa, una giustificazione morale elaborata a priori per addormentare la propria coscienza. Poi però emergono le vere ragioni nascoste che guidano l’azione del protagonista, svelando l’effetto corrosivo dell’approccio nichilista. Egli, oggettivamente un fallito, si sente invece un Napoleone (non è raro in personaggi di tal fatta!), un uomo del destino che deve mettersi alla prova e ha la necessità di dimostrare a se stesso la sua capacità e volontà di saltare lo steccato morale che dovrebbe rendere evidenti le sue qualità di superuomo. Compiendo il delitto, eliminando consapevolmente una semplice “piattola” (così egli definisce la vittima prima e dopo l’omicidio) egli, nelle sue intenzioni deliranti, si rende padrone della propria morale e spiana il proprio destino. Secondo me, proprio in questo punto avviene un tipico cortocircuito che caratterizza il pensiero nichilista. L’aspetto che sfugge a ogni logica è quello di pretendere di autoproclamarsi “superiore” grazie ad un clamoroso atto d’indipendenza compiuto contro l’etica condivisa. Seguendo questa china non si oltrepassano i propri limiti in termini positivi, non si ascende, ma anzi si precipita regredendo al ruolo patetico di “super infame”. L’errore grossolano è quello di pensare che il Superuomo, posto che abbia senso questo termine, si possa incoronare da sé, quando invece è il proprio destino, la propria storia, o nei casi fortunati, quella ufficiale a farlo, ma sempre a posteriori. Non ci si candida a essere “eccezionali”, forse infine si scopre semplicemente di esserlo, o almeno di essere visti come tali. Tutto ciò però avviene, posto che effettivamente succeda, (perché non è detto che il proprio operato sarà rilevato) attraverso il giudizio di altri. Neanche la rivisitazione del passato, del percorso che si è compiuto, è soggettivamente rilevante perché l’eventuale scoperta matura esternamente, non è mai del soggetto che, invece, guarda al proprio passato solo per trarre esperienza e per misurare i propri progressi. Nella realtà, comunque, non esiste nessun Superuomo, ma solo un semplice uomo in formazione, alla continua ricerca del proprio compimento in relazione ai modelli che lo ispirano. Se per gli altri egli finisce per essere un eroe, un personaggio eccezionale, egli non si vedrà mai così, egli, infatti, fa le cose per sé e poiché necessarie al proprio completamento e le sue opere, magari straordinarie, intimamente si danno come atti dovuti e necessari, doveri ai quali egli non si può sottrarre.
Ecco l’errore tragico di Raskolnikov, non si diventa Superuomo in virtù di una prova singola, a un rito d’iniziazione; e poi, l’ho già detto, il Superuomo non esiste, è un concetto illusorio. Si può però divenire padroni del proprio destino, qualsiasi esso sia, e questo avviene solo quando si accetta di seguire la via del perfezionamento, sapendo che tale percorso non conduce necessariamente al successo e alla gloria terrena. Il premio è la pace, l’accettazione di sé, la consapevolezza di essere e di agire nel giusto. Il processo però, necessita per forza tempi lunghi e non può implicare una rottura con la morale del momento. Si deve lavorare per la giustizia, ma la percezione di ciò che è giusto si sviluppa lentamente grazie ad un incessante lavoro di studio e di miglioramento. E’ la cultura, lo spirito di analisi e la capacità di osservazione che deve guidare l’azione. in ogni caso, mai ci si separa completamente dall’etica contemporanea verso la quale non si ricerca mai una rottura, semmai si scruta il futuro cercando di vederne o promuoverne l’evoluzione. Anche il legame verso la tradizione deve rimanere saldo, incentrato su quei principi basilari che si sanno fondamentali, come la “regola aurea” oppure il generico rispetto della vita, per quanto possibile. Per l’uomo la vita è importante in tutte le sue forme, non esistono “piattole”. Levare la vita può essere un atto necessario o anche solo utile o comunque dettato dal contesto oggettivo, al modo in cui funzionano le cose, ma non deve mai essere banalizzato, relegato nell’irrilevanza, pena la perdita dell’umanità, dello status di uomo, del senso di giustizia. Per questi motivi, la via del perfezionamento non prevede rivoluzioni ma riforme graduali, un progresso che ci si augura incruento legato al maturare dei tempi, alla ricerca del senso e dell’armonia di gesti, parole e azioni e non può ridursi a un unico eclatante atto volitivo.

martedì 2 ottobre 2012

Recensione: Delitto e Castigo

“Delitto e Castigo”, titolo originale: “Prestuplénie i nakazànie”, di Fëdor M. Dostoevski, traduzione di Cesare G. De Michelis, edizioni La Biblioteca di Repubblica, ISBN: 88-89145-03-X.

 Per quanto mi riguarda il libro, ha pienamente confermato la sua fama di capolavoro. Certo, sono passati circa cento cinquant’anni dalla sua pubblicazione (uscì nel 1866) e, a parer mio, il romanzo accusa un po’ l’età per quanto concerne lo stile della narrazione e i dialoghi che, oggigiorno, appaiono un po’ irrealistici e troppo teatrali. Per certi versi poi, almeno per buona parte del romanzo, la trama sembra procedere lentamente, appesantita da una fitta presenza di dialoghi, spesso introspettivi, e inframmezzata di personaggi che, a prima vista, ma erroneamente, appaiono superflui. Eppure, a poco a poco, la storia conquista e cattura la piena attenzione del lettore in un crescendo di pathos veramente drammatico e innegabilmente appassionante che, almeno per ciò che mi riguarda, … inaspettatamente non arriva al finale che immaginavo!

 - Ma come? Ho pensato, eppure la trama è nota a tutti nei suoi termini generici! … L'operato di Dostoevskij e, in particolare, questo libro sono stati analizzati, spiegati, rigirati da legioni di studiosi e intellettuali, eppure, in modo inatteso, e forse è proprio questa caratteristica che fa di questo romanzo un capolavoro di successo anche ai nostri giorni, la narrazione lascia ancora al lettore la possibilità di dare un suo giudizio personale sulla vicenda. Nelle pieghe della trama la percezione delle diverse ragioni, delle motivazioni, delle cause e degli effetti sono in qualche modo variabili e, come in una buona ricetta, questi elementi possono, entro certi limiti, essere calibrati e mescolati in modo personale, traendone così un caleidoscopio d’insegnamenti diversi e adattabili. Qui, forse, sta Il bello di questa storia che, seppur incorniciata in un contesto definito, ognuno può leggere a suo modo cogliendone gli aspetti che più hanno colpito la propria fantasia. Ma torniamo alla vicenda …

 Siamo a Pietroburgo, dove un giovane, ex studente squattrinato, Rodion Romanovič Raskolnikov, pianifica e compie un omicidio a scopo di rapina uccidendo una vecchia usuraia. Il delitto, accuratamente meditato e preparato, nella pratica si volge in un disastro. L’assassino è costretto a sopprimere una vittima innocente, Lizaveta Ivanovna, mite sorella dell’usuraia e la rapina, sostanzialmente, fallisce a causa del panico e della fretta che s’impossessano dello sprovveduto artefice che, perduto completamente il suo sangue freddo, riesce a stento a dileguarsi con un bottino inconsistente. Segue per lo studente un profondo periodo di angoscia, rimorso e paranoia che finisce per gettare il protagonista in un completo stato di prostrazione fisica e psicologica. Lentamente egli giunge alla consapevolezza della sua incapacità di gestire le conseguenze del suo gesto, della sua impossibilità di “andare oltre”, del completo collasso della sua sicumera e della propria personale e amorale versione del “Superuomo”. Perseguitato dai sospetti reali o immaginari che cominciano a insinuarsi in chi conduce le indagini e nei suoi stessi amici e famigliari e che, egli stesso contribuisce ad alimentare con la sua goffaggine e con una completa assenza di autocontrollo, egli finisce per trovare esempio e consolazione nella persona di Sof'ja Semënovna Marmeladova, giovane figlia di un ubriacone conosciuto per caso, costretta alla prostituzione per necessità, eppure straordinariamente buona e virtuosa, grazie anche alla sua profonda fede religiosa. A lei Raskolnikov confessa la sua la colpa, ed essa contribuisce a convincerlo a costituirsi, finendo poi per seguirlo nel suo esilio in Siberia dove continuerà ad accudirlo durante la detenzione venendo infine (ma proprio alla fine!) ricambiata da Raskolnikov per il suo amore e dedizione disinteressati.

 Quest’opera e dunque un contenitore pieno di elementi sui quali riflettere, a cominciare dal titolo che in realtà sarebbe “Il Delitto e la Pena” (pare che il titolo in Italiano derivi da una non corretta traduzione del testo dal francese!) e che riecheggia volutamente l’opera di Cesare Beccaria “Dei Diritti e delle Pene”, pietra miliare nel campo della cultura giuridica. Sullo sfondo, però, sono proposti esplicitamente o appena accennati moltissimi altri temi complessi. In primo luogo emerge quello religioso, posto non solo in antitesi alla visione nichilista del “Superuomo”, nuovo demiurgo fortificato dalla “morte di Dio”, artefice del proprio destino e della propria morale (e qui dimostratosi terribilmente fallace!); ma che si sviluppa anche affrontando altri argomenti come quello della fede nella Provvidenza e nella Giustizia divina, della salvezza (o redenzione) ottenuta tramite il sacrificio, della carità. Appaiono poi sullo sfondo le idee socialiste: la comune come luogo antitetico al capitalismo, l’ideale di una società più giusta basata su un maggior livello di cultura, le contrapposizioni fra lo spirito libertario e l’ordine sociale, la sua influenza sull’idea tradizionale di famiglia, il tutto condito dalle umane pulsioni, la gelosia, l’adulterio collegati al tema della libertà sessuale e di scelta della donna. Insomma! Una vera cornucopia dalla quale è facile trarre spunti e ispirazioni.