domenica 26 aprile 2015

Recensione: Il Regno


“Il Regno”, titolo originale: “Le Royaume”, di Emmanuel Carrère, traduzione di Francesco Bergamasco, edizioni Adelphi, ISBN: 978-88-459-2954-0.
Un bel libro che avrebbe potuto essere un capolavoro se non fosse per un eccesso di protagonismo dell’Autore che, proprio non ce la fa ad evitare di riportare sempre l’attenzione del lettore sul proprio caso personale e sulle proprie esperienze.Per quanto posso giudicare io, c’erano quindi tutti gli ingredienti per un grandissimo libro: una buona idea, un tema intrigante sviluppato attraverso una seria attività di ricerca, uno stile di scrittura scorrevole che combina una certa dose di sarcasmo e, persino, di autoironia con un notevole sfoggio di cultura. Il risultato però è risultato leggermente al di sotto delle premesse e delle aspettative.
Ci sono, infatti, alcuni punti del libro dove vorresti che l’Autore si concentrasse di più sulla sua stessa narrazione e la smettesse di guardarsi l’ombelico mettendolo sempre al centro dei riflettori e facendoti perdere il filo della storia. Passi che le prime cento pagine del libro siano dedicato all’esperienza di fede dell’Autore stesso (adesso ritornato alla laicità, se non proprio all’ateismo!), cosa che, già di per sé è stata per me una sorpresa, vista la lunghezza dell’incipit; ma che questi, nella parte successiva, si perda continuamente a parlare dei fatti suoi, finisce per risultare un po’ fastidioso e mi ha portato a stemperare l’entusiasmo e l’apprezzamento che merita la maggior parte del romanzo.
Venendo alla trama, la storia è incentrata sulla predicazione di S. Paolo o, meglio, sull’opera di S. Luca, autore di uno dei quattro Vangeli canonici e degli “Atti degli Apostoli”, nonché “curatore” dell’opera dell’apostolo dei “Gentili”, che egli accompagnò lungamente nel corso della sua opera di missione. Carrère cerca di ricostruire, a mio avviso, riuscendoci appieno, il contesto storico, i fatti e le caratteristiche dei personaggi dell’epoca mantenendo un’interessante parallelo fra la “Grande Storia”, fatta di personaggi altolocati e di macro eventi riportati negli annali e la “Piccola Storia” delle prime comunità cristiane, di quelle che allora apparivano oscure, insignificanti, piccole sette di derivazione ebraica, già fin dalle origini, frammentate e litigiose; ma che, da lì a breve sarebbero entrate a far parte della prima per giungere ancora forti e vitali fino ai giorni nostri.
Sullo sfondo il tema misterioso e potente della fede, così spesso intrecciato con l’amore, così simile ad un’infatuazione; per alcuni dono e fonte di illuminazione, per altri caduta nell’irrazionale e nella superstizione; in eterno conflitto con la ragione, lucida, logica ma necessariamente pessimista e, in fondo, forse anche un po’ invidiosa perché vorrebbe anch’essa poter credere e sperare, ma che proprio, per sua natura, non può.

mercoledì 22 aprile 2015

Recensione: 1177 a.C. – Il collasso della civiltà


“1177 a.C. – Il collasso della civiltà”, titolo originale: “1177 BC The Year Civilization Collapsed”, di Eric H. Cline, traduzione di Cristina Spinoglio, edizioni Bollati Boringhieri, ISBN: 978-88-339-2579-0.
Nel corso del dodicesimo secolo a.C. il Mediterraneo orientale e vaste aree dell’odierno medio oriente erano già fortemente interconnesse dal punto di vista sociale ed economico. Vasti imperi e regni: gli egizi, gli ittiti, i cassiti, i mitanni, gli assiri, i minoici e i micenei erano strettamente legati in un sistema che alternava relazioni politiche pacifiche, cementate non di rado da matrimoni fra i membri delle élite al potere, scambi di doni, corrispondenza e visite di cortesia, a lotte per il dominio territoriale e il controllo delle estese rotte commerciali che, sulla base di recenti scoperte storiche si estendevano fino al lontano Afghanistan, principale fornitore di stagno dell’area e componente fondamentale del metallo che finì per identificare tutto questo lungo periodo storico, il bronzo.
Siamo, infatti, nella tarda età del bronzo, da lì a poco, comincerà l’era del ferro, che vedrà i natali non solo sulla base dell'applicazione di nuove tecniche metallurgiche ma anche su nuove forme di organizzazione e ordine sociale sorte sulle ceneri dell’ordine precedente.
Ma cosa mise in crisi tale vecchio sistema, collaudato da secoli? Chi o cosa distrusse i grandi palazzi micenei o dell’isola di Creta? Chi erano i misteriosi aggressori citati in una tavoletta d’argilla rinvenuta ad Ugarit e scritta poco prima che la città venisse distrutta? Perché gli abitanti abbandonarono Hattusa, capitale degli Ittiti e fino a pochi anni prima cuore pulsante di un potente impero che trattava alla pari con i potenti faraoni? Da dove venivano i misteriosi “Popoli del mare”? Cosa li mise in movimento? …
L’Autore, attraverso uno stile brioso e non privo di suspense, cerca di spiegare tutto ciò proponendo una trama persuasiva e costruita sulla sintesi delle scoperte archeologiche degli ultimi trent’anni. Espone una tesi basata su uno scenario tipo “Tempesta perfetta”, nel quale una serie di importanti cambiamenti e fattori naturali si sommano ad altri eventi casuali e a fattori sociali, politici e economici, amplificandosi gli uni con gli altri.
Insieme a una credibile ricostruzione della crisi di quella che potremmo definire come la prima società globalizzata della storia dell’uomo, l’Autore ci lascia anche un chiaro messaggio per leggere il presente; le società globalizzate sono vulnerabili, il collasso può avvenire rapidamente e un insieme di fattori di per sé non critici, se presi singolarmente, possono portare al collasso organizzazioni e strutture che ai nostri occhi appaiono solide e indistruttibili ma la cui resistenza è solo illusoria.
Forse, dunque, dovremmo sforzarci di più per scrutare i cieli in vista dei “Cigni Neri” di Nassim Taleb che, fatalmente, sempre arrivano.

giovedì 9 aprile 2015

Recensione: Non desiderare la terra d’altri. La colonizzazione italiana in Libia


“Non desiderare la terra d’altri. La colonizzazione italiana in Libia”, si Federico Cresti, edizioni Carocci, ISBN: 978-88-430-5703-0.
Il saggio racconta le vicissitudini della colonizzazione agricola della Libia, concentrandosi soprattutto sulla descrizione dell’attività che si sviluppò in Cirenaica grazie alle iniziative dell’ECC, l’Ente per la Colonizzazione della Cirenaica. L’Autore parte da prima della conquista della Libia da parte dell’Italia fornendo una descrizione del contesto fisico e politico dell’altopiano cirenaico, allora sottoposto formalmente al dominio turco, ma in realtà governato dalla confraternita senussita. Riguardo alle potenzialità agricole della regione, vengono fin dall’allora delineate alcune buone opportunità di adattamento delle zone migliori ad un tipo di agricoltura assimilabile a quello del meridione d’Italia e basata su un misto di colture cerealicole e arboree (soprattutto vite e ulivo). Emergono però fin da subito anche le ineludibili difficoltà di condurre in quei luoghi un piano di valorizzazione agricola che dipendono sia da fattori fisici e idrogeologici sia dal contesto socio culturale delle popolazioni che abitano quei territori. I problemi dell’approvvigionamento idrico, legati all’instabilità del livello pluviometrico e alla natura carsica del terreno (che favorisce il rapido drenaggio delle acque) furono già messi in luce già nel 1909 durante una spedizione finanziata dal Jewish Territorial Organization, con la finalità di valutare la possibilità di istallare laggiù un insediamento ebraico e. in quel contesto, le risorse del territorio furono ritenute non sufficienti per permettere tale tipo di esperimento, soprattutto perché l’operazione avrebbe richiesto ingenti investimenti finalizzati alla soluzione del problema della stabilizzazione delle risorse idriche.
Dopo l’invasione italiana, fu necessario attendere la fine della prima guerra mondiale per poter cominciare l’opera di valorizzazione della nuova colonia. A questo fine venne creato l’Ente per la colonizzazione della Cirenaica (ECC). Esso però, cominciò a produrre risultati concreti solo a partire dagli anni trenta del novecento, sia a causa di problemi oggettivi, a cominciare da quello dell’ordine pubblico (fu necessario una lunga e discutibile serie di campagne militari per avere ragione della resistenza locale), sia a causa dei problemi di sottocapitalizzazione dell’ente che non permettevano di affrontare immediatamente tutti quegli investimenti che sarebbero stati necessari. Fu comunque solo sul finire degli anni trenta e, pertanto, a ridosso dello scoppio della seconda guerra, mondiale che effettivamente fu possibile cominciare ad attivare in modo massiccio e relativamente efficiente il piano di colonizzazione agricola che ebbe la sua consacrazione pratica e mediatica, accuratamente pianificato dal regime fascista, prima attraverso l’insediamento dei cosiddetti “Ventimila” nel corso del millenovecento trentotto, ai quali seguirono gli “Undicimila” nell’anno successivo.
Difficile fare un bilancio di tali iniziative, che furono rapidamente vanificate dalla disfatta bellica e dalla conseguente perdita di sovranità da parte dell’Italia. Dall’opera di Cresti emerge un quadro che, a pare mio, sembra sancire un certo successo di tali programmi che, effettivamente, portarono ad una sensibile valorizzazione agricola del territorio. Tale opera avrebbe probabilmente portato a risultati ancora più significati se l’Italia non si fosse lasciata coinvolgere nella sciagurata avventura del secondo conflitto mondiale. Bisognerebbe poi tenere conto non solo dello sforzo economico e, se vogliamo, dei primi risultati a cui portò l’esperimento, ma anche del costo sociale che esso comportò. Bisogna infatti ricordare che la colonizzazione agricola, seppur impostata, tutto sommato, razionalmente si basava su una visione profondamente ideologica propugnata dal regime fascista e fu fatta a scapito delle popolazioni arabe che, di fatto, furono espropriata delle terre migliori e confinate nelle terre marginali adatte alla pastorizia e meno idonee a supportare un tipo di agricoltura intensiva.
In sintesi, il saggio di Federico Cresti risulta un’opera interessante, anche se, è bene sottolinearlo, un po’ specialistica e ci aiuta a comprendere bene sia il passato che il presente di quei territori. Soprattutto a noi italiani, “Non desiderare la terra d’altri” dovrebbe anche aiutarci a rammentare le conseguenze nefaste delle nostre interferenze e i costi sociali ed economici, mai chiaramente ammessi, causati dal nostro colonialismo.