lunedì 28 ottobre 2013

Recensione: E l’uomo creò gli dei – come spiegare la religione


“E l’uomo creò gli dei – come spiegare la religione”, titolo originale: “Et l’homme créa les dieux”, di Pascal Boyer, traduzione di Donatella Sutera Sardo, edizioni Odoya, ISBN: 978-88-6288-073-2.
Un saggio molto interessante che parte dalle esperienze sul campo svolte dall’Autore in ambito antropologico alle quali vengono aggiunti i risultati e i concetti elaborati dalla studio delle neuroscienze e dei diversi ambiti della psicologia e della sociologia.
In sintesi, sembra che le credenze religiose siano il risultato di processi mentali abbastanza specifici e peculiari della mente umana, la quale sembra predisposta per incasellare e sviluppare concetti differenti in base ad una serie di categorie “ontologiche”, cioè che si riferiscono all’essenza stessa delle cose (ad esempio i concetti di: animale, artefatto, oggetto inanimato di origine naturale, ecc.) alle quali viene applicata l’innata capacità umana di produrre “inferenze” , cioè processi logici attraverso i quali, a partire da una preposizione ritenuta corretta e vera se ne ricava una seconda la cui correttezza dipende dalla prima;  in sintesi, “deduzioni” rispetto alla veridicità o almeno plausibilità di certe osservazioni o fatti. Queste caratteristiche si combinano poi con delle ulteriori caratteristiche evolutive peculiari della mente umana, che derivano dalle opposte esigenze poste dalla nostra natura che, da una parte costringe gli individui ad aggregarsi e collaborare con altri soggetti e dall’altra, impone il proseguimento di obbiettivi e fini individuali. Tali esigenze ambivalenti hanno predisposto la mente umana verso un approccio empatico nei confronti degli altri uomini e hanno sviluppato le nostre capacità di produrre continuamente scenari e relazioni causa-effetto relative a situazioni reali o ipotetiche (e anche di pura fantasia) al fine di mettere in atto strategie di natura sociale combinandole con comportamenti in grado di promuovere i nostri fini individuali e competitivi.
I concetti religiosi sarebbero dunque il risultato di un processo evolutivo che nel corso del tempo ha provveduto a selezionare quelle credenze riguardo al sovrannaturale che, seppur spesso contro-intuitive,  risultano più funzionali ed accettabili per la soluzione di problemi di ordine pratico e psicologico gravanti sia le società umane sia gli individui.
Detto in questo modo, apparentemente, i concetti trattati nel corso dell’opera appaiono di non facile comprensione immediata, ma l’Autore riesce a guidare il lettore attraverso un percorso graduale dove, grazie a esempi pratici e spiegazioni scientifiche, essi divengono facilmente comprensibili.
 Alla fine, non si può neanche affermare che il libro di Boyer appaia come chiaramente anti-religioso, infatti, se vogliamo, l’Autore non entra nel merito delle questioni mistiche di maggior portata intellettuale (non c’è nessuna discussione riguardo al tema dell’esistenza di Dio), limitandosi invece a fornire un’affascinante panoramica del meraviglioso funzionamento della mente umana, dei suoi paradossi e del grado di ingegnosa sofisticazione del nostro processo cognitivo.

martedì 15 ottobre 2013

Recensione: Il Tamburo di Latta


“Il Tamburo di Latta”, titolo originale: “Die Blechtrommel”, di Günter Grass, traduzione di Lia Secci, edizioni La Biblioteca di Repubblica, ISBN: 84-96075-89-3.
Siamo nel 1951; dal manicomio in cui è rinchiuso a causa di un omicidio che, in realtà, non ha commesso, Oskar Matzerath, un uomo di trent’anni, dotato di grande intelligenza ma affetto da nanismo e deformato da una gobba, rievoca la propria storia e quella della sua famiglia risalendo nei ricordi grazie all’ausilio del ritmo del suo tamburo di latta.
La famiglia di Oskar è originaria del territorio di Danzica ed ha un’origine mista, come spesso avviene nelle zone di frontiera: comprendendo un ramo casciubico (un’antica etnia di origine slava stanziatasi nel cosiddetto “corridoio di Danzica” intorno al VI secolo d.C.) e parentele sia polacche sia tedesche. L’infanzia di Oskar, affetto da nanismo fin dall’età di tre anni, si svolge a Danzica nel periodo che va dagli anni venti del novecento fino alla fine della seconda guerra mondiale, quando la famiglia sarà costretta a sfollare in quella che diverrà la Repubblica Federale tedesca.
La vita di Oskar è costellata di fatti surreali; innanzi tutto, il suo nanismo è, almeno secondo quanto afferma egli stesso, in un certo senso autoimposto. Oskar, dall’età di tre anni si rifiuta di crescere in segno di protesta verso il mondo degli adulti. A partire dal suo terzo compleanno egli maturerà la decisione di non crescere più (questa, almeno, è la sua spiegazione!) e otterrà in dono il suo primo tamburo di latta, strumento che lo accompagnerà quasi costantemente fino alla fine del romanzo e che gli conferirà alcuni dei suoi “poteri” straordinari, quali quello di richiamare ricordi e sensazioni passate propri e altrui attraverso il ritmo del tamburo. Un altro suo potere speciale sarà costituito, invece, dalla sua capacità di incidere o infrangere il vetro a distanza attraverso l'uso della voce. Munito di questi super poteri, il protagonista vivrà e assisterà a molti “fatti storici”, o meglio, a molte assurdità, fasi convulse, violenze e ingiustizie conseguenti all’ascesa del nazismo e agli eventi bellici. Tali avvenimenti, finiranno per intrecciarsi inesorabilmente con le proprie vicende personali e famigliari, anch’esse piuttosto complicate, improbabili e notevolmente surreali.
Attraverso mille peripezie, Oskar riuscirà a raggiungere ricchezza e fama, ma sempre manterrà un punto di vista distaccato, critico, vagamente paranoico e cinico nei confronti del mondo che lo circonda.
Che dire di un libro così? Sicuramente l’opera di Günter Grass è scritta benissimo e, nonostante che la storia appaia da subito totalmente assurda ci si trova costretti ad andare avanti per capire come evolve la trama e come il tutto vada a finire. Personalmente, però, nel corso della lettura non sono riuscito a individuare tutti quegli aspetti salienti che hanno contribuito alla fama di quest’opera.
Nel corso del romanzo emerge chiaramente la critica verso il nazismo e nei confronti di quel “mondo degli adulti” che non ha saputo resistere a tale (in vero, rozza) fascinazione e che anzi, l’ha accolta prontamente e con favore.  Mi è sembrato poi, che l’Autore stigmatizzasse il nazionalismo di per sé, criticandone gli eccessi sia di parte tedesca sia polacca. Personalmente, devo però ammettere di non essere stato in grado di cogliere tutti gli altri aspetti allegorici del romanzo, a partire dal simbolismo legato dalle varie fasi di crescita fisica del protagonista, dallo sviluppo della sua gobba, continuando con i riferimenti al periodo del dopoguerra caratterizzato sia dal fenomeno culturale dell’“espiazione” collettiva delle colpe della seconda guerra mondiale e del nazismo, sia, all’opposto, della “rimozione” delle stesse da parte del popolo tedesco. Questi elementi li ho scoperti poi dopo grazie a una ricerca personale che ho compiuto e che è stata stimolata dalle sensazioni ambivalenti che mi ha suscitato la lettura dell’opera.
Detto in altre parole, anche dopo aver affinato maggiormente la conoscenza del romanzo attraverso una ricerca più approfondita dei significati profondi che ci ha voluto trasmettere Günter Grass, continuo a ritenere la storia ben scritta ma troppo assurda e criptica per essere veramente piacevole oltre che istruttiva. Questo almeno per quei lettori che, come il sottoscritto, tendono a essere espliciti, concreti e vagamente impermeabili nei confronti del simbolismo. Rimango, infatti, dell’opinione, magari errata, che un buon romanzo sia tale anche perché immediatamente accessibile e comprensibile alle menti semplici.

venerdì 11 ottobre 2013

Una riflessione sul problema dell'immigrazione


Le recenti vicende legate alla tragedia di Lampedusa dove hanno perso la vita centinaia di migranti e le esternazioni di Grillo e Casaleggio, che sfiduciano la posizione di alcuni senatori M5s che hanno promosso un emendamento favorevole all’abolizione del reato di clandestinità, hanno riportato all’onere delle cronache il complesso problema della regolamentazione dell’immigrazione, riproponendo l’eterno dilemma fra il diritto dei migranti alla libertà di movimento e alla ricerca di un futuro migliore e quello delle popolazioni ospitanti, spaventate e spesso infastidite dal continuo flusso di forestieri in entrata e dalle possibili conseguenze culturali ed economiche di questa lenta “invasione”.
Dove stia il corretto punto di equilibrio fra le esigenze di libertà e la “difesa” del proprio territorio è cosa difficilissima da determinare e molto dipende da come vengono ordinati i valori etici, morali e culturali dei singoli individui. Non è neppure secondario il ricevere delle informazioni corrette; ad esempio come le seguenti:
-         Quanta percentuale del flusso migratorio rimane stabilmente nei luoghi di prima accoglienza e quanta parte, invece, si sposta altrove?

-         Quanto l’immigrazione permanente incide positivamente attraverso il proprio contributo economico e culturale rispetto a quanto si dimostra apportatrice di maggiori costi e disagi?

-         Esistono dei criteri oggettivi per determinare l’eccesso di pressione sulle risorse di un territorio determinato dall’incremento della popolazione?
Soprattutto però è necessario rispondere ad interrogativi importanti cominciando da quello principale: “E’ giusto limitare l’accesso al proprio territorio e mercato del lavoro ad altri individui solo perché privi dello status di cittadini?” e, se si, per quali motivi, richiamandosi a quali principi e secondo quali modalità?
Le risposte a questa semplice serie di domande non sono né semplici né scontate perché, appunto, presuppongono la misurazione soggettiva e psicologica di quanto ognuno di noi sia disposto a spartire, o meglio, condividere, le reali o anche solo immaginate “ricchezze” di un certo territorio e modello sociale che consideriamo "nostro" e il cui equilibrio rischia di essere messo in crisi dal flusso migratorio, ma che da esso, a ben vedere, potrebbe anche ricevere beneficio.

martedì 1 ottobre 2013

Enrico Letta: Il mio punto di vista sulla sua opera di governo


Comunque vada a finire l’attuale fase di crisi di governo, ho certamente aumentato di molto la mia stima personale per il capo dell’attuale esecutivo, Enrico Letta. Devo dire, innanzitutto, che non avevo certamente vissuto positivamente la nascita del suo governo che vedevo, al più, come un male necessario per superare rapidamente il caos creatosi a seguito del disastro elettorale prodotto dalle ultime elezioni politiche. Il governo però è andato avanti, magari fra mille compromessi, fra i quali qualcuno indigesto (il pasticcio dell’IMU, per esempio) conquistandosi progressivamente una sua credibilità sia sul piano interno sia su quello internazionale e, nel frattempo, dovendo fronteggiare non poche oggettive difficoltà; così compresso fra le lotte fratricide del PD, la disarmante e incomprensibile irresponsabilità del M5S e l’impasse del PDL, incapace di concentrarsi su altro che non siano le vicende personali di Berlusconi. Secondo la mia percezione personale, Enrico Letta nel corso del tempo ha cominciato effettivamente a dispiegare quelle capacità di paziente mediatore, che, sicuramente sono state alla base della sua nomina, ma, durante la sua azione di governo, ha anche mostrato di saper essere determinato facendo quindi mostra di quel binomio di forza e moderazione che sta alla base del successo di molti veri leader e, in questo, contrapponendosi in maniera netta al facile populismo di personaggi come Grillo e Berlusconi.
Entriamo in una fase caotica, dove tutto può succedere: nuove elezioni, un “Letta bis”, una ventilata scissione del PDL (che io accoglierei con estremo favore!), un ricambio dei vertici del PD … In mezzo a tutto ciò, terrò d’occhio l’ex “grigio” Enrico Letta cercando, con il peso modesto del mio potere di elettore, di creare un’occasione per dargli nuovamente spazio.