lunedì 27 giugno 2022

Qualche considerazione sulla sentenza della Corte suprema USA che elimina il diritto d'aborto

La sentenza della Corte Suprema USA che elimina il diritto costituzionale all'aborto rovesciando la sentenza Roe vs Wade è, per molti versi, “devastante”.

Anche se, obiettivamente, si tratta di un ritorno al medioevo che lascia molti milioni di cittadini in balia di legislazioni statali particolarmente retrograde, non alludo qui all'aspetto morale in sé della questione che, ovviamente e soprattutto su questo tema, ammette posizioni molto diverse e anche molto rigide sull'argomento, ma alle modalità e, se vogliamo, alla sede in cui una decisione di tale portata è stata presa. Una cosa, infatti, è l’opinione del semplice “uomo della strada”, tutt'altra cosa, quella del supremo organo giurisprudenziale del Paese.

Il vero problema “istituzionale” quindi è che, compiendo tale scelta, la Suprema Corte si è sostanzialmente delegittimata agli occhi della Nazione perdendo il suo carattere di imparzialità. È chiaro, infatti, come la sentenza della Corte sia stata soprattutto politica (nonché programmatica) e ciò è grave se si tiene conto che il supremo organo giuridico dell’Unione non è elettivo e che i membri della Corte sono eletti a vita su stretta indicazione del Presidente degli Stati Uniti.

Che dire ... contenti loro! Diciamo che, per fortuna, questa volta non sono magagne di casa nostra e, dal nostro punto di vista di europei (almeno di quelli civilizzati) possiamo permetterci di guardare la cosa dall'alto in basso nel vedere la deriva di un organo di tutela di quello che dovrebbe essere il faro della democrazia, ormai scaduto ad arena ideologica, quasi fosse uno dei nostri peggiori Parlamenti.

Dall'altra parte, posto che sicuramente questa sentenza finirà per avere effetti anche presso le nostre sponde ringalluzzendo il morale degli elementi più retrogradi, sarà bene tenere la guardia alta.

Nel frattempo, per pure spirito polemico, potremmo suggerire agli americani di ritrasferire da noi la Statua della Libertà (:-)), in fondo, sembrerebbe che ormai faccia una migliore figura lì da dove è partita rispetto a dove è collocata adesso!

martedì 21 giugno 2022

Russia: gli effetti dell'"operazione militare speciale" e il futuro dei rapporti di Mosca con l'Occidente in un articolo di Fjodor Lukjanov

 Dopo tanta propaganda fra le parti, finalmente un articolo di fonte “russa” che vale la pena di leggere:

 https://www.repubblica.it/esteri/2022/06/17/news/lukjanov_mosca_puntera_su_cina_e_india_e_morta_lidea_di_uno_spazio_comune_con_lue-354395912/

Scritto da Fjodor Lukjanov, direttore della ricerca del Valdai Discussion Club, think tank vicino al Cremlino, nonché presidente del Consiglio per la politica estera e la difesa e direttore di Russia in Global Affairs; fornisce finalmente una spiegazione abbastanza equilibrata degli effetti della cosiddetta “operazione militare speciale” sulla base del punto di vista dell'"altra parte".

 In sintesi, secondo l’Autore, la mossa del Cremlino:

-    - Certifica la fine dei tentativi di Mosca di integrarsi con l'Occidente sulla base dei modelli culturali di quest’ultimo. La Russia ha quindi esaurito la fase, cominciata con la caduta del Muro, dove si prospettava la sua omologazione ai valori culturali ed economici promossi da Stati Uniti ed Europa. Per il futuro, si prevede un progressivo ri-allacciamento dei rapporti fra le parti ma su basi legate essenzialmente a ragioni di opportunità economica reciproca.

-     -  Rende necessaria una ricerca di maggiore integrazione con Cina e India soprattutto sul piano economico.

In questo contesto non è chiaro quali saranno i nuovi equilibri geopolitici che ne scaturiranno a medio termine.

Sempre secondo l’Autore, risulta difficile fare previsioni riguardo all'assetto geografico delle zone contese che si determinerà dopo un eventuale cessate il fuoco con l’Ucraina; egli pensa però che, difficilmente, i territori occupati dalla Russia possano poi essere restituiti all'Ucraina. 

Personalmente, ho trovato questa analisi “onesta” e realistica.

venerdì 10 giugno 2022

Recensione: Le Benevole

 "Le Benevole”; di Jonathan Littel; titolo originale: “Le Bienveillantes”; Traduzione di Margherita Botto; edizioni Einaudi; Isbn 978-88-06-18731-6.

Si tratta di un romanzo che vede come protagonista Maximilien Aue, nato in Alsazia (Francia) ma di padre tedesco che, proprio grazie al suo dualismo culturale e al suo bilinguismo dimostrerà di riuscire a muoversi con disinvoltura sia in Francia sia in Germania cogliendo le opportunità e le scappatoie che, nei momenti critici, gli offriranno entrambi i Paesi.

Maximilien all'inizio del romanzo si presenta; dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, sotto una falsa identità, si è trasferito nel nord della Francia dove dirige con successo una fabbrica di merletti, è sposato e conduce una tranquilla e agiata esistenza borghese; ormai è in età avanzata ed è intento a scrivere le proprie memorie dove descrive, senza alcun senso di colpa il suo ruolo nella Guerra e il suo passato giovanile di nazista, pesantemente immischiato nella macchina omicida della “Soluzione Finale”.

Maximilien durante la guerra ne ha letteralmente passate di “cotte e di crude”; si è unito alle SS e ha partecipato alla campagna del Caucaso entrando nelle famigerate Einsatzgruppen, i corpi speciali incaricati della ricerca e della eliminazione di ebrei, zingari e comunisti; poi ha combattuto a Stalingrado, uscendone ferito e decorato; infine ha ricevuto incarichi strettamente correlati alla verifica dell’efficienza dei campi di sterminio e del trasporto degli ebrei a partire dai Paesi occupati dall'esercito tedesco. In ragione di questa esperienza egli è entrato in contatto con moltissimi dei principali personaggi implicati con il nazismo (ad esempio, Speer) e con i gerarchi direttamente implicati nella soluzione finale (ad es. Himmler, Eichmann, Kaltenbrunner, Heydrich, Frank e tanti altri), fino ad incontrare lo stesso Hitler che finirà per “decorarlo” nuovamente (beh! Riguardo a questo punto non voglio rovinarvi la sorpresa!) in un momento appena precedente al suo suicidio e alla resa definitiva della Reich tedesco.

In virtù di questo suo ruolo da protagonista egli descrive come testimone diretto i fatti atroci della campagna orientale, dell’olocausto e della Soluzione Finale, ma non mostra alcun pentimento per il suo ruolo svolto. In questo suo atteggiamento, dove egli si vede fondamentalmente come un normale esponente del suo tempo, della sua cultura e della sua classe sociale, nonché diligente e fedele esecutore dei compiti assegnatigli, va un po’ a convergere con la difesa che farà Eichmann del suo operato nel processo che lo vedrà coinvolto in Israele nel dopoguerra dopo la cattura ad opera del Mossad.

Il pregio del romanzo è dunque proprio quello di mostrare chiaramente il potenziale lato oscuro di ogni essere umano, quello già evidenziato in fondo nella “banalità del male” di Hannah Arendt, ovvero quell'insieme di mancanza di scrupoli, cinismo, arrivismo, servilismo, tatticismo, perbenismo, conformismo, codardia e miopia che, ben più della pazzia, spiega, a posteriori, il coinvolgimento delle persone “normali” nei più efferati fatti storici e che può trasformare e far scivolare ognuno di noi in un obbediente carnefice o almeno, e più banalmente, in un patetico, consapevole e acritico “yes man”.

A questo proposito, tra l’altro e a mio parere, l’Autore compie un mezzo passo falso perché, alla fine, diciamolo, il personaggio di Maximilien finisce per risultare tutt'altro che “banale” e “normale” (almeno secondo i miei canoni!)  e, pertanto, il messaggio: “tutti possiamo trovarci nella situazione di comportarci in modo decisamente riprovevole” rischia di perdersi un po’ a causa di quella che definirei una certa hýbris dell’Autore (anche lui preda delle Erinni?). Egli alterna fasi del romanzo dove descrive in modo mirabile luoghi e fatti reali e/o del protagonista ricostruendoli in modo meraviglioso e storicamente ben documentato, a fasi oniriche e intemperanze di vario tipo, sempre del protagonista, che, dopo un po’, risultano un po’ eccessive e financo francamente noiose.

In altre parole, se l’Autore avesse tagliato qualche centinaio di pagine di deliri vari, questo romanzo non sarebbe stato solo molto bello e illuminante, ma persino e decisamente un capolavoro.  

sabato 4 giugno 2022

Recensione: Coffeeland – Storia di un impero che domina il mondo

 

"Coffeeland – Storia di un impero che domina il mondo”; di Augustine Sedwick; titolo originale: “Coffeeland – One Man’s Dark Empire and the Making of Our Favorite Drug”; Traduzione di Daria Cavallini; edizioni Einaudi; Isbn 978-88-06-24734-8.

Il Saggio è incentrato sulla figura e sulle fortune di James Hill, di origini inglesi, trasferitosi in El Salvador sul finire dell’Ottocento. Hill, istallatosi sulle pendici vulcaniche di Santa Ana, si voterà alla produzione del caffè diventando il capostipite di una delle più ricche dinastie di produttori e protagonisti della vita politica ed economica del Paese.

L’Autore mescola le vicissitudini economiche e politiche della famiglia Hill con la spesso sanguinosa storia del Paese e parallelamente descrive la crescente fortuna di questa famosa bevanda e dei cambiamenti sociali e culturali che essa ha indotto mano a mano che se ne diffondeva il consumo a livello planetario; il tutto, mettendo però anche in rilievo gli effetti fortemente negativi legati alle caratteristiche del mercato internazionale di questa “commodity”, dominato dal ruolo del grandi grossisti, della distribuzione e dei torrefattori, nonché caratterizzato da vertiginose oscillazioni di prezzo.

Impressionante anche l’effetto distorsivo operato da questa monocultura sulla società, sull'economia e sulla politica dei paesi produttori; la storia di El Salvador, delle sue forti diseguaglianze sociali, della sua violenta instabilità politica può essere quasi tutta spiegata dal ruolo del caffè e dalla necessità di piegare la più parte della popolazione alle logiche di sfruttamento della sua coltivazione intensiva.

Recensione: Catastrofi – Lezioni di Storia per l’Occidente

 

"Catastrofi – Lezioni di Storia per l’Occidente”; di Nial Ferguson; titolo originale: “Doom”; Traduzione di Aldo Piccato e Gabriella Tonoli; edizioni Mondadori; Isbn 978-88-04-74260-9.

Il saggio di Nial Ferguson si sofferma sull'analisi della natura dei “disastri”, siano essi incidenti dovuti a “errori umani”, scelte politiche o a eventi naturali, soffermandosi sugli effetti della loro “gestione”, o meglio, più spesso, della “mala gestione” degli stessi.

L’Autore, tra l’altro, parlando delle catastrofi di natura pandemica analizza il comportamento delle autorità (e delle persone) riguardo all'epidemia di Covid, in pieno svolgimento durante la scrittura del Saggio. Non solo cerca di venire a capo delle varie differenze che hanno caratterizzato le scelte dei principali governi ma effettua anche una comparazione con i comportamenti tenuti dalle autorità durante l’epidemia di febbre spagnola degli anni Venti e di influenza asiatica sul finire degli anni 50 del Novecento.

Alla fine, almeno a mio parere, per l’Autore, i grandi fallimenti lasciano un po’ tutti colpevoli; le autorità politiche, innanzitutto, cronicamente ignoranti rispetto alle lezioni della Storia e quindi, mai previdenti; ma anche i vari settori della burocrazia (non necessariamente “statale”), malati di supponenza, conservatorismo, conformismo e lassismo, non vengono risparmiati; fino ai singoli individui, quasi mai migliori di chi li rappresenta. In questa analisi, risulta interessante la riflessione che l’Autore fa sul ruolo delle “reti” come “agenti” capaci di limitare o amplificare gli effetti dei disastri.

E’ interessante una delle sintesi e dei messaggi dell’Autore, proprio una sorta di parziale giustificazione a favore di governanti inetti (o anche solo sfortunati!) che tende a mettere in luce come, difficilmente, i disastri siano “veramente” causati dall’operato di un singolo decisore (parafrasando Tolstoj, l’Autore allude a Napoleone per la sua disastrosa campagna di Russia), ma più spesso, le responsabilità siano “diffuse” e un po’, per dirla in sintesi, dipendano dal fatto che tutti (o almeno molti) membri di una “organizzazione” (sia essa uno Stato, un Ente o una Società privata) si “sforzino” di non vedere i problemi e, magari si attivino proprio per occultarli.

A sentire Nial Ferguson, in pratica, c’è quasi da pensare che in molti casi possa anche andare peggio!

Lettura interessante anche se, forse non il meglio di questo Autore arguto e prolifico che, comunque, incuriosisce sempre e non annoia mai.