giovedì 30 ottobre 2014

Recensione: '14


“’14”; titolo originale: ”14”; di Jean Echenoz, traduzione di Giorgio Pinotti, edizioni Adelphi, ISBN: 978-88-459-2926-7.
Il romanzo ha come protagonista il giovane Anthime, soggetto che definire “Insignificante” è dir poco! Egli, insieme al fratello Charles e ad alcuni compaesani: Padioleau, Bossis e Arcenel, altrettanto poco definiti se non per il loro sommario aspetto fisico e professione, sono mobilitati insieme fin nelle primissime fasi della Grande Guerra. Tre di essi perderanno la vita durante il conflitto, mentre il protagonista e Padioleau torneranno dal fronte resi ormai invalidi; il primo mutilato del braccio destro, il secondo accecato dai gas.
Tutto questo condensato in 110 pagine di “nulla” è descritto attraverso uno stile piatto che a me è apparso totalmente surreale. Forse l’Autore si poneva proprio l’obiettivo di descrivere in soggettiva lo stupore quasi catatonico che il protagonista prova nell’essere coinvolto in un evento apocalittico come fu la Prima Guerra Mondiale: l’euforia dei primi giorni al pensiero di partecipare alla “Storia” come in una specie di gita scolastica, l’impatto destabilizzante con l’orrore della guerra di trincea, l’assurda, caotica confusione della battaglia, l’assuefazione al truce, al grottesco, al fango e alla morte …
Tutto forse troppo sofisticato per il sottoscritto!

giovedì 23 ottobre 2014

Recensione: Strumenti per Pensare


“Strumenti per Pensare”; titolo originale ”Intuition Pumps and Other Tools for Thinking”; di Daniel C. Dennet, traduzione di Simonetta Frediani, edizioni Raffaello Cortina, ISBN: 978-88-6030-654-8.
L’Autore, un filosofo che, attualmente, dirige il Center of Cognitive Studies presso la Tufts University (Medford – USA) dimostra chiaramente di possedere un’affilatissima e allenata capacità logica e metodologica per “indagare”, termine inteso nella sua più ampia accezione.
In questo bel saggio, egli affronta il tema del “pensare” in termini sia generali sia pratici, mescolando l’illustrazione di metodi d’indagine utilizzabili alla stregua di una “cassetta per gli attrezzi” a disposizione dei pensatori, a soggetti più generali più strettamente scientifici o maggiormente orientati verso un approccio filosofico (o persino teologico) e riguardanti il funzionamento del cervello, l’origine della mente e della coscienza, il tema del libero arbitrio e l’evoluzionismo.
Il risultato è un’opera notevole che illustra alcune “regole” di base, ad esempio, quella di “Rapoport”, o la “Legge di Sturgeon” (tanto ironica quanto “vera”) o, ancora il cosiddetto “Rasoio di Occam” (corredato dalla sua “Scopa” rilevata in tempi più recenti!). A queste, l’Autore aggiunge quelle che definisce come “Pompe d’intuizione”, in sintesi, una raccolta di storie, scenari e riduzioni “ad absurdum” che si rivelano utili per svelare i percorsi e/o le debolezze logiche che sottendono certi tipi di ragionamento e, alle quali si contrappongono le insidiosissime “stampelle esplosive”, “attrezzi” del pensiero e strumenti fuorvianti; di fatto, delle pompe d’intuizione mal calibrate e mal progettate che tendono a portarci fuori strada.
Scendendo nei particolari, ammetto di essere rimasto incantato da certi ragionamenti collegati al tema dell’evoluzione umana e, in particolare, legati al funzionamento del cervello e della mente e che, chiaramente, si ricollegano all’attuale corrente del “Riduzionismo” (In sintesi la teoria che riconduce mente e coscienza al funzionamento dell’”apparato” cerebrale). In particolare, ho trovato molto efficace e interessante una parte del testo che ricorda al lettore il funzionamento “computazionale” della macchina di Turing (il computer!) e della più misteriosa “Macchina a Registri” e alcune pompe d’intuizione collegate a questi temi.
Ammetto anche, però, di essermi perso in tante parti di questo saggio! Sì, perché se proprio si vuole trovare un grosso difetto in quest’opera di Dennet, questo risiede nella difficoltà che trova un lettore “normale” a mantenere la concentrazione e il filo del discorso. Molto diversamente da una lettura “da ombrellone”, infatti, questo libro richiede attenzione!

martedì 21 ottobre 2014

Recensione: Mentre il Mondo Stava a Guardare


“Mentre il Mondo Stava a Guardare”, di Silvana Arbia, edizioni Mondadori, ISBN: 978-88-04-61296-4.
L’Autore di questo libro è una giurista italiana che, ricopre dal 2008 l'incarico di cancelliere della Corte Penale Internazionale (fonte wikipedia).
I fatti narrati in questo saggio riguardano però la sua esperienza presso il Tribunale Penale Internazionale per il Ruanda, iniziata nel 1999 dove, (fonte Wikipedia) prima  in funzione di, Senior Trial Attorney, poi Acting Chief of Prosecutions e, infine Chief of Prosecutions, ha guidato l'accusa in numerosi casi trattati dal tribunale tra cui:
Muvunyi Case (fonte Wikipedia): preparazione del processo contro Tharcisse Muvunyi, comandante militare dichiarato colpevole d’istigazione diretta e pubblica al genocidio.
Butare Case (fonte Wikipedia): persecuzione di sei accusati di genocidio e crimini contro l'umanità, inclusa il Ministro della Famiglia e della Promozione Femminile Pauline Nyiramasuhuko, condannata successivamente all'ergastolo dopo essere stata ritenuta colpevole di cospirazione a commettere genocidio e genocidio, nonché di crimini contro l'umanità (nella fattispecie, sterminio, stupro commesso da altri sotto la sua autorità e persecuzione) e crimini di guerra.
Seromba Case (fonte Wikipedia): Athanase Seromba, sacerdote cattolico, responsabile della parrocchia di Nyange nella prefettura di Kibuye durante i giorni del genocidio, fu condannato all'ergastolo nel 2008; è stato accertato che tra il 12 ed il 16 aprile del 1994 aveva aiutato ed incoraggiato uccisioni di massa e gravi attentati all'integrità fisica e morale dei tutsi che si erano rifugiati nella sua chiesa, rendendosi colpevole di genocidio e sterminio quale crimine contro l'umanità.
L’Autore si trova quindi nel ruolo e nel posto giusto per raccontare in prima persona i fatti del genocidio ruandese avvenuto nel 1994, che contrappose l’etnia maggioritaria degli Hutu a quella minoritaria dei Tutsi e che, durante un periodo di circa cento giorni, costò la vita a un numero di esseri umani stimato fra i 500.000 e 1.000.000 (su una popolazione totale di circa 6.000.000 di abitanti!).
Il libro riporta la storia personale dell’Autore e descrive le molte difficoltà di ordine pratico, logistico, fisico e psicologico che si sono dovute superare per assicurare almeno parte dei responsabili alla giustizia. Se quindi, da un punto di vista umano quest’opera fornisce elementi e spunti di riflessione validi e importanti, su un piano più scientifico esso finisce per risultare deludente, infatti, l’Autore evita quasi del tutto di sviluppare e ricostruire la dinamica degli eventi e le cause storiche, sociali ed etniche del conflitto. Infine, anche la situazione politica risulta appena abbozzato, mentre neanche sono citati alcuni aspetti molto criticati del tardivo intervento esterno, in particolare il bilancio assai ambiguo in termini di risultati dell’operazione “Turquoise”, portata a termine da un contingente francese sotto mandato ONU. Anche le conseguenze a breve termine del conflitto ruandese non vengono prese in considerazione. Ricordo a questo proposito che la crisi del Ruanda sarà una delle cause destabilizzanti che porteranno allo scoppio della cosiddetta “Prima guerra del Congo” (1996-1997), la quale a sua volta condurrà alla “Seconda” (ufficialmente cessata nel 2003); il bilancio in termini di vittime di entrambi i conflitti è dell’ordine di milioni di vittime fra la popolazione civile e, ancora adesso l’intera area del bacino del Congo è caratterizzato da una forte instabilità politica.   

mercoledì 8 ottobre 2014

Lotta alla disoccupazione e nuovi contratti di lavoro: Una bella proposta da parte della fondazione David Hume


Oggi sul quotidiano La Stampa è uscito un articolo del giornalista Luca Ricolfi che sintetizza uno studio della fondazione David Hume. Riporto qui di seguito il link alla pagina internet: http://www.lastampa.it/2014/10/08/economia/lavoro-la-proposta-della-fondazione-hume-con-il-jobitalia-mila-posti-in-pi-OfZGnvDbS7uu9koE7Wj3yH/pagina.html
In sintesi, l’articolo espone i risultati di una proposta già fatta in primavera attraverso le pagine del medesimo quotidiano e che si pone l’obiettivo di incoraggiare l’assunzione di lavoratori presso quelle aziende che già sarebbero intenzionate ad aumentare gli organici (pare che ne esistano ancora!). Secondo i ricercatori, una strada promettente per ottenere risultati efficaci sarebbe quella di creare una nuova tipologia contrattuale che, per un certo numero di anni (quattro) permetterebbe alle aziende di ridurre notevolmente il costo del lavoro attraverso una drastica riduzione dei contributi a carico del datore di lavoro e incidendo, pertanto, sul cosiddetto “cuneo fiscale”.  Un aspetto interessante di tutto lo studio riguarda anche un’analisi dei possibili effetti reali di tale riforma sui conti pubblici; in questo caso, l’elemento sorprendente che sembra emergere chiaramente dai risultati dei sondaggi effettuati è che, non solo tale riforma rischierebbe di non avere impatti significativamente negativi su tali conti ma, al contrario, il risultato netto potrebbe essere di segno opposto, il che permetterebbe di raggiungere un duplice risultato: ridurre la disoccupazione (a fronte di posti di lavoro “utili” e “reali”) e, incredibile ma vero! Produrre un effetto positivo sul fronte delle entrate tributarie. Questo secondo risultato che, se non spiegato, apparirebbe sospetto o quantomeno miracoloso, scaturirebbe dal confronto fra le minori entrate dovute alla riduzione degli oneri di contribuzione a carico del datore di lavoro e i maggiori incassi dell’erario a fronte dell’aumento dei redditi da lavoro, IVA, ecc.

Non nascondo che sono molto contento dei risultati di questo studio che mi trova completamente d’accordo riguardo alle modalità attraverso le quali cominciare ad affrontare il problema della disoccupazione e della ripresa.

lunedì 6 ottobre 2014

Riforma del TFR, parliamone un po'!

Come altri aspetti legati alla riforma del lavoro in corso di definizione in Italia, anche la discussione che si sta svolgendo riguardo alla possibilità di incassare anzitempo il TFR mi lascia perplesso. Effettivamente, visti i tempi che corrono, non è facile immaginare cosa sarebbe meglio augurarsi!

Il TFR è sempre stato una forma di risparmio forzoso abbastanza apprezzata dai lavoratori; all’origine, poteva essere incassato nel momento in cui si cambiava lavoro o in presenza di alcuni eventi particolari ben specifici (es. acquisto della prima casa, gravi malattie, ecc.) ma la sua ragione principale era quella di costituire un piccolo (o grande) “gruzzoletto” in forma di capitale che poi il neopensionato, che si supponeva ancora essere abbastanza giovane (allora si andava in pensione mediamente prima dei sessant’anni!), poteva impiegare per il suo “buen retiro”, magari per comprarsi la casetta al mare o in campagna o per aiutare i figli, a loro volta, a mettere su casa. Nel corso del tempo lo strumento è stato rimaneggiato, ma è rimasto tale nella sostanza, nel frattempo, però è cambiato radicalmente il contesto. In primo luogo non si va più in pensione “giovani” (al limite si prospetta per molti in futuro un periodo più o meno lungo da “esodati”) e, di conseguenza, calano le prospettive per una “seconda giovinezza” passata a zappare l’orto in campagna o a fare passeggiate sul lungo mare in riviera. Ben peggio, da qualche tempo intorno al TFR svolazzano avvoltoi e corvacci neri che pensano di attingere al gruzzoletto per risolvere i loro problemi contingenti; ad esempio, non è passato molto tempo da quando s’ipotizzava di trasformare la liquidazione in una rendita periodica per rimpinguare quello che si prospettava essere un assegno pensionistico assai “magro” eliminando di conseguenza la corresponsione del capitale che, invece, è sempre stata la vera caratteristica positiva del TFR.
Vediamo quindi, in maniera disincantata quali potrebbero essere le ragioni pro o contro l’incasso immediato:

In Italia, il primo pensiero va sempre e subito alla “fiducia” (o meglio “sfiducia” nel nostro caso!) nelle istituzioni e, soprattutto negli ultimi tempi, questo criterio di giudizio ha assunto un cruciale ruolo di guida decisionale quasi di natura darwinista. In conformità a questo principio, in termini di strategia, “Incassare” sarebbe sempre meglio di “attendere” qualunque sia lo scenario e il contesto. Ad esempio, se anche per caso ci si trova nella fortunata situazione di chi non ha bisogno immediato di contanti, sarebbe comunque auspicabile incassare la mensilità aggiuntiva garantita dal TFR (peccato per le tasse in sovrappiù!) e reinvestirla seduta stante acquistando, per esempio, una polizza assicurativa completamente sotto il personale controllo del contraente. Sarebbe una tattica che comporta dei costi aggiuntivi (più tasse, più commissioni, ecc.) ma garantirebbe almeno i seguenti risultati: la sottrazione di questa forma di risparmio al rischio di “pensate” future da parte della nostra classe politica, l’assunzione del controllo diretto di questa forma di risparmio con la prospettiva di poterne usufruire con maggiore elasticità. Se poi il reinvestimento assumesse comunque la forma di un impegno fisso, continuerebbe anche a funzionare come forma di accantonamento forzoso anche se, dall’altra parte, verrebbe meno l’attuale garanzia di rendimento che, normalmente caratterizza questa forma di accantonamento.
Specularmente, l’opportunità di un incasso immediato sembra anche andare incontro maggiormente al punto di vista di chi, purtroppo, avrebbe bisogno di quei soldi nell’immediato per vivere (un po’) meglio. E’ chiaro, infatti, che in momenti d’incertezza spesso si sceglie “l’uovo oggi …”, inutile, infatti, preoccuparsi molto della vecchiaia se i problemi stanno già condizionandoti pesantemente il presente. In questi casi, la logica del “tirare a campare” rimane, in fondo, l’unica perseguibile.

Vi sono però anche delle considerazioni che vanno contro questo tentativo di riforma. A me sembra che queste ragioni siano meno pratiche e più di principio rispetto a quelle evidenziate qui sopra:
Il TFR, proprio per le sue caratteristiche e vincoli normativi, aveva un che di paternalistico, in altre parole costringeva tutti, volenti o nolenti a essere almeno in parte avveduti e virtuosi. Il paternalismo, ormai non è più di moda, anzi, sembra quasi un insulto nei confronti dei cittadini che si suppongono sempre avveduti e lungimiranti. Personalmente nutro qualche dubbio su questo dogma che stabilisce la conclamata e naturale saggezza del cittadino medio (soprattutto quando si parla di questioni potenzialmente difficili da capire come quelle finanziarie!), ma pazienza!

Intravvedo, invece, un aspetto più insidioso legato alle logiche retributive; adesso il TFR è accantonato, nel momento in cui, invece, ci sarà la facoltà di erogarlo, esso apparirà come una forma di aumento di stipendio senza essere tale nella sostanza. Ora, in prospettiva, questo mette in difficoltà le imprese che dovranno trovare nuova liquidità (ma sulla soluzione di questo problema sta lavorando il governo) ma a tendere, sfavorirà il lavoratore che di fronte alla richiesta di aumenti “veri” si vedrà presentare come prima scelta il ricorso al prelievo dal TFR (del tipo: “Se hai bisogno di soldi, prendili di lì!”). In pratica, questa riforma, rischia di essere un altro fattore di abbassamento del costo del lavoro fatto a spese delle future entrate (posto che si materializzino) del lavoratore che, detto in altre parole, si pagherebbe da sé parte dello stipendio corrente attingendo al tesoretto.
Vi sono, infine, alcuni argomenti che, probabilmente poco sposterebbero dall’essenza del dibattito ma, che a mio avviso, sono usati in maniera strumentale, o peggio, illusoria, per veicolare la riforma. Ad esempio, s’immagina che il denaro in più messo a disposizione dei lavoratori produca non meglio identificati effetti positivi sui consumi. Qualcosa si otterrebbe certamente, ma riguardo all’effetto globale io sono scettico, infatti: in primo luogo, in assenza d’interventi concreti, parte dell’effetto si tradurrebbe semplicemente in nuove tasse (l’imposizione sui redditi sono mediamente superiori a quelle che gravano il TFR a scadenza), dubito poi, che chi abbia la possibilità di accantonarlo, si precipiti invece a spenderlo! Come spiegavo prima, infatti, quelli che ne hanno la possibilità, lo investirebbero probabilmente in qualche altra forma di risparmio. Non ci sarebbe, invece, nessun impatto serio per i precari che, mediamente, già lo incassano e, per i quali, in ogni caso, si tratta d’importi non significativi.

Detto in altre parole, l’incremento dei consumi verrebbe da chi ha proprio necessità di incrementare le spese, ma a questo punto, non sono più tanto sicuro che questa sia la forma ideale per garantire loro un reddito più decente nell’immediato, soprattutto, tenendo conto, tra l’altro, che c’è una buona possibilità che le medesime categorie vadano aiutate e tutelate anche successivamente. Pertanto, a me sembra doppiamente ingiusto che esse “brucino” anche ciò che sono state costrette per legge ad accantonare per il futuro.
Alla fine, almeno al sottoscritto, il problema del TFR appare, tutto sommato, “piccolo” e non penso che esso cambierà la situazione comunque lo si tratti (la cosa potrebbe cambiare se, invece, lo Stato decidesse di “sequestrarlo” in qualche forma!). Sullo sfondo rimane, invece, sempre da affrontare il problema “vero” che affligge l’Italia e non solo lei. Manca il lavoro perché, progressivamente vengono meno la base produttiva e la convenienza a mantenerla nel paese, se ci fosse il lavoro, ci sarebbero anche i consumi! Non è invece detto il viceversa, perché bisogna ancora vedere, anche nell’ipotesi che si riuscisse a far emergere una maggiore capacità di spesa, se questa andrebbe a favorire il prodotto interno del paese oppure se, alla lunga non si trasformerebbe per lo più in disavanzo commerciale. Pertanto, la questione se “E’ nato prima l’uovo o la gallina” dove s’invoca lavoro per creare domanda interna, oppure al contrario, si punta sugli incrementi dei consumi per stimolare il mercato del lavoro, appare semplicemente quello che è, un bel circolo vizioso! … Ma anche un facile mantra per i creduloni che sperano di risolvere facilmente dei problemi che semplici non sono. Per altro, se il problema è dare più soldi a chi, in un modo o nell’altro, il lavoro l’ha già (che non è niente di più di quello che si pone come obiettivo la riforma del TFR), sarebbe meglio puntare su un taglio degli sprechi compensato da una politica di sostegno per i redditi bassi o, in maniera presumibilmente meno efficace, procedere a un taglio generalizzato delle imposte sul reddito (sempre da finanziarsi con recuperi di efficienza!).

 Rimane quindi il problema di sempre, è più facile cercare di estrarre i soldi dove ci sono (i redditi e i patrimoni dei cittadini) che affrontare il problema delle inefficienze “vere” che affliggono il paese. A questo proposito, ricordo che circa due anni fa uscì sul quotidiano La Stampa un’interessante serie di articoli corredati da una sintesi finale: “H 312 L’handicap dell’impresa Italia” a firma di Luca Ricolfi (si veda anche mio blog: https://www.blogger.com/blogger.g?blogID=3245748741540988419#editor/target=post;postID=7910961950821196345;onPublishedMenu=posts;onClosedMenu=posts;postNum=5;src=link).
In quello studio, non era il costo del lavoro (se non per l’aspetto del cosiddetto “cuneo fiscale”) il principale indiziato per spiegare la nostra scarsa competitività, ma ben altri fattori che ci distinguevano nettamente anche dagli altri partner europei. E’ su quelli e non sui palliativi che, con impegno e senza false demagogie bisognerebbe lavorare.

domenica 5 ottobre 2014

Recensione: L’io come cervello

“L’io come cervello”, titolo originale: “Touching a Nerve. The Self as a Brain”, di Patricia S. Churchland, traduzione di Gianbruno Guerrerio, edizioni Raffaello Cortina, ISBN: 978-88-6030-672-2.

Bellissima opera che mescola sapientemente temi etici e filosofici a una descrizione delle moderne scoperte nell’ambito delle neuroscienze. L’Autore si colloca in una corrente scientifica e filosofica che, in contrapposizione al cosiddetto “dualismo”, nega la separazione fra l’anima/mente da una parte e la materialità del cervello dall’altra, per sostenere, al contrario, che pensiero, mente e coscienza sono il risultato esclusivo dei nostri processi neurali. In altre parole, secondo questa corrente di pensiero, la nostra vita mentale non sarebbe altro che il sofisticato risultato dell’attività cerebrale ed essa cesserebbe con la morte del cervello. Niente trasmigrazione di anime quindi, e nessun platonico mondo delle idee perduto e al quale tornare! Questo, almeno è il risultato al quale giunge l’Autore.
Si tratta di un approccio troppo pessimistico alla vita e alla sua sensatezza, caratterizzato da una fredda visione scientifica, o peggio ancora, da un certo nichilismo? Non direi proprio! Al di là che questo saggio, nonostante le premesse dell’Autore, mi sia sembrato più incentrato su una minuziosa e interessantissima descrizione del funzionamento del cervello in funzione dello stato delle nostre attuali conoscenze fisiologiche, rispetto a quanto, invece, possa apparire un trattato di filosofia; ogni pagina di quest’opera sembra stillare amore per la scienza ed entusiasmo e le conclusioni non appaiono per niente pessimistiche, semmai costituiscono uno sprone a lottare per migliorare le nostre conoscenze e la qualità della nostra vita e un invito per liberarci dalle trame di comode ma inconsistenti e, spesso fuorvianti illusioni.

Recensione: The American Civil War


“The American Civil War”, di John Keegan,  edizioni Hutchinson, ISBN: 978-0-09-179483-5.
It is a good essay on the American Civil War (1861-1865), the conflict which opposed the Confederate States of the South of the United States to those Unionists in the North. The main reason for the origin of the conflict must be sought in the bitter debate that tore the nation on the issue of the legitimacy of slavery, an institution deeply rooted in the culture and  social organization  of the South and at the base of the South’s economy, but, on the other way, in full contrast with the beliefs of a democratic and egalitarian society.
The author clearly explains the nature of these economical and social reasons and describes, first the slow maturation of the ideological quarrel and its final acceleration due to the victory of Abraham Lincoln in the presidential election of November 1860. The election was obtained on the basis of a strongly abolitionist political platform; even more, the votes were largely polarized. The preferences of vote in Lincon's favor were largely a contribution of the northern and western states, but on the other hand the South voted broadly in favor of the other candidates, in particular, for John C. Breckinridge.
According to the author the rapid succession of events found both sides unprepared. Between December 1860 and February 1861, South Carolina, Florida, Mississippi, Alabama, Georgia, Louisiana and Texas adopted a new constitution, declared independence and joined in a confederation to which soon adhered Virginia, Arkansas, Tennessee and North Carolina in April 1861 after the fall of Fort Sumter, which marked the real beginning of the war.
Then, the author goes on to describe the ways (somewhat baroque, from a current point of view!) through which the two armies were established and armed. The initial method was based mostly on volunteers enlisted in regiments of the territorial militia. Only with the progress of the war a method based on conscription was established to ensure the growing demand for recruits.
A large part of the essay is then devoted to the explanation of the strategic and logistical issues related to the geographic environment of the war, and to the description of the various military campaigns. The understanding of some of the main battles is aided by extensive descriptions and, in certain cases, by a series of useful maps.
A not insignificant part of the essay is then devoted to certain interesting subtopics, for example: a brief explanation of the naval warfare, a description of the soldier's day life, an explanation of the reasons justifying the large rate of desertions (that affected both armies), the growing importance of logistic and of an organized service of medical assistance and, finally a brief description of the military impact of the first military units based on the enlistment of black soldiers.
An interesting book, serious and in reach of every reader.