giovedì 28 ottobre 2010

Recensione: Il medio oriente cristiano

"Il Medio Oriente cristiano", di Antonio Picasso, edizioni Cooper, ISBN 978-88-7394-166-8. Il libro parla della situazione in cui attualmente versa la cristianità negli stessi luoghi che ne hanno visto i natali. In Medio Oriente, da sempre il cristianesimo è diviso in innumerevoli chiese e sette cristallizzate intorno ai loro particolari distinguo dottrinali, ma mai come adesso i fedeli cristiani sono stati percentualmente così pochi rispetto alla popolazione locale, e il trend prevede per giunta un ulteriore calo. L’autore, attraverso un’attenta analisi svolta nei principali Paesi della regione: Israele, ANP, Striscia di Gaza, Libano, Giordania, Siria, Iraq ed Egitto, cerca di spiegare la situazione e il perché di questo regresso. Le cause principali sembrano soprattutto dovute alla eccessiva frammentazione e litigiosità delle varie Chiese, quasi sempre incapaci di gestire collegialmente e pacificamente gli spazi comuni nonché di affrontare insieme i problemi politici; alla diaspora costante verso Occidente, non solo causata dal clima di discriminazione ed instabilità politica e sociale che caratterizza i Paesi dell’area, ma anche paradossalmente favorita dal maggior tasso medio di scolarizzazione dei giovani di famiglia cristiana rispetto alla media. Vi sono poi da includere altri fattori sociali, quali ad esempio la differenza relativa del tasso di natalità fra cristiani e musulmani, la crescita della secolarizzazione e il progressivo disgregamento delle comunità cristiane dovute al fenomeno dei matrimoni misti. Vanno infine ricordati i non pochi errori politici e le ingerenze delle elite politiche e religiose (questo soprattutto nel caso del Libano) locali ed occidentali. In sintesi, in Medio Oriente, il cristianesimo sembra oggi avviato sul viale del tramonto, uno strano destino per una fede di duraturo successo, che però rischia l’estinzione proprio in quei luoghi dove ne è iniziata la predicazione.

lunedì 18 ottobre 2010

Recensiene: Palazzo Yacoubian

“Palazzo Yacoubian”, di ‘Ala Al-Aswani, edizioni Feltrinelli. La storia è incentrata sulle vicende di una serie di personaggi che vivono e lavorano in uno storico e lussuoso palazzo del Cairo costruito negli anni 30 e forse un po’ decaduto. L’autore, raccontando delle esperienze dei soggetti facenti parte di questo microcosmo e delle loro esistenze che spesso si intrecciano, cerca di portare alla luce alcune caratteristiche della società egiziana e delle sue intime contraddizioni. L’Egitto è quindi trattato dal punto di vista storico e sociale, attraverso il vissuto dei protagonisti del romanzo. Emerge il quadro di una società perennemente sospesa fra modernità e tradizione, retta da una democrazia di facciata, ma in sostanza dominata da una dittatura puntellata da lobbies politiche e religiose potenti e corrotte che tutto possono e che impediscono lo sviluppo sociale e il realizzarsi di ogni reale aspirazione e miglioramento dei singoli anche se meritevoli, i quali, finiscono magari per convogliare le proprie frustrazioni nell’estremismo politico e religioso. Attraverso i temi dell’omosessualità e della condizione femminile, sono svelate le contraddizioni fra moralità di facciata e vizi e inclinazioni private ed emergono i tipici temi di conflitto fra le aspirazioni individuali e il conformismo tipico delle società tradizionaliste e patriarcali. Il romanzo è gradevole e scorrevole, ma la conclusione lascia un po’ sorpresi, la mia impressione è che in un certo senso le vite di alcuni dei personaggi rimangano come sospese e che il lavoro dell’autore risulti parzialmente incompiuto.

mercoledì 13 ottobre 2010

Missione in Afghanistan fra impegno e disimpegno

L’Afghanistan continua a fare vittime nel contingente italiano e nel frattempo la situazione sembra ben lungi dallo stabilizzarsi; sarebbe quindi doveroso ripensare seriamente al ruolo e agli obiettivi del nostro corpo di spedizione. Nel farlo però sarebbe anche necessario rivedere un po’ tutto il processo che ha portato alla degenerazione della situazione afghana. Penso che si possa sostenere che tutto sia iniziato con l’invasione sovietica nell’ormai lontano 1979; in risposta a questa mossa dell’allora URSS l’amministrazione americana infine decise un massiccio piano di aiuti militari ai ribelli avvalendosi della collaborazione dei servizi segreti pakistani, appoggiandosi pertanto ad un Paese lungamente governato da un succedersi di dittature militari fortemente orientate anch’esse al fondamentalismo islamico, impegnate in un vasto programma di destabilizzazione dell’area e costantemente coinvolte in un cruento confronto con la vicina India finalizzato al controllo del Kashmir. L’influenza dell’ISI (i servizi segreti pakistani), il ricorso ai finanziamenti Sauditi che implicavano però come contropartita una crescente penetrazione delle dottrine fondamentaliste orientate al Wahabismo e l’acquiescenza e gli errori di valutazione della CIA, permisero il radicamento dell’estremismo di matrice religiosa in un area dove tutto sommato questo fenomeno era storicamente non molto rilevante. Tutto ciò, non solo presso i ribelli e la popolazione afghana, ma in tutta l’area circostante e proprio nel momento in cui, anche nel vicino Iran veniva ad insediarsi la repubblica islamica. Dopo il ritiro sovietico, avvenuto nel 1989 e una breve resistenza del regime filocomunista del presidente Najibullah, l’Afghanistan rimase sotto il controllo della cosiddetta Alleanza del nord, che raccoglieva sotto un’unica etichetta, un gruppo eterogeneo di organizzazioni guidate da una serie di capi partigiani e signori della guerra di etnie, moralità e ideologie diverse ma in genere accomunati dalla propensione alla ricerca del potere e dell’arricchimento personale. Dopo l’esito positivo della guerra, l’amministrazione americana si è defilata rapidamente tagliando drasticamente i finanziamenti che invece avrebbero dovuto essere dirottati allo scopo di ricostruire il Paese ormai completamente devastato; nel frattempo le tensioni fra i signori della guerra vincitori esplodeva in guerra civile e dal caos risultante emerse il movimento talebano, sempre supportato dall’ingerenza straniera di Pakistan ed Arabia Saudita, ma anche originato dalla genuina disperazione della popolazione di fronte alla prospettiva degli scontri senza fine fra i vari signori della guerra. Gli studenti coranici (per altro figli essi stessi dell’Afghanistan!), almeno in primo tempo, furono accettati se non proprio con simpatia almeno con un certo sollievo poiché portatori di un qualche tipo di ordine. Essi si ponevano a salvaguardia della morale islamica e delle tradizioni e agivano per lo più in rappresentaza dell’etnia Pashtun, storicamente dominante ma sottorappresentata all’interno delle forze dell’Alleanza del nord e per altro, profondamente legata alle aree tribali presenti anche in territorio pakistano. Il Paese, nell’indifferenza dell’occidente, ha continuato la sua progressiva deriva fondamentalista accentuando la sua caratteristica di stato fallito o “canaglia” accogliendo le basi di addestramento del terrorismo islamico in funzione anti occidentale e anti indiana e portando al collasso la già provata economia sempre più isolata e comunque orientata verso i traffici illeciti come il contrabbando o la produzione l’esportazione di oppio e di eroina. Dopo l’episodio delle torri gemelle, il regime talebano viene rovesciato ma la vittoria è di nuovo incompleta infatti, da una parte il ruolo doppiogiochista del Pakistan impedisce di sferrare il colpo mortale sia contro il movimento talebano che contro Al-Qaida perché i ribelli trovano riparo ed appoggio in territorio pakistano, dall’altra parte l’impegno militare viene diluito a seguito del discutibile intervento in Iraq contro Saddam Hussein. Il destino dell’Afghanistan è messo nelle mani del presidente Karzai, attualmente in carica, il cui regime “democratico” viene attualmente puntellato dal contingente NATO. Fino ad adesso non sembra che il presidente Karzai sia riuscito a raggiungere i risultati auspicati e anzi, in più di un episodio anch’esso si è invischiato con una politica tollerante verso la corruzione e orientata verso il familismo (si veda ad esempio le ultime vicende riguardanti le fallimentari speculazioni della famiglia Karzai in Dubai) impedendo per giunta fino ad ora la nascita e lo sviluppo di partiti politici realmente rappresentativi. Soprattutto, almeno fino a pochi giorni fa, si è trascurato di tentare di cooptare i talebani nel governo del Paese, cosa che difficilmente può essere impedita indefinitamente se realmente ci si pone l’obiettivo di instaurare un regime realmente rappresentativo. Nel frattempo il Pakistan si sta disintegrando a causa delle sue stesse politiche e tensioni etniche e deve fronteggiare una pesante situazione umanitaria a seguito delle recenti disastrose inondazioni.
A questo punto viene veramente da domandarsi perché dobbiamo correre dei rischi dopo tutti gli errori delle varie amministrazioni americane che si sono via via succedute e dei loro servizi di sicurezza e tenendo conto altresì che ci sono parecchie ragioni per diffidare delle capacità dell’attuale esecutivo afghano. Immagino che ai normali cittadini italiani non sia per niente chiaro quale sia il nostro ruolo la nostra funzione e i nostri interessi in questo ginepraio. Non è neppure certo se il nostro governo (e quelli che l’hanno preceduto) abbia formulato dei chiari obiettivi, limiti temporali e condizioni per l’appoggio all’attuale governo afghano, nonché per l’intervento l’impiego operativo e ancora meglio per il ritiro del nostro contingente. A me infatti sembra evidente che i tempi per vincere (o meglio non perdere) la guerra saranno ancora lunghi, ma nel contempo è altrettanto evidente che per stroncare la resistenza talebana è senza dubbio necessario combattere duramente smettendo di fare finta di essere solo un contingente di peacekeeping (ma questo più o meno segretamente lo stiamo già facendo) , ma soprattutto è necessario spingere l’attuale governo afghano e magari anche l’amministrazione americana ad accettare un accordo con i talebani tenendone almeno in conto parte delle istanze sociali e politiche. Nel migliore dei casi quindi è probabile che non assisteremo alla nascita di una pacifica democrazia perfetta (ne abbiamo forse da qualche parte?) e ciò, perché buona parte della popolazione semplicemente non la vuole e noi evidentemente non siamo in grado di imporla, sarà quindi necessario scendere in qualche modo a compromessi con la profonda e ormai esasperata cultura islamica del Paese e del sempre più turbolento e instabile vicino, il Pakistan. Se però non siamo veramente intenzionati o come più probabile, abbastanza autorevoli e forti per poter portare avanti questo doppio obiettivo necessario alla stabilizzazione dell’intera area, sarebbe forse meglio che ammettessimo la sconfitta e levassimo le tende, limitando il più possibile i danni e le nostre perdite umane, con buona pace dei nostri alleati americani, per i quali deve essere chiaro che non possono contare su di noi alla stregua di mera forza militare per procura e che venga posta allo stesso livello dei loro contractors.

giovedì 7 ottobre 2010

Recensione: Caduta libera

“Caduta libera”, di Nicolai Lilin, edizioni Einaudi, ISBN 978-88-06-20063-3. Il romanzo autobiografico descrive l’esperienza di cecchino dell’autore in un’unità d’assalto e infiltrazione dell’esercito russo durante la seconda campagna della guerra cecena (cominciata nell’agosto del 1999). Il libro da un’idea assolutamente realistica di come sono combattute tutte le recenti guerre di attrito, ben rappresentate proprio dai continui scontri nel Caucaso o dall’eterna guerra afghana. Davanti agli occhi del lettore scorrono scene di un’efferatezza inimmaginabile alle “persone normali”, violenza, morte, paura, sangue e brandelli di corpi dilaniati da armi micidiali. Un’azione continua, sincopata e istintiva dove l’uomo regredisce totalmente ai suoi istinti primordiali. Nessuno spazio per pensare, per distrarsi, per riposare o persino per mangiare. Niente prigionieri, nessuna pietà e nessun rimorso in una realtà allucinante dove gli unici legami sono quelli del clan, del gruppo o meglio, del branco. Il peggio però viene alla fine perché una volta sfuggito indenne all’inferno ceceno all’autore toccherà ritornare alla vita civile dove niente gli sembrerà come prima. Un libro che spiega molte cose sulle guerre, sulla violenza e sugli uomini e che tutti dovrebbero leggere.

lunedì 4 ottobre 2010

Recensione: Mossadeq – L’Iran, il petrolio, gli Stati Uniti e le radici della rivoluzione islamica

“Mossadeq – L’Iran, il petrolio, gli Stati Uniti e le radici della rivoluzione islamica”, di Stefano Beltrame, edizioni Rubbettino. Il libro cerca di ricostruire i fatti che, nel corso del 1953, portarono al rovesciamento dell’allora capo del governo iraniano Mossadeq. Nel frattempo l'autore istaura un collegamento fra quei fatti e la rivoluzione islamica del 1979 che portò al rovesciamento dello scià e all’ascesa al potere dell’Ayatollah Khomeini e alla conseguente proclamazione della repubblica islamica, che ispirandosi alle teorie del Velayat e Faqi (governo del giureconsulto) tuttora regge il Paese. Beltrame sviluppa una tesi moderna ed interessante che cerca di dimostrare come la rimozione di Mossadeq fu causata non tanto dalla bontà della realizzazione del piano Ajax/Boot, progettato congiuntamente da CIA e SIS (i servizi segreti britannici), quanto dalla crescente divergenza di obiettivi e punti di vista che opposero il capo del governo iraniano al clero sciita militante allora rappresentato dall’Ayatollah Kashani. Il clero sciita, ferocemente antibritannico, in un primo tempo aveva appoggiato Mossadeq nella sua lotta contro gli inglesi e a favore della nazionalizzazione dell’industria petrolifera, in seguito, però aveva cominciato a dubitare delle velleità populiste di Mossadeq e ne temeva i progetti riformatori improntati ad una matrice laica e filo occidentale. L’autore, molto intelligentemente cerca anche di mettere nella giusta luce il diverso ruolo degli inglesi e degli americani nei loro rapporti con l’Iran degli anni 50; mentre i primi agirono in una stretta logica neocolonialista che ora ci appare ingiusta e miope oltre che anacronistica, gli americani cercarono più volte un compromesso che potesse genuinamente risolvere il contenzioso con la AIOC (ora BP) e il Paese mediorientale. Fu in ultima analisi l’intransigenza di Mossadeq, il suo errato calcolo politico e l’eccessiva fiducia nel supporto popolare a farlo sembrare agli USA inaffidabile facendone spostare la visione da una posizione di benevola neutralità a quella di supporto ai piani golpisti di matrice britannica. Mossadeq non tenne in dovuto conto il rapido evolversi della situazione politica mondiale che vedeva gli americani, in parte accecati dal fenomeno del maccartismo, assumere un ruolo sempre più attivo nella lotta al comunismo e pertanto sempre più preoccupati dal rapporto apparentemente sempre più stretto, ma in realtà inesistente, fra Mossadeq e le forze del Tudeh (PC iraniano). In sintesi il bilancio sia dell’operazione Ajax che dell’operato di Mossadeq non è edificante, ancora adesso il grande, ma forse eccessivo leader iraniano rimane un’icona dell’antiamericanismo e un simbolo della lotta contro il neocolonialismo occidentale, mentre l’Iran appare ancora carente di quella credibilità, stabilità e maturità politica ed economica che meriterebbe nonché ancora in cerca di una via in grado di riconciliarsi con l’occidente.