giovedì 30 maggio 2013

Grillo e la sindrome di "Q"


Per chi ha letto il romanzo  “Q”, il capolavoro di Luther Blisset, lo pseudonimo dietro al quale si cela il collettivo di scrittori Wu Ming, le attuali esternazioni di Grillo e dei parlamentari del M5S devono ricordare il clima creatosi tra gli anabattisti della città di Münster. L’episodio ha effettivamente un riscontro storico. Nel 1534 Münster fu occupata dagli anabattisti che, in pieno fervore religioso e rivoluzionario diedero corso ad un esperimento sociale di carattere “comunista”, sprofondando la cittadinanza in una dittatura da incubo (persino rispetto ai parametri di quel periodo!). L’attuale fase di dibattito interno, alla caccia di spie e di nemici interni ed esterni, richiama fin troppo da vicino questo tipo di situazioni deliranti. Guardando ai movimenti di matrice populista, ai quali, oltre a quelli religiosi possiamo certamente assimilare sia il comunismo, sia il nazionalsocialismo, ma anche alcune fasi della rivoluzione francese, non si fatica a trovare esempi in cui, partendo da premesse condivisibili, si finisce per degenerare nella dittatura e nel delirio paranoide che, in sintesi porta direttamente al “terrore”. Consiglierei ai Grillini di riflettere su queste cose, ricordando, nel frattempo, che la politica è l’arte del compromesso. Mi sento di aggiungere, infine, che c’è solo una genia più pericolosa dei disonesti, ed è quella dei “troppo puri”, che da altre parti, forse più esotiche, prendono il nome di Talebani.

martedì 28 maggio 2013

Elezioni amministrative 28-05-13: Qualche riflessione


I risultati delle recenti elezioni amministrative, come un Giano bifronte, si prestano a una lettura in chiaroscuro. A mio avviso, esse sono caratterizzate sostanzialmente da tre aspetti: Il notevole il calo dei votanti che, per esempio a Roma si attestano appena sopra al cinquanta percento; il sostanziale calo del Movimento 5 Stelle, in molti comuni più che dimezzato rispetto al voto delle politiche; il recupero dello schieramento del centrosinistra. Nessuno di questi aspetti sembra casuale, tutt’altro. La progressiva crisi dell’adesione al voto è, secondo me, un chiaro sintomo della crisi del modello democratico, da una parte adegua l’Italia alla situazione riscontrabile in molte delle democrazie “più mature” e, non per questo, meno malate, dall’altra, anch’essa ne mostra ormai chiaramente i sintomi. Nessuno pensa più veramente che votare serva, nessuno ritiene di poter contare veramente attraverso il voto, mentre cresce la consapevolezza rispetto all’inadeguatezza del modello rappresentativo. I nostri riti elettorali non servono né a supportare una vera rappresentatività per quanto, magari, frammentata e caotica, né all’opposto, sembrano riuscire a fungere come metodo per selezionare una classe politica che rappresenti la parte migliore della società. All’opposto, sembra quasi che il sistema attui una selezione in negativo che porta al vertice lobbisti, portaborse e, più genericamente, sfaccendati o, in altre parole, tutti quelli che, nella vita non hanno di meglio da fare. Anche le recenti scelte politiche, per quanto responsabili e comprensibili, a partire dal governo Monti per passare a quello delle larghe intese di Letta, non fanno che dimostrare che la politica è solo una mascherata e, nel momento in cui non ci si può più permettere lo spettacolo, subentra qualche potentato economico a svolgere il ruolo di tutore, allora perché agitarsi? Perché perdersi un week end soleggiato? Cominciano a pensare in molti.
Il crollo dei Grillini, insieme al rafforzamento del centrosinistra, sembra, invece, indicare sentimenti più fluidi, tipici di una società in fermento dove rassegnazione e speranza sono ancora in lotta per prevalere. Il M5S ha suscitato prima entusiasmo e poi cocente delusione, è sembrato a molti un contenitore trasversale, una via nuova, basata sul consenso verificato attraverso il canale multimediale, lontano dal verticismo dei partiti e, pertanto, per definizione, pulito. Anch’esso però ha fallito, in parte per la sua improvvisazione, ma soprattutto per la sua impostazione populista e, se vogliamo, improntata a un manicheismo ottuso, quasi da setta religiosa. Soprattutto, è emerso il limite di una struttura per nulla democratica e anzi, completamente accentrata sulle persone di Grillo e Casaleggio. Appena chiamato a condividere i doveri della politica, il Movimento ha chiaramente messo in luce le scarse capacità pratiche della leadership che, nel passare dal “dire” al “fare” è apparsa totalmente inadeguata, come, per altro, sono apparsi incapaci di agire e trovare soluzioni autonome i parlamentari M5S eletti nelle recenti politiche. Essi, non solo si sono dimostrati, a dir poco, inesperti e digiuni di ogni pratica e ritualità politica (il che sarebbe stato anche scusabile agli occhi degli elettori), ma, ignorando completamente la grave situazione di emergenza economica e sociale del Paese, si sono messi di traverso osteggiando la realizzazione di ogni proposta ragionevole. Infine, mostrandosi completamente succubi del loro leader, hanno spaventato non poco l’opinione pubblica dilapidato all’istante, il patrimonio di fiducia che il Movimento aveva accumulato fino a quel momento. Specularmente, si spiega la resurrezione del centrosinistra; nonostante il danno d’immagine provocato dal flop alle elezioni, dallo scandalo MPS e dalle lotte fra le varie correnti, fra giovani “turchi” e, fin troppo vecchi “dinosauri”, il centrosinistra sembra effettivamente l’unica componente “viva” nell’orizzonte politico italiano, l’unico laboratorio che dia l’impressione non solo di distruggere e disfare, ma anche di produrre qualche soluzione nuova. In qualche modo, seppur faticosamente, laggiù il nuovo avanza. Rimane da vedere dove andranno gli orfani di Grillo, se realizzeranno un’auspicabile riforma del Movimento, oppure se contribuiranno a dare vita a qualche nuova creatura politica della quale ci sarebbe estremamente bisogno. Tutto ciò, nell’attesa che la destra, soprattutto quella moderata, si smarchi definitivamente dal ricatto e dall’impresentabile onnipresenza del Cavaliere.

giovedì 23 maggio 2013

Recensione: L’ultima Avventura del Pirata Long John Silver


"L’ultima Avventura del Pirata Long John Silver”, di Björn Larsson, traduzione di Katia De Marco, Edizioni Iperborea, ISBN: 978-88-7091-521-1. 

Questo sembra un ulteriore e, forse, l’ultimo “colpo di coda” del famosissimo antieroe Long John Silver detto Barbecue, incallito pirata e coprotagonista, insieme al giovane Jim Hawkins, de “L’isola del Tesoro”, il noto romanzo ottocentesco dello scrittore Robert Louis Stevenson.
 Egli aveva già vissuto una seconda e, a parer mio, splendida nuova vita per opera del precedente romanzo di Björn Larsson: “La Storia del Pirata Long John Silver” (iperborea, ISBN 978-88-7091-075-9), conclusosi rocambolescamente, lasciando ai tanti ammiratori come il sottoscritto, almeno la speranza di saperlo tranquillamente in pensione. Evidentemente, invece, anche l’Autore non ha resistito al fascino del personaggio e non ha voluto lasciare dubbi rispetto alla sorte di questo simpatico, anarchico guascone che, ancora una volta, torna a farsi beffa di tutti, se stesso incluso.
La storia è breve ma, per chi ha amato questo personaggio, conserva il fascino del romanzo originale. Non ha però senso leggerla indipendentemente e fuori da quel contesto perché, questo sequel  da tutto per noto e scontato e contiene continui riferimenti all’opera precedente.
Detto schiettamente, i più maligni sono assolutamente autorizzati a pensare che "L’ultima Avventura del Pirata Long John Silver” sia una semplice e non faticosissima speculazione commerciale dell’Autore. Personalmente, sono convinto che sia così, tuttavia, come fan, sono contento della ricomparsa del vecchio Silver che riabbraccio volentieri come un vecchio amico.

venerdì 17 maggio 2013

Recensione: Europa Tedesca – La nuova geografia del potere


"Europa Tedesca – La nuova geografia del potere”, titolo originale: “ Das deutsche   Europa. Neus Machtlandschaften im Zeichen der Krise” di Ulrich Beck, traduzione di Michele Sampaolo, Edizioni Laterza, ISBN: 978-88-581-0736-2. 

L’Autore offre una descrizione di come e perché, a seguito della crisi economica, la Germania abbia acquisito un ruolo sempre maggiore come arbitro politico ed economico nell’ambito dell’Unione Europea. L’indispensabile capacità tedesca di fungere da creditore per tutti quei paesi europei che risultano gravati da un disavanzo pubblico rilevante, la volontà di imporre una politica finanziaria paneuropea improntata al rigore e la necessità di rassicurare l’opinione pubblica interna attraverso una politica comunitaria basata, apparentemente, sulla salvaguardia degli equilibri di bilancio e sulla lotta all’inflazione, hanno determinato un forte accentramento di potere in favore della cancelleria tedesca, la quale, è riuscita a porre in atto una politica vincente sia sul tavolo della politica europea che su quello della politica interna forzando più di una volta la mano sia ai partner europei sia al parlamento tedesco attraverso una politica che subordina l’erogazione di crediti ai paesi a rischio alla realizzazione di pesanti tagli e ristrutturazioni e, nel contempo, sventola in ambito nazionale lo spauracchio del fallimento dell’euro. Questa formula di successo si basa su un’accorta dose di “soft power” caratterizzato da una certa ambivalenza sia in politica estera dove, verso i partner europei si cerca di  combinare il rispetto formale di facciata dell’indipendenza degli stessi con l’ingerenza sostanziale nelle loro politiche di bilancio, sia sul  fronte interno, dove attraverso l’idea dell’applicazione agli stati UE della formula del rigore, si sponsorizza, in teoria, la difesa degli interessi e dello stile di vita tedesco, ma in realtà, spesso, in nome dell’emergenza, si impone ai tedeschi lo sforzo finanziario di stabilizzazione dell’euro e di finanziare i crescenti disavanzi di alcuni dei partner UE. Tale formula di pragmatismo politico, fino ad adesso pagante, comincia a mostrare aspetti di squilibrio e, “de facto”, rischia di minare alla base alcune caratteristiche dell’Unione che, fino ad ora, si è aggregata attorno a ideali di libertà e uguaglianza e si è sorretta su basi associative volontarie non gerarchiche. Crescono intanto le contraddizioni intorno al modello attuale dell’Unione che, ormai, ha rivelato una serie di linee di fascia fra “Nord” e “Sud”, oppure fra i paesi che aderiscono all’euro o che mantengono ancora la moneta nazionale. Sembra dunque avvicinarsi il momento in cui bisognerà scegliere più chiaramente se ripiegare verso istanze nazionali oppure rilanciare quelle unitarie rivitalizzando il progetto d’integrazione politica. L’Autore mette in guardia rispetto a un programma d’integrazione che parta dall’alto, che sia sostanzialmente frutto solo di scelte istituzionali e che si occupi principalmente solo di aspetti amministrativi, fisco, finanza ed economia. Egli, invece, intravvede la possibilità di attuare un processo che parta dal basso, da promuovere, soprattutto, attraverso le istituzioni politiche e democratiche. Esso dovrebbe fare perno, ad esempio, sulla rete di scambi culturali intereuropei e coinvolgere in primis le persone e, in particolare, le nuove generazioni; avendo l’obiettivo di far acquisire una maggior coscienza della propria qualità di ”europei”, sensibilizzando l’opinione pubblica rispetto al bagaglio di valori comuni che caratterizzano la cultura “Europea”, seppur nel rispetto delle nostre diverse tradizioni culturali. Ciò, con lo scopo di far emergere chiaramente nella percezione degli europei la consapevolezza di quei vantaggi che, spesso, diamo per scontati e che rischiamo inconsapevolmente di perdere nel caso fallisse il progetto unitario.

 

giovedì 9 maggio 2013

Recensione: Omero, Iliade

"Omero, Iliade”, di Alessandro Baricco, Edizioni Feltrinelli, ISBN: 978-88-07-88143-5.  

L’Autore ripropone l’Iliade del poeta Omero, l’epica cronaca che narra la guerra di Troia (avvenuta fra il 1300 e il 1200 a.C.).
L’opera è stata adattata per una lettura in pubblico, pertanto, il testo è stato arrangiato, tagliato e trasposto in prima persona perché, secondo Baricco, con il ricorso alla soggettività si sarebbe creato nell’auditorio un maggior coinvolgimento emotivo. L’Autore ha aggiunto alcune parti evidenziate in corsivo per distinguerle dal contenuto originale. Tale intervento, forse si poteva evitare e, a parer mio, queste intrusioni tradiscono un eccesso di protagonismo del narratore e non aggiungono molto a un lavoro che, comunque, risulta assai valido.
 
Dal mio punto di vista, la rielaborazione di Baricco è da considerarsi un successo, il testo, agevole e coinvolgente, si divora in pochissimo tempo. L’Autore riesce perfettamente a ricreare realisticamente la vicenda umana, obiettivo esplicito della sua rivisitazione; i caratteri dei personaggi mi sono sembrati ben descritti e le vicende sono narrate con la giusta carica di pathos, splendide e terrificanti le scene di battaglia. 

Non ho termini di paragone con l’opera originale che, come tanti studenti, ho studiato a scuola senza, poi, riavvicinarmi più a essa. Forse, proprio questa lettura riuscirà a riportarmi sui miei passi perché, l’opera di Omero merita sicuramente maggiore attenzione.

 

martedì 7 maggio 2013

Recensione: Keynes o Hayek – Lo scontro che ha definito l’economia moderna


“Keynes o Hayek – Lo scontro che ha definito l’economia moderna”, di Nicholas Wapshott, titolo originale: “Keynes Hayek, the Clash that Defined Modern Economics”, traduzione di Giancarlo Carlotti, Edizioni Feltrinelli, ISBN: 978-88-07-11122-8.  

John Maynard Keynes (1883 – 1946) e Friedrich von Hayek (1899 – 1992) sono due degli economisti che più hanno influenzato il pensiero economico moderno. Il primo, forse il più grande economista del XX secolo, è il padre riconosciuto della macroeconomia, la branca di studio che si occupa del funzionamento dell’economia nel suo complesso, a lui si deve la cosiddetta “rivoluzione keynesiana”, corrente di pensiero che sostiene la necessità dell’intervento pubblico in economia con l’obiettivo di mitigare gli effetti delle crisi e ricercare la piena occupazione. A lui si deve una pubblicazione di grande influenza, la “Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta” (The General Theory of Employment, Interest and Money) apparsa nel 1936 e che finì per rivoluzionare il pensiero economico.

Il secondo, strenuo difensore di un approccio microeconomico (la branca che studia i comportamenti dei singoli operatori economici) e ferocemente contrario a ogni intervento pubblico in economia, risulta meno conosciuto del primo nonostante il nobel conseguito nel 1974. Seppure di grande competenza e di riconosciute capacità, Hayek deve la sua fama soprattutto al fatto di aver condotto per tutta la propria vita professionale una strenua lotta contro il pensiero keynesiano. Deciso oppositore di ogni forma d’intervento statale in economia, nel 1944 Hayek scrisse la sua opera più nota e di maggiore influenza “La Via della Schiavitù” (The Road to Serfdom), che divenne un’icona dei conservatori (dai quali egli però ci teneva a distinguersi definendosi un liberale!) e dove sosteneva la pericolosità di tali interferenze che, secondo lui, avrebbero finito per favorire l’insorgenza del totalitarismo.

La lotta fra le due opposte ideologie si è sviluppata attraverso tutto il novecento e continua tutt’oggi. Il pensiero keynesiano visse il suo periodo di massimo splendore fino alla fine degli anni sessanta del novecento contribuendo a portare l’economia americana a un livello di prosperità che, con le dovute proporzioni, non fu più eguagliato. Le politiche keynesiane ispirarono anche il piano Marshall, attuato in Europa e Giappone con l’esplicito intendimento di favorire la ripresa economica e rafforzare le istituzioni democratiche favorendo, attraverso l’idea del “welfare state”, il benessere economico e sociale e, nello stesso tempo, fornendo un’alternativa ideologica in grado di contrapporsi al comunismo. Le politiche keynesiane finirono per essere messe in crisi dall’insorgenza della “stagflazione” (stagnazione in presenza di alti tassi d’inflazione) sviluppatasi a seguito della crisi economica susseguente all’innalzamento dei prezzi petroliferi (decisione presa dall’OPEC nel 1973 a seguito della politica americana filo israeliana) e dall’uscita dal sistema di cambi fissi fra le valute del Gold Standard. In realtà, però, furono soprattutto gli eccessi ideologici e gli abusi della classe politica, che cominciò presto a utilizzare le tecniche di manipolazioni dell’economia in funzione dei cicli elettorali, a svilirne la natura e ad avviare le teorie keynesiane a una profonda fase di revisione.

Gli anni ottanta del novecento, soprattutto attraverso le politiche messe in atto dal presidente americano Ronald Reagan e da Margaret Thatcher in Gran Bretagna, si vide un ritorno alle teorie liberiste ispirate a Hayek, del quale, la “lady di ferro” si dichiarava grande ammiratrice. Nonostante che egli rimanesse l’icona e il portavoce delle idee liberiste, queste vennero in parte contaminate dalle teorie macroeconomiche e furono notevolmente innovate grazie agli apporti della scuola “monetarista” della quale l’economista Milton Friedman fu il principale teorico ed esponente.

 Per tutti gli anni ottanta del novecento fino alla crisi del 2008 lo scontro ideologico continuò a svilupparsi attraverso la contrapposizione delle due principali scuole economiche: quella di “acqua dolce”, orientata al pensiero liberista e quella di “acqua salata” più propensa verso l’ideologia keynesiana, in realtà, però, nel corso del tempo le differenze fra le due opposte ideologie si sono notevolmente attenuate; nessuno oggigiorno mette più seriamente in dubbio il ruolo e l’importanza della macroeconomia e, di fatto, un qualche genere d’intervento pubblico nell’economia è dato per scontato. Semmai la contrapposizione si è spostata su temi più specifici, ad esempio riguardo alla modalità di attuazione di tale intervento, parlando quindi di diversi usi ruoli e pesi assegnati alla leva monetaria, alla spesa pubblica o alla leva fiscale, mentre il ruolo centrale della discussione continua a rimanere focalizzato sul ruolo e sull’ampiezza che deve avere l’intervento pubblico e del suo eventuale rapporto con la libera iniziativa privata. In aggiunta, in Europa, presa dai suoi problemi di omogeneizzazione delle diverse economie dei paesi aderenti all’euro, rimane invece centrale la riflessione riguardo all’eccessivo livello dei disavanzi statali e, ancora, si è alla ricerca di una soluzione che bilanci le esigenze di crescita con quelle del rigore.

 

 

sabato 4 maggio 2013

Recensione: Occidente: Ascesa e Crisi di una Civiltà


“Occidente: Ascesa e Crisi di una Civiltà”, di Nial Ferguson, titolo originale: “Civilization, the West and the Rest”, traduzione di Aldo Piccato, Edizioni Mondadori, ISBN: 978-88-04-62527-8. 

Nel XV secolo l’Occidente, in particolare l’Europa, erano luoghi remoti, sottosviluppati e relativamente poco importanti se messi in paragone con lo splendore dell’impero Ming, di quello ottomano o anche solo con i regni del subcontinente indiano; da lì a poco però, la civiltà occidentale avrebbe cominciato a crescere in termini di potenza, influenza e importanza finendo per dominare il globo nel corso del XX secolo. Dalla seconda metà del novecento, invece, qualcosa sembra essere cambiato e, dopo secoli di predominio, l’Occidente appare progressivamente sempre più in affanno rispetto all’affermazione di altre grandi civiltà, in particolar  modo quella cinese e quell’indiana. In quest’ottica l’Autore si pone sostanzialmente due interrogativi: il primo riguarda la determinazione di quegli elementi che, nel corso dei secoli, hanno permesso alle nazioni occidentali di prevalere sulle altre per tanto tempo a discapito di una situazione di partenza apparentemente non ideale; il secondo e forse per noi più importante, s’interroga sulla perdita di potere relativo dell’Occidente sia in campo militare, sia in termini culturali ed economici. Di fronte alla tumultuosa ascesa della Cina e a quella più silenziosa ma forse per certi versi più insidiosa di altre nazioni (es. India e Brasile), i paesi occidentali sono destinati a tornare nella periferia del mondo e a scivolare nell’irrilevanza? 

Rispetto alle ragioni che hanno determinato l’affermazione delle nazioni occidentali, sono stati scritti fiumi d’inchiostro e, sotto questo punto di vista, il libro di Ferguson espone un’analisi molto interessante ma non del tutto innovativa che introduce solo alcuni interessanti elementi di novità rispetto a quanto è già stato evidenziato da altri autori. Tutto ciò però non deve spaventare il lettore perché questo libro, come altri dello stesso studioso è tutt’altro che scontato o noioso e, il fatto che i fattori di successo siano grossomodo già noti in quanto già da tempo individuati e analizzati e che siano già stati citati e sviluppati in altre opere non toglie nulla al piacere della lettura. Il testo è scorrevole, l’esposizione è ben organizzata e ogni pagina è ricca di aneddoti e storie interessanti.

Per tornare alle ragioni del successo occidentale, Ferguson individua principalmente i seguenti fattori: la competizione, la scienza, i diritti di proprietà, la medicina, il consumismo e infine l’etica e l’organizzazione del lavoro. 

Ecco quindi emergere dei fatti già noti ma anche degli elementi di originalità perché, mentre è già stato rimarcato ampiamente il ruolo della scienza e della medicina occidentali ed è anche stato rammentato più volte come la relativa frammentazione geografica delle nazioni europee abbia favorito fra esse una forte dinamica competitiva che le ha portate a eccellere sia in campo bellico sia commerciale, pochi autori si sono soffermati su alcuni aspetti peculiari che hanno fortemente differenziato la cultura occidentale dalle altre. Ecco quindi che vengono citati dei fattori di successo meno scontati rispetto ad altri. L’Autore evidenzia l’importanza che ha assunto il tema del diritto di proprietà che, a ben vedere, costituisce uno dei principi cardine dei nostri sistemi giuridici e legali e che, effettivamente, ha contribuito in maniera determinante a definire il grado di separatezza e d’intervento fra la sfera pubblica e privata e che forse, un po’ inaspettatamente, si rivela come fondamentale per promuovere l’evoluzione verso sistemi politici largamente rappresentativi e democratici. Sorprendente e illuminante è anche il ruolo che l’Autore attribuisce al fenomeno del consumismo; questo concetto è spesso è un po’ ambiguo anche per noi occidentali e, difficilmente, nel nostro vivere quotidiano, ci soffermiamo a pensare a quanto esso sia stato invece fondamentale ai fini dello sviluppo del modo di vivere occidentale. L’Autore riserva anche una certa attenzione all’etica e all’organizzazione del lavoro e alle sue ricadute in termini sociali e tecnologici, ma anche rispetto al rapporto con i mutamenti ambientali e al fenomeno dell’urbanizzazione. Viene anche enfatizzato, per certi versi inaspettatamente, il ruolo della religione cristiana, soprattutto nella sua versione riformata, come fattore motivazionale dell’attività imprenditoriale e come elemento promotore dell’etica del lavoro. 

Riguardo alle domande sul ruolo futuro dell’occidente, nel momento in cui altre culture sono in procinto di raggiungere i nostri stessi standard in termini di conoscenze tecnologiche, scientifiche e di potere militare, sono proprio i particolari fattori di successo enfatizzati da Ferguson nel corso dell’opera che permettono una lettura non per forza pessimistica del nostro ruolo e del nostro futuro. L’Autore ci fa notare che i nostri “competitors”, nel tentativo di insidiare il primato occidentale hanno finito per assomigliarci. Le masse cinesi e indiane aspirano agli stessi beni e alle stesse opportunità che sono ormai uno standard in occidente, i loro sistemi giuridici ricalcano largamente i nostri, il loro modo di vivere, di mangiare e persino di vestirsi è sempre più simile al nostro e, persino le religioni occidentali spopolano in Cina. E’ possibile che, nel corso del prossimo secolo si riduca sensibilmente il ruolo e l’importanza dei paesi occidentali ma nel frattempo, difficilmente risulta immaginabile che sorgano degli elementi che mettano in seria discussione gli aspetti caratterizzanti della cultura occidentale che, oramai, sono diventati uno standard globalizzato. Dunque, la nostra cultura non sembra correre sostanziali pericoli, forse ci dobbiamo solo abituare all’idea che, in futuro anche altri contribuiranno a farla evolvere e plasmare.