giovedì 15 dicembre 2011

Recensione: L’uomo dimenticato – Una nuova storia della Grande Depressione

“L’uomo dimenticato – Una nuova storia della Grande Depressione”, titolo originale: “The Forgotten man. A new history of the Great Depression”, di Amity Shlaes, editrice Feltrinelli, traduzione di Giancarlo Carlotti, ISBN: 978-88-07-11111-2.
Si tratta di una rivisitazione in chiave critica del New Deal. L’Autore cerca di smitizzare la vera portata della politica economica e sociale intrapresa dal presidente Roosevelt durante tutti gli anni trenta e si spinge a insinuare che anzi, alcuni provvedimenti e il clima creato possano in realtà aver fatto da zavorra a una ripresa più rapida. Il titolo, “L’uomo dimenticato”, s’ispira a una definizione dell’accademico e studioso poliedrico William Graham Sumner (1840-1910) che, riguardo alle sue idee sull’economia fu sostenitore del laissez-faire, del libero commercio e avversario del socialismo e dell’intervento statale. Per Sumner, l’uomo dimenticato è “ ……. L’uomo a cui non si pensa mai …….. Lavora, vota, di solito prega, ma sempre paga …….”, si tratta quindi dell’uomo comune, medio, il tipico alacre ed affidabile “Signor nessuno”, che non appartiene a nessun gruppo di pressione e non è neppure rimarchevole in quanto portatore di un qualche particolare ed evidente bisogno sociale, quello chiamato attraverso il sistema fiscale a finanziare sempre le varie iniziative politiche ed economiche che, per lo più sembrano andare soprattutto a beneficio di “Altri”. Nel 1932, la definizione dell’”Uomo dimenticato” fu modificata a fini propagandistici per un discorso di Roosevelt, nel quale l’aspirante presidente asseriva di volersi interessare “… dell’uomo dimenticato, al fondo della piramide economica …” e da lì mutò completamente di significato andando a indicare l’indigente, colui al quale sarebbero stati indirizzati i programmi di aiuti governativi. Tornando alla Grande Depressione, il libro cerca di riportare più chiaramente il quadro complessivo dell’epoca; la bolla speculativa del ventinove esplose dopo un periodo di forte crescita e sviluppo avvenuti nel solco del liberismo classico, ma che sarebbe stato anche influenzato dai mutamenti organizzativi e sociali resisi necessari durante la prima guerra mondiale. La crisi fu particolarmente acuta anche a causa dei vincoli creati alla politica economica e monetaria dal sistema del gold standard, che Roosevelt cercò in qualche modo di mettere in discussione e dall’inasprirsi delle tariffe protezionistiche, che furono invece incrementate con effetti disastrosi propri come effetto della politica economica non proprio lineare del presidente americano.
Molto interessante sono le considerazioni riportate dall’Autore riguardo al quadro politico, sociale, economico ed internazionale che portarono al New Deal, il quale, è bene ricordare, fu fortemente influenzato non solo dal contesto interno, ma anche dalle esperienze politiche europee che, proprio nello stesso periodo, sembravano evidenziare un maggior successo degli esperimenti di pianificazione della giovane rivoluzione sovietica e dei governi di ispirazione fascista e nazionalsocialista, rispetto a quanto invece riuscivano a proporre i governi delle democrazie europee, le quali, per loro conto erano anch’esse fortemente influenzate dalle influenze keynesiane legate al concetto di deficit spending. In questo insieme di fattori vanno ricercate le giustificazioni di alcune scelte fortemente autoritarie fatte da Roosevelt, le quali ex-post appaiono, se non sempre giustificabili, almeno comprensibili; ad esempio: la sua visione negativa del gigantismo industriale, l’avversione per il sistema delle holdings, la preferenza per un controllo pubblico delle utilities (l’energia elettrica in particolare!), la legislazione fiscale particolarmente punitiva nei confronti delle imprese e degli imprenditori, una certa tendenza verso forme di corporativismo, il rafforzamento del potere sindacale, ma nel contempo, il tentativo di controllarne il movimento politicamente, la propensione al rafforzamento del controllo federale a discapito delle autonomie dei singoli stati dell’unione, la lotta ai “Profittatori” portata, in alcuni casi, ai limiti della persecuzione ed infine, gli esperimenti di collettivizzazione agricola.
Alla fine, a mio avviso, ne viene fuori decisamente un bel libro ed un rapporto del fenomeno che ritengo equilibrato e che, senza denigrare, in parte smitizza la vera portata del New Deal.
Come ulteriore apporto personale, la lettura di “L’Uomo dimenticato” è stata determinante nella decisione di riprendere in mano un libro che avevo ormai dimenticato negli scafali: “Furore”, il capolavoro di John Steinbeck che, collocato in un contesto che finalmente sono in grado di comprendere, mi sta dando grandissime soddisfazioni.

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