martedì 27 dicembre 2011

Recensione: Furore

“Furore”, titolo originale: “The Grapes of Wrath”, di John Steinbeck, editrice Biblioteca di repubblica, traduzione di Carlo Coardi, ISBN: 84-8130-512-X.
Il romanzo descrive le vicissitudini della famiglia Joad, famiglia contadina del Midwest costretta ad emigrare in California a seguito dei cambiamenti economici e sociali prodotti dalla Grande Depressione. Ho riletto il libro subito dopo aver svolto qualche ricerca e dopo la lettura di qualche saggio su quel periodo storico e forse, proprio per questo, ho veramente apprezzato l’opera di Steinbeck, la quale, a mio avviso, si merita pienamente di essere inclusa fra i capolavori della letteratura del novecento.
Il libro descrive in maniera drammatica gli avvenimenti e la situazione di quegli anni partendo dal fenomeno delle “Dust Bowls”, le tempeste di polvere che si abbatterono sulle Grandi Pianure a seguito di una nefasta alternanza di periodi di siccità e di alluvioni, uniti agli effetti delle cattive tecniche agricole e alla scarsa rotazione delle culture. Questi fenomeni, ai quali si sommarono quelli economici, principalmente legati alla caduta dei prezzi agricoli, alla meccanizzazione dell’agricoltura e all’espropriazione dei terreni delle famiglie indebitate, produssero un esodo di massa di proporzioni bibliche verso altre zone degli Usa ritenute, spesso a torto, più prospere, come ad esempio la California.
La lettura suscita emozioni e sensazioni forti; difficilmente si sfugge alla commozione di fronte ai tanti disagi, ma anche di fronte alla forza, alla generosità e alla solidarietà dei protagonisti, mentre forte è l’indignazione per le ingiustizie che devono subire questi soggetti, un tempo liberi, e ora ridotti alla condizione di nomadi migranti; impossibile non riflettere sulle tensioni sociali createsi a seguito di questi eventi e sui conseguenti atti di razzismo causati da questa immensa diaspora; oppure non odiare gli effetti della speculazione finanziaria o dei grandi latifondisti e dell’industria conserviera. Ma è soprattutto la descrizione del clima politico liberticida a colpire di più: i soprusi e le provocazioni della polizia locale collusa con i latifondisti, ai quali peraltro, si oppone invece una politica molto più accondiscendente, umanitaria e preveggente delle autorità federali, diretta conseguenza dei tentativi di Hoover e poi di Roosevelt di attenuare gli effetti della crisi, le quali però non riescono a evitare lo squadrismo contro i migranti e gli atti d’intimidazione e di violenza dei locali che spesso si spingono fino all’omicidio pur di stroncare sul nascere la spontanea inclinazione dei braccianti a organizzare qualche forma di sciopero o di rappresentanza sindacale per mantenere le paghe almeno al livello di sussistenza. Altro aspetto impressionante è l’assillo economico che spinge proprio i più poveri a una feroce competizione al ribasso per un posto di lavoro pur di garantire a se stessi e alle proprie famiglie una minima chance di sopravvivenza. E’ questo il mito americano viene da chiedersi? Ma la potenza di questo libro portentoso non finisce lì perché, con le dovute astrazioni, trasposizioni e differenze ci si accorge che il tema trattato dall’Autore è costante nella storia e attualissimo ai nostri giorni e non risparmia neppure il nostro Paese.

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