martedì 16 agosto 2016

Recensione: La via del ritorno


“La via del ritorno”, titolo originale: “Der Weg zurück“, di Erich Maria Remarque, traduzione di Chiara Ujka, edizioni Neri Pozza, ISBN 978-88-545-0704-3.

Siamo nel 1918, dopo quattro anni di guerra di vita di trincea Ernst torna a casa insieme ai resti della sua compagnia, trentadue uomini rispetto ai cinquecento che si sono avvicendati nel corso del conflitto, gli altri, caduti o mutilati. Partito volontario appena qualche anno prima insieme all’intera sua classe di coscritti delle superiori sulle ali dell’entusiasmo e degli effetti della propaganda nazionalista, si rende presto conto, già durante il lento ritorno a casa, non solo dell’inutilità della guerra e del sacrificio suo e dei propri commilitoni, ma anche di essere stato profondamente cambiato ed anche irrimediabilmente “rovinato” dall’esperienza del conflitto.

La Germania è allo sfascio, sfibrata dallo sforzo bellico e dilaniata dalle tensioni politiche e sociali. Il sacrificio di tanti giovani combattenti e dei tanti mutilati viene presto dimenticato dalla popolazione civile e i reduci, ormai così abituati a sopravvivere alla giornata e ad accontentarsi di un’esistenza precaria, trovano impossibile pianificare le proprie vite, ragionare in termini di “futuro” e reinserirsi nelle attività di ogni giorno. Essi non riescono neppure a rinunciare alla violenza o alla rudezza dei modi che caratterizzavano la vita di trincea e trovano insopportabili le convenzioni e le ipocrisie della vita civile. Persino il dialogo famigliare risulta difficoltoso o impossibile e, solo il cameratismo fra ex combattenti sembra dare un minimo di conforto ad una generazione che si sente irrimediabilmente alienata, tradita e perduta.

Il seguito di “Niente di nuovo sul fronte occidentale” è veramente un capolavoro. Per me, anche se meno conosciuto, esso finisce per risultare decisamente superiore al primo, per altro, già bellissimo libro di Remarque. L’opera è incentrata sul problema del disagio dei reduci e della difficoltà del loro reinserimento. Descrive in maniera veramente mirabile l’effetto corrosivo della guerra sulla mente degli uomini i quali, abituati durante lo scontro a cambiare e, spesso, a sovvertire le più comuni regole di convivenza civile, non riescono più ad accettare le norme, gli scopi e le convenzioni dell’esistenza civile di ogni giorno. Essi riescono a tornare ad un’esistenza (apparentemente) normale solo a costo di grandissimi sforzi e, in particolare, solo nel momento in cui siano in grado di rimuovere, dimenticare o, quanto meno, accantonare l’esperienza bellica. Invecchiati precocemente, essi sono condannati ad essere degli alienati sia che il loro disagio rimanga celato, sia che esso divenga manifesto. Incapaci di descrivere la propria esperienza ai non combattenti, finiscono per sempre condannati a condividerla, riviverla e ricordarla solo fra ex-commilitoni, unici altri depositari delle comuni esperienze, degli orrori ed anche dei pochi valori umani emersi durante l’esperienza estrema della guerra.

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