“La via del ritorno”, titolo originale: “Der Weg zurück“,
di Erich Maria Remarque, traduzione di Chiara Ujka, edizioni Neri Pozza, ISBN
978-88-545-0704-3.
Siamo nel 1918, dopo quattro anni di
guerra di vita di trincea Ernst torna a casa insieme ai resti della sua
compagnia, trentadue uomini rispetto ai cinquecento che si sono avvicendati nel
corso del conflitto, gli altri, caduti o mutilati. Partito volontario appena
qualche anno prima insieme all’intera sua classe di coscritti delle superiori sulle
ali dell’entusiasmo e degli effetti della propaganda nazionalista, si rende presto
conto, già durante il lento ritorno a casa, non solo dell’inutilità della
guerra e del sacrificio suo e dei propri commilitoni, ma anche di essere stato
profondamente cambiato ed anche irrimediabilmente “rovinato” dall’esperienza del
conflitto.
La Germania è allo sfascio, sfibrata dallo
sforzo bellico e dilaniata dalle tensioni politiche e sociali. Il sacrificio di
tanti giovani combattenti e dei tanti mutilati viene presto dimenticato dalla
popolazione civile e i reduci, ormai così abituati a sopravvivere alla giornata
e ad accontentarsi di un’esistenza precaria, trovano impossibile pianificare le
proprie vite, ragionare in termini di “futuro” e reinserirsi nelle attività di
ogni giorno. Essi non riescono neppure a rinunciare alla violenza o alla
rudezza dei modi che caratterizzavano la vita di trincea e trovano
insopportabili le convenzioni e le ipocrisie della vita civile. Persino il
dialogo famigliare risulta difficoltoso o impossibile e, solo il cameratismo
fra ex combattenti sembra dare un minimo di conforto ad una generazione che si
sente irrimediabilmente alienata, tradita e perduta.
Il seguito di “Niente di nuovo sul
fronte occidentale” è veramente un capolavoro. Per me, anche se meno
conosciuto, esso finisce per risultare decisamente superiore al primo, per
altro, già bellissimo libro di Remarque. L’opera è incentrata sul problema del
disagio dei reduci e della difficoltà del loro reinserimento. Descrive in
maniera veramente mirabile l’effetto corrosivo della guerra sulla mente degli
uomini i quali, abituati durante lo scontro a cambiare e, spesso, a sovvertire
le più comuni regole di convivenza civile, non riescono più ad accettare le norme,
gli scopi e le convenzioni dell’esistenza civile di ogni giorno. Essi riescono
a tornare ad un’esistenza (apparentemente) normale solo a costo di grandissimi
sforzi e, in particolare, solo nel momento in cui siano in grado di rimuovere,
dimenticare o, quanto meno, accantonare l’esperienza bellica. Invecchiati
precocemente, essi sono condannati ad essere degli alienati sia che il loro
disagio rimanga celato, sia che esso divenga manifesto. Incapaci di descrivere
la propria esperienza ai non combattenti, finiscono per sempre condannati a condividerla,
riviverla e ricordarla solo fra ex-commilitoni, unici altri depositari delle
comuni esperienze, degli orrori ed anche dei pochi valori umani emersi durante
l’esperienza estrema della guerra.
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