Problema
migranti: Lavorano e fanno figli: così i migranti finanziano l'Europa _ Analisi
di un approccio discutibile.
Dopo le aperture della Germania nei riguardi del problema
relativo all’accoglienza dei profughi sembra cambiato il clima politico
riguardo a questo tema che, effettivamente negli ultimi mesi ha raggiunto un
certo livello di criticità e non sembra accennare ad arrestarsi. Non è ancora
chiaro cosa abbia fatto cambiare il vento, forse la semplice impossibilità di
arrestare il fenomeno senza poter ricorrere a metodi scopertamente
antidemocratici, oppure a causa di ragioni più profonde di ordine politico,
economico e/o demografico. In ogni caso, già si percepisce anche il mutamento
di come il tema viene affrontato dai mezzi d’informazione che, dopo aver
trattato la questione sottolineando più gli aspetti umanitari, il fenomeno
dello sfruttamento e le frizioni che tali sommovimenti finiscono per creare
presso i paesi di accoglienza, adesso cominciano a spostare il “tiro” sugli
aspetti benefici e sulle opportunità positive che possiamo aspettarci da tale
esodo.
Ad esempio, oggi su La Repubblica appare quest’articolo:
Che comincia a spiegare al “popolo” come il fenomeno dell’immigrazione,
ben lungi dall’essere problematico deve essere visto come un’indispensabile
opportunità da cogliere al fine di mantenere in adeguato equilibrio i nostro squilibrati
e dissestati sistemi pensionistici, minati alla base da una popolazione locale
sempre più senescente.
Non contesto, ed anzi condivido in parte queste argomentazioni.
Esse, viste alla luce dell’attuale quadro normativo su cui si basa la nostra
previdenza, mi sembrano assolutamente coerenti; mi permetto però di ironizzare
sul fatto che tali ragioni avrebbero potuto anche essere fatte valere già molti
mesi (se non anni) fa! E, pertanto, mi sorprende un po’ la coincidenza che esse
appaiano solo adesso in tutta evidenza, proprio nel momento in cui la linea
politica tende a cambiare se non, persino, a rovesciarsi!
Dunque, lasciamo stare per un attimo gli aspetti umanitari legati
a questo fenomeno che, a parer mio, rimangono quelli veramente rilevanti sia
sul piano etico sia su quello sociale e torniamo al messaggio: “L’apporto
migratorio è fondamentale per la stabilità dei nostri conti pubblici”. Questo è
probabilmente vero, a rigore, solo sulla base dello “status quo”, ovvero, solamente
se si affronta il problema sulla base della sola demografia e della permanenza
delle regole attuali evitando quindi di prendere in considerazione anche altri
scenari che, ad esempio, implichino ulteriori modifiche dei nostri sistemi
pensionistici e sanitari. Ci sarebbero infatti almeno due approcci diversi percorribili per
risolvere il problema della stabilità dei conti relativamente a queste voci: il
primo si basa sul tentativo di mantenere un rapporto equilibrato fra giovani
attivi e anziani pensionati; il secondo renderebbe necessarie l’istituzione di
nuove regole al fine di rompere (finalmente) l’attuale patto (sarebbe meglio
dire “vincolo”!) generazionale che sta alla base dei nostri sistemi
pensionistici. Questi ultimi nonostante la pressoché totale applicazione di
sistemi contributivi, si basano ancora su metodi che, di fatto, erogano le pensioni
correnti non con i frutti delle rendite e dei contributi maturati dai
percipienti, ma con quanto versato dai futuri aventi diritto. In altre parole
le pensioni attuali sono pagate con i contributi correnti di chi andrà in
pensione a suo tempo e, il trattamento di questi ultimi sarà calcolato non come
conseguenza di investimenti fatti con il proprio denaro (buoni o cattivi che
essi siano!) ma in funzione di regole prestabilite che, tra l’altro, potrebbero
sempre essere messe in discussione nel momento in cui il sistema non si “regga”
(come è stato fatto spesso in passato)..Tutto ciò, non è tanto dovuto a
questioni di mutualità ed equità quanto al perverso lascito delle gestioni
allegre del passato. Pochi, ad esempio, si soffermano a porsi la seguente
domanda: “Perché un sistema contributivo mi costringe ad andare in pensione
solo ad una certa età e non quando ritengo di avere una rendita vitalizia
sufficiente?” Bene! La ragione fondamentale di ciò è da ricercare in quanto esposto
poco sopra.
Tornando a noi, se ci si basa sul primo approccio (quello basato
sull’equilibrio demografico), come conseguenza si possono e si devono fare
affermazioni come quella che segue e che è contenuta nel sottotitolo dell’articolo
citato: “Per salvare le nostre pensioni servono 250 milioni di rifugiati entro
il 2060. Ecco perché per gli economisti sono una risorsa”. Per seguire
coerentemente questa strategia di lungo periodo però, si dovrebbero anche discutere
una serie di questioni di fondo, che, invece, lasceremo (come sempre) da
risolvere alle generazioni future. Ad esempio ne sottolineo solo alcune:
- Stiamo basandoci su un modello che implica una crescita demografica
indefinita. Questo, infatti, a livello globale, mi sembra l’unico modo per
garantire la permanenza di un certo rapporto fra nuove e vecchie generazioni anche
per i secoli a venire. Siamo sicuri che questo sia un modello sostenibile? Non
sarebbe invece più cautelativo cercare di immaginarsi sistemi che mantengano la
propria efficienza anche in presenza di una crescita stagnante o negativa della
popolazione o che, quantomeno, tengano in conto un’alterazione sensibile (che già
sta avvenendo) fra gli equilibri generazionali all’interno della stessa?
- Stiamo anche sostenendo che tale popolazione crescente dovrà
mantenere un elevato o almeno equilibrato tasso occupazionale. Siamo sicuri
anche di questa affermazione? Tra l’altro, mi sembra che si dia anche per
scontato che tale livello occupazionale riguardi posizioni di una certa qualità
e stabilità, quantomeno, non certo minate alla base da aleatorietà, basse remunerazioni e
precariato. Dove e come pensiamo di trovare tali ulteriori occasioni di
occupazione nel prossimo futuro (e qui da noi nei nostri paesi!) sulla base di quanto possiamo
vedere già oggi?
Si dà quindi per scontato che tutte queste soluzioni ce le darà
il “progresso” anch’esso, ovviamente, destinato a proseguire indefinitamente e,
soprattutto a un tasso adeguato per risolvere senza eccessive frizioni tutti
questi problemi socio-eco-ambientali, Personalmente, invece, comincio a
sospettare che il genere umano non abbia ancora capito che ormai non si può più
permettere il “laissez faire” del passato e l'affidarsi alla futura provvidenza per la soluzione delle variabili lasciate indefinite; ormai, infatti, siamo troppo diffusi
e invasivi per poterci permettere di evitare di pianificare le nostre scelte
senza chiarire le modalità attraverso le quali pensiamo di risolvere i
problemi, possibilmente, senza compromettere gli equilibri esistenti.
Per esempio, mi sembra che anche una conoscenza solo approssimativa delle
dinamiche demografiche in atto debba portare ad accettare che la crescita della
popolazione umana a 11 miliardi attorno alla data convenzionale del 2050 sia
ormai cosa fatta (salvo tragedie che nessuno vuole invocare al fine di
alleggerire questo dato). Dunque ci toccherà gestire e possibilmente non subire passivamente questo
fenomeno e, già da adesso, per esempio, bisognerebbe cominciare a chiedersi se
è il caso di proseguire oltre con questo trend dopo tale data e come fare,
eventualmente per invertire questa tendenza!
Detto in altre parole pensare che a lungo termine ci si possa
veramente poggiare su organizzazioni e modelli socio-economici che diano per
scontata e necessaria la crescita infinita di alcune variabili fondamentali
come la popolazione, la crescita economica e quella occupazionale (che non
sempre va al pari passo con la crescita economica!); o che necessitino, per
costruzione, il mantenimento di certi rapporti fra le stesse (ad esempio, un
certo rapporto fra giovani attivi e anziani assistiti) mi sembra, quantomeno, contro
intuitivo.
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