domenica 13 dicembre 2015

Decreto salvabanche: I risparmiatori hanno ragione? Parte 2

Avevo cominciato la prima parte di questo intervento chiedendomi chi dovesse sopportare il peso economico di questo dissesto e, nella mia riflessione precedente ho sostenuto che fossero gli investitori a dover sopportare il costo delle proprie scelte incaute. Questa affermazione, per me rimane ancora valida e, pertanto la ribadisco, nel contempo però è importantissimo cercare di spiegare il processo attraverso la quale queste cose succedono.

La domanda giusta da porsi è dunque la seguente: “Com’è potuto accadere?”. Com’è possibile che dopo la firma di montagne di carta straccia incomprensibile da parte dei risparmiatori, l’istituzione di autority di controllo e tutela degli stessi, l’adesione a codici etici di grande spessore morale da parte degli organi delle banche, eccetera, eccetera, alla fine si scopre che tutto ciò non riesce mai a risultare né sufficiente né utile per tutelare effettivamente i soggetti che farebbero volentieri a meno di correre rischi finanziari? Il sospetto che viene è che in realtà, nella sostanza, non si voglia veramente intervenire in questa direzione anche perché, lavorare seriamente verso questo obiettivo, non solo ridurrebbe la redditività dell’attività di intermediazione, ma farebbe venire meno uno dei ruoli dichiarati della stessa, ovvero l’obiettivo di trasferire e distribuire certi tipi di rischi!
Torniamo però al nostro caso! Mano a mano che sui quotidiani vengono pubblicate le informazioni che riguardano la prima applicazione del “Salva banche” ecco che si delinea il solito quadro dei “furbetti del quartierino” e la tragedia (che è tale, visto che, oltre al danno economico, c’è anche scappato il morto!) si muta nella solita farsa all’italiana o meglio, nel solito copione nostrano. Riassumiamo i punti principali:
-          Il nostro Ente di controllo (la Banca d’Italia), anche di fronte ad una serie di norme europee vincolanti, impone l’emissione di nuova liquidità allo scopo di rafforzare gli indici patrimoniali degli istituti e per far fronte alla grave situazione di dissesto. che incombe sugli stessi.

-          A questo scopo, gli istituti emettono strumenti ad alto rischio: azioni e obbligazioni subordinate, adeguandosi alle disposizioni del “controller”.

-          Questi titoli, al posto di essere collocati presso investitori istituzionali vengono “spacciati” (è proprio il caso di dirlo) a gente sostanzialmente ignara attraverso una politica “commerciale” avallata dai vertici presso la rete attraverso la solita ricetta di minacce ed incentivi nei confronti dei collocatori.

-          Post operazione, salta fuori la leggina “Salva vertici”, la rete viene in parte abbandonata a se stessa e/o sacrificata di fronte al popolo in tumulto e i risparmiatori rimangono con il cerino in mano.

-          Dopo un po’ di clamore popolare, l’” Uomo del destino” del momento (toccherà a Renzi la parte?), accoglie i postulanti rappresentanti del popolo dei truffati e arrangia un po’ le cose. Alla peggio pagheranno i contribuenti!

Cerchiamo però di entrare un po’ più nel meccanismo esaminando più da vicino i singoli punti.
La Banca d’Italia effettua i suoi controlli e, giustamente, deve anche adeguarsi alle norme europee che, tra le altre cose, si occupano di garantire il sistema contro il dissesto degli istituzioni di credito (ci ricordiamo dell’ultima crisi legata ai mutui sub-prime?). Da anni l’Unione Europea e gli organi di controllo lavorano su norme e indicatori di solidità patrimoniali che dovrebbero limitare il rischio di dissenso bancario. Fin qui tutto bene! Quello che però non si riesce mai a capire bene è il “perché” la Banca d’Italia, una volta che siano state scoperti seri indizi di dissesto e di sbilancio patrimoniale non possa/voglia incidere di più promuovendo anche la messa in atto di processi più tempestivi nella messa sotto tutela di quelle istituzioni che danno segnali di preoccupazione e, in particolare, non si comprende bene perché in queste situazioni non si promuova fin da subito una politica più incisiva di risanamento diretta dall’alto e, tra l’altro finalizzata anche ad ottenere un serio e tempestivo ricambio di quei vertici aziendali che, avendo prodotto  tale situazioni negative, si sono chiaramente dimostrati non confacenti all’incarico. Ci sarà forse qualche remora che impedisce di agire tempestivamente contro soggetti che, non raramente, sono titolari di posti e rendite di posizione tipicamente allocati a lobbisti e attaché della politica? Il sospetto è legittimo …
Ma passiamo al punto successivo! Come abbiamo visto il processo di rifinanziamento passa di solito attraverso l’iniezione di nuovi capitali di rischio raccolti sotto varia forma. Nel nostro caso si è trattato soprattutto di azioni e obbligazioni subordinate. Questi, sono strumenti tipicamente speculativi e dovrebbero essere collocati solo presso investitori istituzionali e/o accorti e informati. Chiaramente, queste categorie di investitori si tengono ben distanti in questi casi da questo genere di impegni a meno che: il rendimento garantito sia “notevolmente alto” e quindi compensativo di un rischio altrettanto marcato e/o, intendano intervenire essi stessi direttamente nella gestione, presumibilmente estromettendo i preesistenti organi di controllo. Ecco quindi che si crea un altro elemento di cortocircuito del sistema. Per ottenere nuove risorse gli istituti coinvolti, o meglio, i vertici degli stessi, dovrebbero o attirare nuovi investitori a “interessi d’usura”, oppure lasciare le proprie comode poltrone ad altri che, mettendo i soldi, vorranno anche poter prendere le decisioni! Questo vorrebbe il “mercato”, ma questo è esattamente ciò che è inviso ai nostri vertici perché i “licenziati” in questo caso sarebbero esattamente loro!
Qual è la via di uscita quindi?
La “via di mezzo”, ovviamente, cioè quella di collocare “spazzatura” rischiosa ma a tassi accettabili per la banca (solo un po’ migliori di quelli ottenibili su attività prive di altrettanto rischio!) a investitori ignari del vero pericolo che stanno correndo.
E, qual è il modo attraverso il quale si riesce a fare ciò?
 Il solito modo, cioè applicare solo la “forma” delle leggi evitando, con la complicità di tutti (i potenti) di applicarle anche nella “sostanza”.
Ecco quindi che all’investitore viene fatta firmare un profilo di rischio complicato e incomprensibile e, quando serve, ecco che si usa la rete commerciale per irretire il cliente e costringerlo a modificare le posizioni più prudenziali. Tutto nel nome della “libertà” di scelta dell’investitore (che quando fa comodo si suppone laureato in economia!). Ma tutto ciò non basta!
 Cosa dovrebbe fare l’autority e non fa (almeno con chiarezza)?

 Essa dovrebbe classificare chiaramente i prodotti bancari in funzione del rischio costringendo le banche a fornire come prima cosa un documento molto sintetico (una pagina) in cui si metta in estrema evidenza il rischio per l’investitore. Immagino che, per esempio che, se per ogni forma d’investimento dovessimo firmare un foglio che presenta in bell’evidenza un grosso cerchio “rosso”, “giallo” o “verde” e portasse una grossa dicitura sulla sfondo con le parole “Alto rischio”, “Rischioso”, “Rischio limitato”, forse entreremmo un po’ più nello spirito dell’informativa che un “non addetto ai lavori” dovrebbe ricevere. Dopo di ciò, l’investitore dovrebbe ricevere l’intero regolamento del titolo e dovrebbe essere obbligatoriamente rispedito a casa a leggerselo! Se dopo un’opportuna meditazione già non lo capisce, evidentemente non si tratta di qualcosa che va bene per lui.
Riamane comunque il fatto, in ogni caso, certi tipi di prodotto non potrebbero essere presentati a soggetti che dichiarano un profilo “prudenziale”; sono gli stessi clienti, infatti che dovrebbero presentare istanza per il cambiamento del loro profilo di rischio e non viceversa. Solo dopo di ciò, si dovrebbe poter proporre loro prodotti strutturati sulla base del nuovo profilo. Tra l’altro, anche solo il sottomettere all’attenzione dei clienti strumenti non idonei dovrebbe essere considerato sanzionabile. Infine, forse si dovrebbe distinguere chiaramente la figura del consulente e quella del collocatore. Il primo avrebbe l’obiettivo di capire le esigenze del cliente e consigliarlo e, ove serve, anche scoraggiarlo fortemente ad effettuare avventure finanziarie di dubbio esito. Questi dovrebbe, in sostanza essere il “tutore” del proprio cliente. Il secondo, invece, si incarica di promuovere la vendita di prodotti che possano essere posti in relazione con le esigenze dell’investitore, ma dovrebbe, in primo luogo, superare le obiezioni del tutore, prima che quelle del cliente stesso (che diciamolo, spesso non è in grado di capire di cosa si sta parlando!).
Fatto tutto questo, si vedrebbe chiaramente quello che gli “addetti” sanno già, cioè, che la maggior parte dei prodotti bancari, soprattutto quelli che comportano i maggiori margini per le banche sarebbero per lo più invendibili per la fascia della clientela “retail” che si qualifichi anche come “prudente”. Non parlo solo degli strumenti finanziari che hanno dato scandalo in questi giorni (azioni e obbligazioni), ma anche di tutti gli altri prodotti assicurativi e previdenziali che, continuamente vengono normalmente proposti dalla rete (es. Unit linked, index linked, fondi pensione, fondi e Sicav, ecc.). Tutto finito!
Visto così è chiaro dunque il “perché” succedono queste cose. In altre parole è quasi impossibile mantenere l’enfasi sulla parola “tutela” e nel contempo, sperare anche di “far soldi” o spesso, persino, di rimanere entro un canale di “margini” accettabili e, di conseguenza, tutti fanno finta di non vedere e tirano avanti come sempre, sennò il sistema si inceppa!

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