“Se questo è un uomo”, di Primo Levi,
edizioni Biblioteca di Repubblica, ISBN 84-8130-458-1.
L’Autore, attraverso una nota opera
autobiografica racconta la propria esperienza di internato ebreo nel lager
nazista di Auschwitz.
Questo libro, giustamente assurto alla
fama di capolavoro, non ha bisogno di ulteriori commenti, né è necessario ricordare
le atrocità compiute in quel campo di sterminio per immedesimarsi nelle
traversie patite dall’Autore.
Una cosa però forse vale la pena di
rimarcarla; questa è la seconda volta che leggo questo libro. Mi era stato
propinato come lettura obbligatoria a scuola e, come tale, non mi aveva
lasciato né ricordi, né impressioni; anzi, il suo messaggio centrale mi era in
qualche modo sfuggito, diluito nel fiume delle immagini e delle situazioni
drammatiche, ma soprattutto, perché filtrato attraverso una chiave di lettura che
enfatizzava le particolarità del momento storico e stendeva un velo di retorica
buonista e di facile dietrologia relativamente ai fatti narrati.
Invece, il vero messaggio dell’Autore, forte
e agghiacciante, a mio avviso, emerge chiaramente nella sua opera e, nel caso
uno avesse ancora il dubbio, esso viene esplicitato dallo stesso nel capitolo
dei “I sommersi e i salvati”. In esso si spiega come si potevano identificare
fin da subito i prigionieri che avrebbero avuto qualche chance di sopravvivenza
rispetto a quelli che sicuramente avrebbero finito per soccombere. Ebbene, in
questi “vincenti”, veri campioni di natura darwinista non c’è nessuna
caratteristica che una società “normale” e, supposta “civile” classificherebbe
come “positiva”, anzi, essi appaiono quasi l’antitesi dei nostri modelli morali
… eppure, essi si salvano! Mentre gli altri, quelli che ancora si illudono che
abbia senso seguire le regole (quelle del campo soprattutto, che assurdità!),
che si affidano alla fede in Dio o nel prossimo … soccombono, perché in un
mondo di risorse limitate i pochi si sorreggono necessariamente solo a danno
dei tanti.
Terribile lezione questa che toglie ogni
illusione riguardo alla reale tenuta e valore di tutto ciò che noi
riteniamo elevato: la morale, la religione, la solidarietà, la certezza della
bontà di fondo della natura umana, l’ordine sociale e ogni altro concetto che sia
al di fuori della nostra mera e pura capacità di sopravvivere da soli e,
spesso, a danno di altri.
In conclusione, per chi è passato
attraverso esperienze come quella dell’Autore, le nostre società e le normali
convenzioni sociali devono apparire come sottili veli di illusione pronti a
lacerarsi di fronte a delle serie minacce che minino la possibilità di
sopravvivenza dei singoli; in tali situazioni, tutto il castello delle nostre certezze
cade per lasciare spazio al solo istinto di sopravvivenza e di sopraffazione.
Cosa ci può essere di peggio rispetto all'avere acquisito una tale consapevolezza?
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