“Non luogo a procedere”,
di Claudio Magris, edizioni Garzanti, ISBN: 978-88-11-68917-1.
Libro che reputo vicino ai confini dell’” illeggibile” e che ho
rischiato di interrompere più di una volta. Evidentemente non mi è piaciuto lo
stile dell’Autore che potrei definire: psichedelico, allucinato, delirante, frenetico
e, comunque, disordinato. Forse Magris voleva scrivere troppe cose, infatti, ad
ogni riga emergono notizie e riferimenti curiosi che, però, finiscono per
stordire e far perdere il filo di una storia che, per inciso, non c’è! Ho trovato strabordante la necessità dell’Autore di mettere in mostra troppi
concetti e troppa conoscenza al costo di mantenersi distante da una trama che,
a mio avviso si perde, o meglio, si profila come una semplice scusa per parlare
d’altro. Sicuramente, egli riesce in più parti a descrivere la brutalità e la
follia della guerra ma, per il resto, il romanzo è solo un caleidoscopio di
immagini slegate
mercoledì 30 dicembre 2015
lunedì 21 dicembre 2015
Recensione: L’invisibile ovunque
“L’invisibile ovunque”, di
Wu Ming, edizioni Einaudi, ISBN: 978-88-0622591-9.
Più che un romanzo
completo, si tratta di quattro racconti incentrati sulla Grande Guerra. I primi
due, a mio avviso completamente slegati dal resto, gli ultimi due collegati da
un filo conduttore che è l’arte, in particolare, la pittura surrealista.
Viste le aspettative che
ho verso questo collettivo di autori, considero “L’invisibile ovunque” al di sotto
degli standard ai quali questi scrittori mi hanno ormai abituato, questo però
non vuol dire che esso manchi d’interesse, semplicemente, forse, non è sempre
possibile produrre capolavori, ogni tanto, viene fuori “solo” qualcosa di
godibile ma non di eccezionale.
C’è da aggiungere comunque
che Wu Ming qualcosa finisce sempre per regalarlo ai suoi lettori, e non c’è
volta che io non sia stato costretto a fare qualche breve ricerca per appagare
la curiosità che suscitano le loro idee e i loro protagonisti. Per me, quest’aspetto
è l’unica caratteristica che salva questa raccolta da un giudizio più impietoso
e riguarda il caso del terzo e quarto racconto che, fanno emergere alcuni personaggi
storici, aspetti ed eventi della prima guerra mondiale veramente impensabili dando
a quest’opera un taglio originale e un punto di vista sul conflitto assai
inconsueto. Nello specifico, si finisce per portare alla luce un insospettabile
quanto stranissimo rapporto fra il filone artistico del surrealismo e l’arte
del mimetismo e del camuffamento. Chi l’avrebbe mai detto! Eppure sembra tutto
vero o, almeno, plausibile.
Già solo per seguire questa
traccia, dunque, potrebbe valere la pena di leggersi questa breve raccolta che,
comunque, non annoia e si divora in un attimo.
domenica 13 dicembre 2015
Decreto salvabanche: I risparmiatori hanno ragione? Parte 2
Avevo cominciato la prima parte
di questo intervento chiedendomi chi dovesse sopportare il peso economico di
questo dissesto e, nella mia riflessione precedente ho sostenuto che fossero
gli investitori a dover sopportare il costo delle proprie scelte incaute. Questa
affermazione, per me rimane ancora valida e, pertanto la ribadisco, nel
contempo però è importantissimo cercare di spiegare il processo attraverso la
quale queste cose succedono.
La domanda giusta da porsi è
dunque la seguente: “Com’è potuto accadere?”. Com’è possibile che dopo la firma
di montagne di carta straccia incomprensibile da parte dei risparmiatori, l’istituzione
di autority di controllo e tutela degli stessi, l’adesione a codici etici di grande
spessore morale da parte degli organi delle banche, eccetera, eccetera, alla
fine si scopre che tutto ciò non riesce mai a risultare né sufficiente né utile
per tutelare effettivamente i soggetti che farebbero volentieri a meno di
correre rischi finanziari? Il sospetto che viene è che in realtà, nella sostanza,
non si voglia veramente intervenire in questa direzione anche perché, lavorare
seriamente verso questo obiettivo, non solo ridurrebbe la
redditività dell’attività di intermediazione, ma farebbe venire meno uno dei
ruoli dichiarati della stessa, ovvero l’obiettivo di trasferire e distribuire
certi tipi di rischi!
Torniamo però al nostro caso! Mano
a mano che sui quotidiani vengono pubblicate le informazioni che riguardano la
prima applicazione del “Salva banche” ecco che si delinea il solito quadro dei “furbetti
del quartierino” e la tragedia (che è tale, visto che, oltre al danno
economico, c’è anche scappato il morto!) si muta nella solita farsa all’italiana
o meglio, nel solito copione nostrano. Riassumiamo i punti principali:
-
Il nostro Ente di controllo (la Banca d’Italia),
anche di fronte ad una serie di norme europee vincolanti, impone l’emissione di
nuova liquidità allo scopo di rafforzare gli indici patrimoniali degli istituti e per far fronte alla grave situazione di dissesto. che incombe
sugli stessi.
-
A questo scopo, gli istituti emettono strumenti
ad alto rischio: azioni e obbligazioni subordinate, adeguandosi alle
disposizioni del “controller”.
-
Questi titoli, al posto di essere collocati
presso investitori istituzionali vengono “spacciati” (è proprio il caso di
dirlo) a gente sostanzialmente ignara attraverso una politica “commerciale”
avallata dai vertici presso la rete attraverso la solita ricetta di minacce ed
incentivi nei confronti dei collocatori.
-
Post operazione, salta fuori la leggina “Salva
vertici”, la rete viene in parte abbandonata a se stessa e/o sacrificata di
fronte al popolo in tumulto e i risparmiatori rimangono con il cerino in mano.
-
Dopo un po’ di clamore popolare, l’” Uomo del
destino” del momento (toccherà a Renzi la parte?), accoglie i postulanti
rappresentanti del popolo dei truffati e arrangia un po’ le cose. Alla peggio
pagheranno i contribuenti!
Cerchiamo però di entrare un po’
più nel meccanismo esaminando più da vicino i singoli punti.
La Banca d’Italia effettua i suoi
controlli e, giustamente, deve anche adeguarsi alle norme europee che, tra le
altre cose, si occupano di garantire il sistema contro il dissesto degli
istituzioni di credito (ci ricordiamo dell’ultima crisi legata ai mutui sub-prime?).
Da anni l’Unione Europea e gli organi di controllo lavorano su norme e
indicatori di solidità patrimoniali che dovrebbero limitare il rischio di
dissenso bancario. Fin qui tutto bene! Quello che però non si riesce mai a
capire bene è il “perché” la Banca d’Italia, una volta che siano state scoperti
seri indizi di dissesto e di sbilancio patrimoniale non possa/voglia incidere
di più promuovendo anche la messa in atto di processi più tempestivi nella
messa sotto tutela di quelle istituzioni che danno segnali di preoccupazione e,
in particolare, non si comprende bene perché in queste situazioni non si promuova
fin da subito una politica più incisiva di risanamento diretta dall’alto e, tra
l’altro finalizzata anche ad ottenere un serio e tempestivo ricambio di quei
vertici aziendali che, avendo prodotto tale
situazioni negative, si sono chiaramente dimostrati non confacenti all’incarico.
Ci sarà forse qualche remora che impedisce di agire tempestivamente contro soggetti
che, non raramente, sono titolari di posti e rendite di posizione tipicamente
allocati a lobbisti e attaché della politica? Il sospetto è legittimo …
Ma passiamo al punto successivo!
Come abbiamo visto il processo di rifinanziamento passa di solito attraverso l’iniezione
di nuovi capitali di rischio raccolti sotto varia forma. Nel nostro caso si è
trattato soprattutto di azioni e obbligazioni subordinate. Questi, sono
strumenti tipicamente speculativi e dovrebbero essere collocati solo presso
investitori istituzionali e/o accorti e informati. Chiaramente, queste
categorie di investitori si tengono ben distanti in questi casi da questo genere
di impegni a meno che: il rendimento garantito sia “notevolmente alto” e quindi
compensativo di un rischio altrettanto marcato e/o, intendano intervenire essi
stessi direttamente nella gestione, presumibilmente estromettendo i
preesistenti organi di controllo. Ecco quindi che si crea un altro elemento di
cortocircuito del sistema. Per ottenere nuove risorse gli istituti coinvolti, o
meglio, i vertici degli stessi, dovrebbero o attirare nuovi investitori a “interessi
d’usura”, oppure lasciare le proprie comode poltrone ad altri che, mettendo i
soldi, vorranno anche poter prendere le decisioni! Questo vorrebbe il “mercato”,
ma questo è esattamente ciò che è inviso ai nostri vertici perché i “licenziati”
in questo caso sarebbero esattamente loro!
Qual è la via di uscita quindi?
La “via di mezzo”, ovviamente,
cioè quella di collocare “spazzatura” rischiosa ma a tassi accettabili per la
banca (solo un po’ migliori di quelli ottenibili su attività prive di
altrettanto rischio!) a investitori ignari del vero pericolo che stanno
correndo.
E, qual è il modo attraverso il
quale si riesce a fare ciò?
Il solito modo, cioè applicare solo la “forma”
delle leggi evitando, con la complicità di tutti (i potenti) di applicarle
anche nella “sostanza”.
Ecco quindi che all’investitore
viene fatta firmare un profilo di rischio complicato e incomprensibile e,
quando serve, ecco che si usa la rete commerciale per irretire il cliente e
costringerlo a modificare le posizioni più prudenziali. Tutto nel nome della “libertà”
di scelta dell’investitore (che quando fa comodo si suppone laureato in
economia!). Ma tutto ciò non basta!
Cosa dovrebbe fare l’autority e non fa (almeno
con chiarezza)?
Essa dovrebbe classificare chiaramente i prodotti bancari in funzione del rischio costringendo le banche a fornire come prima cosa un documento molto sintetico (una pagina) in cui si metta in estrema evidenza il rischio per l’investitore. Immagino che, per esempio che, se per ogni forma d’investimento dovessimo firmare un foglio che presenta in bell’evidenza un grosso cerchio “rosso”, “giallo” o “verde” e portasse una grossa dicitura sulla sfondo con le parole “Alto rischio”, “Rischioso”, “Rischio limitato”, forse entreremmo un po’ più nello spirito dell’informativa che un “non addetto ai lavori” dovrebbe ricevere. Dopo di ciò, l’investitore dovrebbe ricevere l’intero regolamento del titolo e dovrebbe essere obbligatoriamente rispedito a casa a leggerselo! Se dopo un’opportuna meditazione già non lo capisce, evidentemente non si tratta di qualcosa che va bene per lui.
Essa dovrebbe classificare chiaramente i prodotti bancari in funzione del rischio costringendo le banche a fornire come prima cosa un documento molto sintetico (una pagina) in cui si metta in estrema evidenza il rischio per l’investitore. Immagino che, per esempio che, se per ogni forma d’investimento dovessimo firmare un foglio che presenta in bell’evidenza un grosso cerchio “rosso”, “giallo” o “verde” e portasse una grossa dicitura sulla sfondo con le parole “Alto rischio”, “Rischioso”, “Rischio limitato”, forse entreremmo un po’ più nello spirito dell’informativa che un “non addetto ai lavori” dovrebbe ricevere. Dopo di ciò, l’investitore dovrebbe ricevere l’intero regolamento del titolo e dovrebbe essere obbligatoriamente rispedito a casa a leggerselo! Se dopo un’opportuna meditazione già non lo capisce, evidentemente non si tratta di qualcosa che va bene per lui.
Riamane comunque il fatto, in
ogni caso, certi tipi di prodotto non potrebbero essere presentati a soggetti
che dichiarano un profilo “prudenziale”; sono gli stessi clienti, infatti che
dovrebbero presentare istanza per il cambiamento del loro profilo di rischio e non
viceversa. Solo dopo di ciò, si dovrebbe poter proporre loro prodotti
strutturati sulla base del nuovo profilo. Tra l’altro, anche solo il sottomettere
all’attenzione dei clienti strumenti non idonei dovrebbe essere considerato
sanzionabile. Infine, forse si dovrebbe distinguere chiaramente la figura del
consulente e quella del collocatore. Il primo avrebbe l’obiettivo di capire le
esigenze del cliente e consigliarlo e, ove serve, anche scoraggiarlo fortemente
ad effettuare avventure finanziarie di dubbio esito. Questi dovrebbe, in
sostanza essere il “tutore” del proprio cliente. Il secondo, invece, si
incarica di promuovere la vendita di prodotti che possano essere posti in
relazione con le esigenze dell’investitore, ma dovrebbe, in primo luogo,
superare le obiezioni del tutore, prima che quelle del cliente stesso (che
diciamolo, spesso non è in grado di capire di cosa si sta parlando!).
Fatto tutto questo, si vedrebbe
chiaramente quello che gli “addetti” sanno già, cioè, che la maggior parte dei
prodotti bancari, soprattutto quelli che comportano i maggiori margini per le banche
sarebbero per lo più invendibili per la fascia della clientela “retail” che si
qualifichi anche come “prudente”. Non parlo solo degli strumenti finanziari che
hanno dato scandalo in questi giorni (azioni e obbligazioni), ma anche di tutti
gli altri prodotti assicurativi e previdenziali che, continuamente vengono normalmente
proposti dalla rete (es. Unit linked, index linked, fondi pensione, fondi e
Sicav, ecc.). Tutto finito!
Visto così è chiaro dunque il “perché”
succedono queste cose. In altre parole è quasi impossibile mantenere l’enfasi
sulla parola “tutela” e nel contempo, sperare anche di “far soldi” o spesso,
persino, di rimanere entro un canale di “margini” accettabili e, di
conseguenza, tutti fanno finta di non vedere e tirano avanti come sempre, sennò
il sistema si inceppa!
giovedì 10 dicembre 2015
Decreto salvabanche: I risparmiatori hanno ragione? Parte 1
Il decreto “Salva banche”, recentemente
applicato nei casi di dissesto della Banca dell’Etruria, Banca Marche, Carife e
CariChieti, ha scatenato l’ira dei risparmiatori.
Ora, a parer mio, anche tenendo
presente la rabbia legittima di chi è stato truffato dal proprio istituto di
credito di fiducia, bisognerebbe fare le dovute distinzioni rispetto alle
ragioni e all’opportunità di applicazione di tale decreto e, soprattutto, si potrebbe prendere in considerazione (eventualmente anche in sede europea) l'opportunità per procedere ad alcune modifiche dei principi che stanno alla base dello stesso.
Innanzi tutto, per entrare nel
merito bisognerebbe distinguere fra due tipi di casistiche che, a parer mio,
sono molto diverse fra loro:
-
I soggetti che hanno perso i risparmi in quanto
titolari di azioni e obbligazioni degli istituti oggetto della procedura concorsuale.
-
I soggetti che hanno perduto la quota eccedente
dei loro saldo di conto corrente rispetto a quanto coperto dal fondo di
garanzia, attualmente fissato a 100.000 euro.
Anche se a prima vista questa può
sembrare una posizione “dura”, personalmente, penso che la prima categoria di
soggetti non debba venire tutelata. Questo anche in quei casi dove, purtroppo,
gli istituti abbiano abusato della fiducia dei loro risparmiatori.
Forse il mio
parere potrebbe apparire un po’ spietato ma, ricordo a tutti, che i prodotti
finanziari sono prodotti speculativi, si viene remunerati anche in virtù dei
rischi che si corrono e, pertanto, l’ignoranza non può essere portata a
giustificazione dei propri errori d’investimento. In ogni caso, non si può
pensare e sperare che sia la collettività a dover far fronte ai propri
personali ammanchi.
Semmai, forse si potrebbe
intervenire in maniera più radicale riguardo alla stesura dei profili di
rischio dei risparmiatori, ad esempio, ai titolari di un profilo “basso”, certi
prodotti non dovrebbero nemmeno essere presentati e, nel caso in cui questi
vengano effettivamente collocati, allora sì, dovrebbe scattare qualche forma di
assicurazione o garanzia a favore dell’investitore ignaro, ma nel contempo
dovrebbe anche partire un’azione penale nei confronti del soggetto (parlo
proprio dell’addetto bancario, non dell’istituto) che ha incautamente e forse
fraudolentemente proposto e collocato strumenti non adatti al profilo di
rischio dell’investitore. Insomma, se non si individuano correttamente le
responsabilità e i soggetti di queste azioni a che cosa serve firmare tutte
quelle scartoffie che ci propinano periodicamente gli istituti di credito?
Comunque, ribadisco il concetto,
in quei casi nei quali l’investimento corrispondeva al profilo di rischio dell’investitore,
nulla dovrebbe essere dovuto ne garantito. Queste sono le regole del gioco e se
non si vuole fronteggiare la possibilità di una perdita si deve anche evitare
di correre il corrispondente rischio.
Giudizio diverso per il secondo
tipo di risparmiatori, per me andrebbero tutelati, anzi dico di più, secondo me
bisognerebbe estendere significativamente le garanzie a favore di chi tiene i
soldi sul conto corrente proprio al fine di evitare i rischi e, per esempio,
sarei chiaro nel ricomprendere in queste casistiche anche gli investimenti
finanziari che sono comunque di liquidità (es. i depositi a termine).
Per certi versi, mi rendo conto
che il mio approccio potrebbe essere visto come paradossale, in fondo esiste
già una garanzia notevole per questi soggetti (100.000 euro) e, di conseguenza,
sembrerebbe che l’intenzione sia quella di tutelare chi è già ricco persino di
più di quanto lo sia già! Penso però che non sia corretto vedere le cose in
questo modo un po’ “populista”. La ratio sulla quale si basa il mio approccio
benevolo verso i “correntisti” (come concetto esteso ai detentori di
investimenti assimilabili alle posizioni di conto corrente) poggia sul fatto
che l’investimento in liquidità non può certo qualificarsi come un investimento
“rischioso”, anzi, è estremamente evidente l’intento dell’investitore di
evitare i rischi.
Tra l’altro, chi non ha paura di
nascondere la sua liquidità, magari ingente, difficilmente ha pendenze e “scheletri
nell’armadio” nei confronti del fisco o di eventuali creditori, né,
tendenzialmente è interessato a truffare gli enti attraverso dichiarazioni ISEE
mendaci. In pratica, un alto saldo di conto corrente, può anche essere visto
come un indice, seppur rozzo, della “trasparenza” di un certo soggetto e, come
tale, questa forma d’impiego andrebbe incentivata rispetto ad altre più “furtive”
e sospette (es. oro, brillanti, titoli al portatore, rapporti di gestione
aperti presso fiduciarie, ecc.).
A tutto ciò ci sono poi da
aggiungere alcune considerazioni di ordine più pratico. La prima è
semplicissima, i soldi, se si ha la fortuna di averli, da qualche parte bisogna
pur metterli! E allora che si fa se si possiede più di 100.000 euro e li si
vuole tenere liquidi? Si apre un c/c presso un altro istituto? Questa sarebbe l’unica
soluzione prospettata attualmente perché garantirebbe anche su questi nuovi
depositi l’estensione della garanzia; tale approccio però ha il difetto di
essere poco pratico, inutilmente costoso, nonché meno trasparente per tutti
coloro che hanno buone ragione legali per accertare l’origine e l’ammontare di
queste sostanze.
In sintesi, non capisco perché non si incentiva di più il
risparmiatore a seguire soluzioni semplici e trasparenti rimuovendo anche quei
residui elementi di rischio che non portano nessun vantaggio alla collettività.
In pratica servirebbe verificare I presupposti che regolano il fondo di garanzia che, per mio conto, dovrebbe essere innanzi tutto uno strumento per tutelare le forme di risparmio svincolandole dai destini degli istituti presso I quali esse vengono funzionalmente poste in essere, nel contempo, mantenendo un occhio di riguardo anche rispetto alle ragioni, alle forme e alle funzioni di tale risparmio. Il fondo di garanzia, invece, non ha nessuna ragione per effettuare un'opera di tutela nei confronti di chi si assume un rischio speculativo nei confronti del quale, è il singolo investitore che deve provvedere a cautelarsi.
martedì 10 novembre 2015
CINQUANTA!
Oggi compio cinquant’anni e mi sento
in dovere di venire incontro a quelli che soffrono gli anniversari decennali.
Normalmente è una sindrome che comincia intorno ai quarant’anni, ma alcuni
percepiscono già come fastidiosa la soglia dei trenta. Anche se tutto ciò è
vagamente illogico perché è indubbiamente evidente che si invecchia giorno per
giorno e non a scaglioni, da un punto di vista meramente simbolico, mi sento di
dare ragione a chi comincia a preoccuparsi per l’approssimarsi dei fatidici “enta”,
mentre ritengo meno giustificato tanto pessimismo per coloro che caracollano in
mezzo alle prime decine degli “anta”; da quelle vette, infatti, se sei stato anche solo un po’ fortunato e/o
accorto, il paesaggio, almeno per un po’ tende a migliorare.
Provo a spiegarmi meglio …
Mi ricordo il periodo fra i
trenta e i quaranta come uno dei più faticosi della mia esistenza. Per il mondo
sei definitivamente “grande”, non hai più scuse. Questa qualifica infamante di
norma presuppone una serie quasi infinita di fregature e, di conseguenza, da te
ci si aspetta impegno a trecentosessanta gradi (o forse a novanta?): devi
essere compagno responsabile e assennato (questa parte, in effetti non mi è
pesata per nulla J, per
adesso, infatti sono stato molto fortunato … di questo devo ringraziare la
sorte ed anche, ovviamente, la mia compagna), spesso, padre presente e
amorevole, ma soprattutto, gran lavoratore. Quest’ultima è ovviamente la parte
peggiore! Lavorare, si sa, continua a rimanere più che altro una spiacevole
necessità per la maggior parte degli uomini. Non avere un lavoro è tragico e
averlo, persino quando si è tanto fortunati da svolgere un’attività che non sia
sottopagata e/o precaria, risolve solo parzialmente i problemi e si traduce spesso
in un’attività, almeno in parte priva di senso, tediosa, frustrante, stressante,
formale e non avulsa da aspetti darwinisti fondati, però, su regole che si sono
allontanate troppo da quelle di natura per essere istintivamente
completamente comprensibili (per esempio, non puoi uccidere nessuno, e questo è
spesso male; però, normalmente non si viene mangiati dalle tigri quando si fa un
errore! E questo è pur sempre un vantaggio J).
A peggiorare le cose c’è poi il problema che la nostra società mira a produrre
studenti eterni fino alla soglia dei trent’anni, centometristi della carriera
fra i trenta e i quaranta (a trentacinque sei già potenzialmente un mezzo
fallito!) e “trombati” dai trentasette in su! Un ciclo di vita un tantino
distorto, tenendo presente che (è questa sì che è una tragedia per noi cinquantenni
con un sacco di idee, interessi e cose da fare), dovremo probabilmente
continuare a lavorare fino a 99 anni senza avere una reale speranza di andare
in pensione e voltare definitivamente le spalle ad un mondo (quello del lavoro)
generalmente votato all’insensatezza. Diciamolo, non era male quando, proprio
intorno ai “cinquanta” potevi cominciare a fare il conto alla rovescia e fantasticare
sui progetti riguardo a come avresti investito il TFR che, per inciso, quando
sarà venuto per noi il momento di incassarlo, ci sarà stato sicuramente scippato
da qualche brillante riforma pensionistica.
Tutto finito! E ci tocca accettare
le cose come stanno!
Rispetto alla "ruota del criceto" dei "trenta", Il panorama dai “quaranta” in
poi, tende invece a rischiararsi e, se sei stato fortunato e, diciamolo, se
anche ti sei “sbattuto” un po’ (perché le cose raramente vanno a posto da
sole), a “cinquanta” rischi persino di incontrare un clima come quello che
trovo in questi splendidi giorni di novembre (invero, un po’ aiutati dal surriscaldamento
climatico!); un periodo magico della vita indubbiamente fugace, ma brillante,
calmo e piacevole come una bella “estate di San Martino” …
Innegabilmente è
autunno, ma non è ancora inverno!
Volente o nolente scopri che sei
quasi fuori delle mischia, forse hai perso qualche pezzo navigando i
proverbiali sette mari, ma se va bene, se hai ancora un pizzico di fortuna (o
almeno, non “sfiga”) puoi limitarti a osservare ogni vicenda un po' più da lontano e solo perché non
è ancora il momento e non ti puoi ancora permettere di lasciare andare le cose,
purtuttavia, non sei più nell’occhio del ciclone. Il tuo mondo lo controlli
bene, senza molto sforzo (anche perché, questi “giovani” fanno poi tutta questa
paura? Hai voglia!). Ne esci come un vecchio gattone, un po’ malmenato ma
ancora pronto all'ultima zampata (ma sarà veramente l'ultima?) da mollare se c’è l’occasione e se proprio ti interessa, però
non ti senti più tenuto a partecipare a tutte le risse a prendere di slancio tutte le
trincee ..., non hai già forse fatto molto? Magari non tutto quello che volevi, ma
pazienza! Forse ci sarà ancora occasione, sennò amen! Forse hai anche più
di un rimpianto ma adesso, almeno in senso relativo, sei “più in alto” e guardi
il tuo mondo con gli occhi del rocciatore che ammira le valli sottostanti. Il
fiume nel fondo valle scorre tranquillo e argentino e, come il tempo non si
fermerà e non va fermato. Certo, verrà presto il momento di scendere in basso,
verso l’ombra e questo lo sappiamo! Speriamo che sia una bella passeggiata, ma
per adesso … godiamoci il bel paesaggio!
Carpe diem.
domenica 8 novembre 2015
Recensione: Crimea – L’ultima crociata
“Crimea – L’ultima crociata”, di Orlando Figes,
edizione Einaudi, ISBN: 978-88-06-22424-0.
La guerra di Crimea (1853-1856) fu uno dei conflitti
più importanti del diciannovesimo secolo. Fece più di 800.000 morti fra civili e
militari, produsse intensi fenomeni di pulizia etnica e di ricollocazione di intere
popolazioni (dopo di essa, ad esempio, i tartari di Crimea finirono di essere
maggioranza!) e non pochi effetti di lungo periodo sia nel contesto europeo (ad
esempio accelerando il processo dell’unità d’Italia) sia in quello asiatico e
medio-orientale (fu, di fatto, l’evento scatenante che portò al “Grande Gioco” la
strategia di mutuo contenimento che contrappose inglesi e russi in quelle aree!). Eppure si tratta di un evento oggi quasi dimenticato,
tenuto piuttosto in ombra nei testi scolastici. Raramente viene rammentato, neppure
quando episodi recenti, come è avvenuto nel caso del distacco di questa area
geografica dall’Ucraina nel 2014, trovino una loro spiegazione e un profondo
collegamento con i miti collettivi e nazionali originati da questo lontano
conflitto. Non si può capire, infatti, tanto accanimento, tanto fervore se non
si tiene conto, per esempio, di cosa significhi per la Russia il ricordo delle
gesta dell’assedio di Sebastopoli!
L’Autore ricostruisce egregiamente le cause e la
genesi del conflitto e le vaste conseguenze che seguirono la sua conclusione.
Egli, tra l’altro, propone una tesi riguardo alle origini della guerra che non
può che intrigare, stupire e scioccare quei lettori che ormai interpretano queste
tipologie di eventi soprattutto sulla base dell’esigenza della Realpolitik. Egli,
infatti, attribuisce buona parte delle responsabilità del conflitto alle
tensioni ideologiche alle esigenze di propaganda e, soprattutto, a quelle di natura
religiosa che contrapponevano i vari attori in campo.
Per certi versi, quindi, la guerra di Crimea fu l’ultima
crociata in cui fu realmente sentita in Occidente l’esigenza di esercitare il
controllo su luoghi simbolici quali Costantinopoli e i Luoghi Santi. Essa, come
le altre prima di lei, non fu solo una ragione di conflitto contro l’Islam, ma fu
anche percepita, per quanto riguarda la cristianità ortodossa, come la missione
della “terza Roma”, contro il mondo musulmano ma anche in opposizione alle
altre accezioni e interpretazioni del Cristianesimo.
Recensione: Sherlock Holmes e le trappole della logica
"Sherlock Holmes e le trappole della logica”, titolo originale: “Conned Again, Watson”, di Colin Bruce, traduzione di Luca Scarlini e Lorenzo Stefano Borgotallo, Raffaello Cortina editore, ISBN: 978-88-7078-712-2.
La traduzione del titolo in italiano risulta un po’ fuorviante perché questo bel libro è più incentrato sulle applicazioni del calcolo delle probabilità rispetto a quanto faccia effettivamente riferimento alla sola applicazione della logica deduttiva.
L’Autore si serve della famosa copia costituita da Holmes e Watson per illustrare una serie di micro enigmi fra essi concatenate, con l’intenzione di svelarci alcune applicazioni ingegnose del calcolo combinatorio, ma anche per mettere in guardia il lettore riguardo alla scorretta applicazione delle informazioni che possono derivare da un’osservazione superficiale e da una non corretta valutazione dei fattori di scala.
La morale è che il ragionamento scientifico è uno strumento potente del pensiero, ma anch’esso non è privo di insidie e la sua cattiva applicazione può portare altrettanto lontano dalla verità quanto la superstizione, l’istinto, oppure la banale ignoranza.
Leggero, scorrevole e educativo!
La traduzione del titolo in italiano risulta un po’ fuorviante perché questo bel libro è più incentrato sulle applicazioni del calcolo delle probabilità rispetto a quanto faccia effettivamente riferimento alla sola applicazione della logica deduttiva.
L’Autore si serve della famosa copia costituita da Holmes e Watson per illustrare una serie di micro enigmi fra essi concatenate, con l’intenzione di svelarci alcune applicazioni ingegnose del calcolo combinatorio, ma anche per mettere in guardia il lettore riguardo alla scorretta applicazione delle informazioni che possono derivare da un’osservazione superficiale e da una non corretta valutazione dei fattori di scala.
La morale è che il ragionamento scientifico è uno strumento potente del pensiero, ma anch’esso non è privo di insidie e la sua cattiva applicazione può portare altrettanto lontano dalla verità quanto la superstizione, l’istinto, oppure la banale ignoranza.
Leggero, scorrevole e educativo!
domenica 18 ottobre 2015
Recensione: Contro le elezioni – Perché votare non è più democratico
“Contro le elezioni – Perché votare non è più democratico”,
titolo originale: “Tegen verkiezingen”, di David Van Reybrouck, traduzione di Matilde
Pinamonti, Feltrinelli editore, ISBN: 978-88-07-17295-3.
L’istituzione politica della democrazia sta
attraversando un periodo di crisi particolarmente evidente proprio in quei
paesi nei quali essa ha avuto origine. In tutte le democrazie occidentali, da
anni crescono costantemente l’astensione al voto e la sfiducia verso politici e
partiti, mentre si diffonde la sensazione che il regime democratico non sia
sufficientemente rapido, decisionista ed efficiente per affrontare le nuove sfide che si
intravvedono per il futuro.
Questo breve saggio cerca in maniera sintetica di analizzare
le principali cause di tale crisi e propone qualche strumento correttivo
facendo innanzitutto riferimento alla storia delle istituzioni democratiche.
Interessante la tesi di fondo: la nomina di delegati attraverso un meccanismo
elettivo non è l’unico modo per affrontare il problema della rappresentanza, né
forse il migliore, né tanto meno quello che ha caratterizzato alcune rilevanti
esperienze democratiche del passato, prima fra tutte quella Ateniese. Ma quale
sarebbe invece, oltre alle forme di democrazia diretta, un’alternativa
credibile alle votazioni di candidati professionisti? La risposta dell’Autore è
semplice (anche se solo in apparenza!) quanto inattesa e sconcertante: bisogna
ricorrere a metodi d’estrazione casuale! Sistemi che, in passato erano tutt’altro
che inusuali. Questo era anche il modo che veniva impiegato per eleggere i principali
organi rappresentativi dell’antica città ellenica durante la sua età dell’oro, cioè: il Consiglio
dei cinquecento, il Tribunale del Popolo e la Magistratura, ma che venne anche
utilizzato diffusamente in altri contesti lungo tutto il medioevo e il periodo
rinascimentale.
Ancora più sorprendente, è la tesi dell’Autore che
insinua qualche dubbio rispetto ai veri obiettivi dei sistemi elettorali
settecenteschi. Egli spiega come il ricorso alle elezioni dei primi regimi repubblicani,
lungi dal doversi considerare come metodi genuinamente democratici, fossero
stati istituiti per garantire una composizione elitaria delle camere rappresentative
(di origine borghese e aristocratica) a tutto discapito dei ceti più popolari e
meno abbienti.
Di conseguenza, ecco che l’Autore cerca, da una parte di
spiegare che siamo intrappolati in un ragionamento pregiudizievole che egli
definisce “fondamentalismo elettorale” che dà per scontato il nesso necessario democrazia-elezioni,
mentre dall’altro illustra i risultati di un altro modo di procede e intendere
la democrazia, la cosiddetta “democrazia deliberativa”, che si basa sull’utilizzo
dell’estrazione casuale per sostituire e/o integrare il funzionamento degli
esistenti organismi di rappresentanza e che ha già prodotto risultati concreti
in alcuni casi tanto rilevanti quanto insospettabili.
Si tratta quindi di un saggio che, personalmente, ho
trovato molto interessante; anche se, devo comunque avvertire che, collocandomi
anch’io fra gli scontenti della politica e conoscendo già le antiche tecniche
dei “ballottaggi”, avevo già autonomamente accarezzato queste idee ed ero,
conseguentemente, un soggetto adatto ad accogliere prontamente le proposte dell’Autore.
Ho invece trovato criticabile il titolo dell’opera,
almeno per come si presenta nella versione italiana. Personalmente, ho dato fiducia
all’Autore solo sulla base di una sua opera precedente (“Congo”, Feltrinelli, ISBN: 978-88-07-49177-1), che verte su tutt’altro argomento; diversamente invece, salvo esplicite segnalazioni, difficilmente avrei
scelto un saggio con un titolo così poco accattivante.
Recensione: Les Revenants – Quando ritornano
“Les Revenants – Quando ritornano”, titolo originale:
“The Returned”, di Seth Patrick, traduzione di Gianna Lonza, Piemme editore, ISBN:
978-88-566-4784-6.
In una cittadina di montagna, dominata da una grande
diga, il bacino si svuota lentamente senza che si riesca a determinare le cause
del deflusso dell’acqua. L’abbassamento del livello comincia a fare riemergere
l’antico abitato sommerso che giace in fondo all’invaso e con esso ricominciano
a circolare vecchie storie e antiche leggende. Fatto ancora più eccezionale, i
morti ritornano! Non tutti, non tanti, solo alcuni, alla spicciolata e senza
una logica e una ragione apparente. Non si tratta però dei “soliti” ritornanti
della letteratura horror, tenebrosi spettri vendicativi o zombi marcescenti, ma
di persone “normali” che si ripresentano a casa come niente fosse, immemori
della propria sorte e della causa che ha prodotto la loro prematura dipartita.
Essi ritornano esattamente, con la medesima età apparente, con i medesimi abiti
e fattezze con i quali sono stati interrati, magari molti anni prima; sono
molto affamati (ma mangiano cibo “normale” J) e non riescono a dormire, ma per
il resto non differiscono da ciò che erano in vita.
Comprensibile lo shock reciproco e il miscuglio di
sentimenti che tocca sia i vivi sia i redivivi; i primi, magari dopo anni di
crisi e elaborazione del lutto, si ritrovano improvvisamente davanti i loro
cari non-più-estinti, per i quali, hanno intensamente pregato e desiderato il
ritorno, ma intanto la loro vita è andata avanti ed è cambiata senza di loro;
mentre i secondi, sono costretti a prendere coscienza della propria morte e dei
mutamenti che sono ormai avvenuti in seno alle proprie famiglie di allora, ai
propri parenti o ai propri partner e dello scompiglio che crea la loro rivenuta.
Tutti poi sono costretti a riflettere sul mistero che avvolge le ragioni di
questo inspiegabile ritorno; perché sono tornati solo alcuni e non tutti? Qual
è la causa e lo scopo di tutto ciò? Si stanno forse realizzando le antiche
profezie bibliche annunciate nell’Apocalisse? … e nel frattempo si diffondono
episodi inquietanti che lasciano intendere come questa innaturale coabitazione
possa anche essere pericolosa!
Mi ero informato riguardo a questa idea narrativa
quando avevo incontrato i riferimenti alla storia nel romanzo di Emmanuel
Carrère “Il Regno” (Adelphi, ISBN: 978-88-459-2954-0) dove, un breve commento
autobiografico dell’Autore spiegava che aveva curato la sceneggiatura di quella
che sarebbe diventata una serie tv di grande successo in Francia; ma allora,
non era ancora uscito (almeno in Italia) questo bellissimo romanzo scorrevole,
coinvolgente ed incalzante, più thriller che horror e, comunque, lontanissimo
dal genere zombie-splatter che, trovo francamente e a “pelle” un po’ ridicolo
(in realtà non ho mai letto romanzi appartenente a questo “genere”!).
L’idea alla base del romanzo è invece veramente
interessante e, oltre a garantire una trama avvincente, induce anche a qualche
riflessione profonda sul significato della vita e della morte.
giovedì 1 ottobre 2015
Recensione: Laudato Sì – Testo integrale dell’Enciclica
“Laudato Sì – Testo integrale dell’Enciclica”, di Jorge
Mario Bergoglio (Papa Francesco), Piemme Editore, ISBN: 978-88-566-4894-2.
Si tratta di un documento esplicito, semplice e
diretto che affronta alcune tematiche, la cui ricerca di soluzione diviene
sempre più urgente. L’Enciclica, scritta forse anche in prospettiva della
prossima Conferenza delle Parti della Convenzione quadro delle Nazioni Unite
sui cambiamenti climatici (UNFCCC), che si terrà a Parigi a partire dal
prossimo novembre, è incentrata sul tema della tutela dell’Ambiente.
Con tale termine deve intendersi non solo tutto ciò
che è legato alle problematiche dell’inquinamento, dei cambiamenti climatici o
all’eccesso di sfruttamento delle risorse, ma anche ciò che riguarda più
strettamente l’organizzazione, il modo di vivere, i riferimenti etici, morali e
culturali delle società umane.
In estrema sintesi, il Pontefice condanna ogni forma
di eccesso che possa riguardare l’iniquo sfruttamento di uomini e natura e,
senza mezzi termini, si schiera contro l’ipocrisia di chi mette in dubbio le
cause umane del deterioramento ambientale e dell’iniqua ripartizione delle
ricchezze e delle risorse mondiali.
Ricordando a tutti, ma soprattutto ai cristiani, l’imperativo
biblico di custodire il creato, su un piano più strettamente culturale egli sembra
aggiungersi al coro, sempre più nutrito, di soggetti che invitano alla ricerca
della “Vita Buona” intesa in senso aristotelico, cioè, attiva, responsabile,
armonica e priva, per quanto possibile di eccessi.
Dal mio punto di vista, ho trovato questa Enciclica piuttosto
interessante. Non tanto per i contenuti di ogni singolo punto che, dovrebbero
essere noti o (ri)conoscibili da tutti coloro che si sforzano di osservare le
cose con un minimo di obiettività, ma perché sembra proclamare senza ambiguità una
vera e propria scelta di campo ideologica, quantomeno, da parte del Pontefice
(non è dato sapere se dell’intera ecumene!). Difficile, infatti, non leggere
una seria condanna degli eccessi del capitalismo, della mercificazione della
ricerca scientifica, del modello consumista, delle sperequazioni nella
distribuzione della ricchezza, delle pseudo-scienze economiche che illudono la
gente riguardo alle reali possibilità di crescita infinita, dell’individualismo
e della scarsa lungimiranza nei confronti delle successive generazioni. Dall’altra
parte, ravviso dei tentativi di lasciarsi alle spalle alcuni aspetti di
tradizionalismo bigotto, in primo luogo, proprio questo sforzo, che appare
genuino, di smarcarsi dai “Potenti” di porsi in contrapposizione ad essi, dall’altra,
l’emergere di un maggior senso di tolleranza verso alcune forme di
comportamento sociale non proprio in linea con l’ortodossia, ma, soprattutto, la
manifestazione di un certo spirito modernista e progressista che lascia spazio
ed ha fiducia nella scienza “Buona” e nella tecnologia quando esse siano
applicate a beneficio di tutti per il miglioramento delle condizioni di vita e
dell’intero ambiente.
venerdì 18 settembre 2015
Recensione: Il Paese Reale – Dall’assassinio di Moro all’Italia di oggi
“Il Paese Reale – Dall’assassinio di Moro all’Italia
di oggi”, di Guido Crainz, Donzelli
Editore, ISBN: 978-88-6036-732-7.
L’Autore nell’ultimo libro di una trilogia che
comprende: “la storia del miracolo italiano” e “il paese mancato”, ripercorre
la storia italiana dalla fine degli anni settanta del novecento (Aldo Moro fu
ucciso nel maggio 1978) fino al 2012.
Personalmente, ho apprezzato molto questa
ricostruzione dei fatti, anche se, penso di poter far notare che da un punto di
vista della metodologia utilizzata ai fini della loro ricostruzione, l’Autore abbia
tenuto troppo in considerazione le citazioni dei personaggi e i titoli di
cronaca apparsi sui quotidiani a detrimento di altri tipi di documentazione
che, a rigore, potrebbero essere considerati più oggettivi. Egli però può
essere giustificato per questa scelta in quanto, in fondo, si tratta ancora di fatti
e di storia molto recente e intorno ai quali prevale ancora l’aspetto dell’inchiesta
giornalistica, non immune da un certo fervore ideologico, più che l’approccio
basato sul confronto con altre fonti e il ricorso a documentazione d’archivio.
E’ dunque difficile apparire imparziali e, a questo
proposito, anche il sottoscritto non rientra fra le eccezioni ed anche per me è
assai difficoltoso formulare un giudizio obbiettivo su questo periodo. Questa difficoltà è innanzitutto dovuta ad un
aspetto puramente anagrafico, infatti, il lasso di tempo preso in
considerazione rappresenta il paesaggio e la scenografia entro il quale ho
passato la maggior parte della mia esistenza. Ero un giovane liceale sul finire
degli anni settanta, uno dei tanti studenti universitari nella seconda metà
degli anni ottanta, giovane lavoratore nei primi anni novanta e infine neo genitore
alle soglie del nuovo millennio! Il libro di Crainz ha dunque, per molti versi,
riavvolto la bobina del film della mia vita (della quale, per fortuna, fino ad
oggi non posso lamentarmi!) e mi ha fatto rivivere la parte peggiore di essa
rammentandomi la visione del disastroso contesto politico di quegli (e questi) anni
determinato dalla profonda immaturità di un’intera società civile profondamente
irresponsabile e priva di senso civico; la triste fiaba di un paese egoista che
non poteva che condurre la nazione al fallimento nonostante le sue grandissime
potenzialità.
Peccato
davvero!
…. Che musica però in questi "stramaledetti" anni ottanta-novanta!
:-)
martedì 8 settembre 2015
Problema migranti: Analisi di un approccio discutibile
Problema
migranti: Lavorano e fanno figli: così i migranti finanziano l'Europa _ Analisi
di un approccio discutibile.
Dopo le aperture della Germania nei riguardi del problema
relativo all’accoglienza dei profughi sembra cambiato il clima politico
riguardo a questo tema che, effettivamente negli ultimi mesi ha raggiunto un
certo livello di criticità e non sembra accennare ad arrestarsi. Non è ancora
chiaro cosa abbia fatto cambiare il vento, forse la semplice impossibilità di
arrestare il fenomeno senza poter ricorrere a metodi scopertamente
antidemocratici, oppure a causa di ragioni più profonde di ordine politico,
economico e/o demografico. In ogni caso, già si percepisce anche il mutamento
di come il tema viene affrontato dai mezzi d’informazione che, dopo aver
trattato la questione sottolineando più gli aspetti umanitari, il fenomeno
dello sfruttamento e le frizioni che tali sommovimenti finiscono per creare
presso i paesi di accoglienza, adesso cominciano a spostare il “tiro” sugli
aspetti benefici e sulle opportunità positive che possiamo aspettarci da tale
esodo.
Ad esempio, oggi su La Repubblica appare quest’articolo:
Che comincia a spiegare al “popolo” come il fenomeno dell’immigrazione,
ben lungi dall’essere problematico deve essere visto come un’indispensabile
opportunità da cogliere al fine di mantenere in adeguato equilibrio i nostro squilibrati
e dissestati sistemi pensionistici, minati alla base da una popolazione locale
sempre più senescente.
Non contesto, ed anzi condivido in parte queste argomentazioni.
Esse, viste alla luce dell’attuale quadro normativo su cui si basa la nostra
previdenza, mi sembrano assolutamente coerenti; mi permetto però di ironizzare
sul fatto che tali ragioni avrebbero potuto anche essere fatte valere già molti
mesi (se non anni) fa! E, pertanto, mi sorprende un po’ la coincidenza che esse
appaiano solo adesso in tutta evidenza, proprio nel momento in cui la linea
politica tende a cambiare se non, persino, a rovesciarsi!
Dunque, lasciamo stare per un attimo gli aspetti umanitari legati
a questo fenomeno che, a parer mio, rimangono quelli veramente rilevanti sia
sul piano etico sia su quello sociale e torniamo al messaggio: “L’apporto
migratorio è fondamentale per la stabilità dei nostri conti pubblici”. Questo è
probabilmente vero, a rigore, solo sulla base dello “status quo”, ovvero, solamente
se si affronta il problema sulla base della sola demografia e della permanenza
delle regole attuali evitando quindi di prendere in considerazione anche altri
scenari che, ad esempio, implichino ulteriori modifiche dei nostri sistemi
pensionistici e sanitari. Ci sarebbero infatti almeno due approcci diversi percorribili per
risolvere il problema della stabilità dei conti relativamente a queste voci: il
primo si basa sul tentativo di mantenere un rapporto equilibrato fra giovani
attivi e anziani pensionati; il secondo renderebbe necessarie l’istituzione di
nuove regole al fine di rompere (finalmente) l’attuale patto (sarebbe meglio
dire “vincolo”!) generazionale che sta alla base dei nostri sistemi
pensionistici. Questi ultimi nonostante la pressoché totale applicazione di
sistemi contributivi, si basano ancora su metodi che, di fatto, erogano le pensioni
correnti non con i frutti delle rendite e dei contributi maturati dai
percipienti, ma con quanto versato dai futuri aventi diritto. In altre parole
le pensioni attuali sono pagate con i contributi correnti di chi andrà in
pensione a suo tempo e, il trattamento di questi ultimi sarà calcolato non come
conseguenza di investimenti fatti con il proprio denaro (buoni o cattivi che
essi siano!) ma in funzione di regole prestabilite che, tra l’altro, potrebbero
sempre essere messe in discussione nel momento in cui il sistema non si “regga”
(come è stato fatto spesso in passato)..Tutto ciò, non è tanto dovuto a
questioni di mutualità ed equità quanto al perverso lascito delle gestioni
allegre del passato. Pochi, ad esempio, si soffermano a porsi la seguente
domanda: “Perché un sistema contributivo mi costringe ad andare in pensione
solo ad una certa età e non quando ritengo di avere una rendita vitalizia
sufficiente?” Bene! La ragione fondamentale di ciò è da ricercare in quanto esposto
poco sopra.
Tornando a noi, se ci si basa sul primo approccio (quello basato
sull’equilibrio demografico), come conseguenza si possono e si devono fare
affermazioni come quella che segue e che è contenuta nel sottotitolo dell’articolo
citato: “Per salvare le nostre pensioni servono 250 milioni di rifugiati entro
il 2060. Ecco perché per gli economisti sono una risorsa”. Per seguire
coerentemente questa strategia di lungo periodo però, si dovrebbero anche discutere
una serie di questioni di fondo, che, invece, lasceremo (come sempre) da
risolvere alle generazioni future. Ad esempio ne sottolineo solo alcune:
- Stiamo basandoci su un modello che implica una crescita demografica
indefinita. Questo, infatti, a livello globale, mi sembra l’unico modo per
garantire la permanenza di un certo rapporto fra nuove e vecchie generazioni anche
per i secoli a venire. Siamo sicuri che questo sia un modello sostenibile? Non
sarebbe invece più cautelativo cercare di immaginarsi sistemi che mantengano la
propria efficienza anche in presenza di una crescita stagnante o negativa della
popolazione o che, quantomeno, tengano in conto un’alterazione sensibile (che già
sta avvenendo) fra gli equilibri generazionali all’interno della stessa?
- Stiamo anche sostenendo che tale popolazione crescente dovrà
mantenere un elevato o almeno equilibrato tasso occupazionale. Siamo sicuri
anche di questa affermazione? Tra l’altro, mi sembra che si dia anche per
scontato che tale livello occupazionale riguardi posizioni di una certa qualità
e stabilità, quantomeno, non certo minate alla base da aleatorietà, basse remunerazioni e
precariato. Dove e come pensiamo di trovare tali ulteriori occasioni di
occupazione nel prossimo futuro (e qui da noi nei nostri paesi!) sulla base di quanto possiamo
vedere già oggi?
Si dà quindi per scontato che tutte queste soluzioni ce le darà
il “progresso” anch’esso, ovviamente, destinato a proseguire indefinitamente e,
soprattutto a un tasso adeguato per risolvere senza eccessive frizioni tutti
questi problemi socio-eco-ambientali, Personalmente, invece, comincio a
sospettare che il genere umano non abbia ancora capito che ormai non si può più
permettere il “laissez faire” del passato e l'affidarsi alla futura provvidenza per la soluzione delle variabili lasciate indefinite; ormai, infatti, siamo troppo diffusi
e invasivi per poterci permettere di evitare di pianificare le nostre scelte
senza chiarire le modalità attraverso le quali pensiamo di risolvere i
problemi, possibilmente, senza compromettere gli equilibri esistenti.
Per esempio, mi sembra che anche una conoscenza solo approssimativa delle
dinamiche demografiche in atto debba portare ad accettare che la crescita della
popolazione umana a 11 miliardi attorno alla data convenzionale del 2050 sia
ormai cosa fatta (salvo tragedie che nessuno vuole invocare al fine di
alleggerire questo dato). Dunque ci toccherà gestire e possibilmente non subire passivamente questo
fenomeno e, già da adesso, per esempio, bisognerebbe cominciare a chiedersi se
è il caso di proseguire oltre con questo trend dopo tale data e come fare,
eventualmente per invertire questa tendenza!
Detto in altre parole pensare che a lungo termine ci si possa
veramente poggiare su organizzazioni e modelli socio-economici che diano per
scontata e necessaria la crescita infinita di alcune variabili fondamentali
come la popolazione, la crescita economica e quella occupazionale (che non
sempre va al pari passo con la crescita economica!); o che necessitino, per
costruzione, il mantenimento di certi rapporti fra le stesse (ad esempio, un
certo rapporto fra giovani attivi e anziani assistiti) mi sembra, quantomeno, contro
intuitivo.
mercoledì 2 settembre 2015
Recensione: Il Cervello Anarchico
“Il Cervello Anarchico”, di Enzo Soresi, edizioni Utet
ISBN: 978-88-418-9792-8
Forse il titolo di questo saggio può risultare
fuorviante perché non si tratta dell’ennesima incursione speculativa su un tema
di moda qual è attualmente quello delle neuroscienze e, in effetti, l’opera di
Soresi può lasciare perplessi anche solo per il fatto che risulta un po’ strano
che un medico, specialista di oncologia polmonare abbia scritto un libro che ha
come protagonista il cervello.
Le ragioni di questa scelta, in effetti, a pare
mio, emergono nel corso dell’opera nella quale l’Autore, attraverso la sua
esperienza professionale, descrive il delicato equilibrio e le relazioni fra i sistemi
nervoso, endocrino e immunitario, determinanti nello spiegare, almeno in parte,
i diversi livelli di risposta soggettiva alle cure somministrate a diversi
pazienti per le medesime patologie.
A mio avviso Soresi riesce a trasmettere al
lettore l’importanza di avere nei confronti del nostro organismo una visione unitaria
che ne colga le caratteristiche salienti nel suo complesso e che tenga presente
le complicate interconnessioni che caratterizzano il suo equilibrio
omeostatico; all’opposto, sarebbe da rifuggire una visione troppo specialistica e
meccanicistica che si focalizzi eccessivamente solo sul funzionamento (o
malfunzionamento) di singole aree e comparti. Questa visione “dall’alto” gli
permette di ricordarci che la medicina non può essere considerata alla stregua
di una scienza esatta; essa si colloca in un territorio di frontiera dove le
risorse psicologiche del paziente, le intuizioni del medico e il ricorso ai
metodi sperimentali possono fare la differenza nel determinare la guarigione o,
quantomeno, nell’allungare la speranza di vita di fronte ad una patologia
grave e/o terminale. In questa “pratica” medica, solo il dogma viene bandito
mentre tutti gli altri strumenti, placebo e pratiche alternative compresi,
possono essere tenuti in degna considerazione e a disposizione come strumenti finalizzati al benessere del paziente.
martedì 25 agosto 2015
Recensione: Un Anno sull’Altipiano
“Un Anno sull’Altipiano”, di Emilio Lussu, edizioni
Einaudi, ISBN: 978-88-06-21917-8.
Si tratta di un classico sulla Prima Guerra Mondiale
scritto dall’Autore fra il 1936 e il 1937 durante una convalescenza in Svizzera
e pubblicato in Francia nel 1938 (Lussu era un fuoriuscito antifascista fuggito
dal confino e, pertanto, egli non poteva rientrare in patria). Il libro venne
pubblicato in Italia per la prima volta solo nel dopoguerra.
Gli eventi trattati riguardano un solo anno di guerra,
fra il giugno 1916 e il luglio 1917, periodo entro il quale la Brigata Sassari
fu trasferita sull’Altipiano di Asiago per arginare l’offensiva della truppe
austro-ungariche attuata nel corso della “Strafexpedition", (“Spedizione punitiva”).
Lussu scrisse il suo resoconto solo a seguito delle
forti pressioni esercitate da Gaetano Salvemini, suo grande amico e compagno di
lotta contro il regime fascista e forse, proprio per questo, il libro si
presenta sotto forma di un memoriale molto “asciutto” (circa 200 pagine), sobrio,
incredibilmente scorrevole, coinvolgente ma, curiosamente privo di eccessi
retorici. Ciò mi appare singolare, se si tiene conto che l’Autore non nasconde
ne rinnega il fatto di essere stato un giovane studente “interventista”.
Coerentemente, egli si arruolò volontario per la
Grande Guerra e ne uscì con il grado di capitano dopo essere stato decorato più
volte per atti di coraggio (fonte Wikipedia); eppure, a parer mio, in “Un Anno
sull’Altipiano” emerge il ritratto di una figura pacata, lontanissimo dalla
prosopopea dell’eroe marziale, agli antipodi rispetto a figure guerresche e grottesche
quali ad esempio, il nostro “vate” nazionale, Gabriele D’Annunzio.
Osservatore attento e empatico nei confronti dei propri commilitoni e persino dei suoi avversari, per i quali è capace di parole d’ammirazione, non ama evidentemente i paroloni e le frasi altisonanti e si limita a descrivere la realtà della guerra per quel che è, facendo ricorso ad uno stile da cronista moderno che, a parer mio precorre i tempi. Semmai, egli, pone una certa enfasi nello stigmatizzare l’incredibile stupidità, disumanità, supponenza e impreparazione degli ufficiali di grado superiore e, in poche pagine riesce a rendere chiaro al lettore dove va il merito del successo italiano, tutto da ascrivere alla tenacia, al coraggio e allo spirito di corpo di soldati e ufficiali inferiori e non certo dovuto alle doti tattiche e strategiche dei nostri alti comandi.
Osservatore attento e empatico nei confronti dei propri commilitoni e persino dei suoi avversari, per i quali è capace di parole d’ammirazione, non ama evidentemente i paroloni e le frasi altisonanti e si limita a descrivere la realtà della guerra per quel che è, facendo ricorso ad uno stile da cronista moderno che, a parer mio precorre i tempi. Semmai, egli, pone una certa enfasi nello stigmatizzare l’incredibile stupidità, disumanità, supponenza e impreparazione degli ufficiali di grado superiore e, in poche pagine riesce a rendere chiaro al lettore dove va il merito del successo italiano, tutto da ascrivere alla tenacia, al coraggio e allo spirito di corpo di soldati e ufficiali inferiori e non certo dovuto alle doti tattiche e strategiche dei nostri alti comandi.
martedì 18 agosto 2015
Recensione: Liberi Servi– Il Grande Inquisitore e l’enigma del Potere
“Liberi Servi– Il
Grande Inquisitore e l’enigma del Potere” di Gustavo Zagrebelsky, edizioni
Einaudi, ISBN: 978-88-06-20458-7.
Il saggio è incentrato
su la “Leggenda del Grande Inquisitore”, uno dei capitoli più noti de i
“Fratelli Karamazov”, di Fëdor Dostoevskij. A partire da quel testo,
Zagrebelsky estende la sua analisi un po’ all’intera produzione letteraria del
noto scrittore russo tracciandone un excursus
che mette in evidenza il progressivo approfondimento dei temi cari all’Autore:
la distorsione attuata dal cattolicesimo (contrapposto al mondo ortodosso) del
messaggio cristiano, il rapporto “necessario” che sussiste fra i concetti di “Bene”
e “Male”, gli effetti corrosivi del nichilismo, l’ostilità verso il progresso
tecnologico, il timore dell’allontanamento dal mondo tradizionale e pastorale a
scapito di un inurbamento foriero di artificialità e disumanizzazione, ecc.
In sintesi il saggio, che estende la sua analisi anche al nostro attuale modo di vivere,
mi è apparso utile e ben fatto, ma devo aggiungere che, a mio parere, i temi
trattati nella “Leggenda del Grande Inquisitore”, per quanto interessanti e per
quanto bella essa sia, non valgano più la fatica di affrontare un romanzo come “Fratelli
Karamazov” che, ormai per me, ha fatto il suo tempo.
lunedì 17 agosto 2015
Recensione: L'Adversaire
“L’Adversaire”, di
Emmanuel Carrère, edizioni Folio, ISBN: 978-2-07-041621-9.
Se questo romanzo
fosse una “fiction” avremmo scosso le spalle delusi dalle “sparate” dell’Autore
colpevole di aver messo in piedi una trama che, secondo logica e buon senso non
potrebbe stare in piedi. Invece si tratta di una storia vera, incredibile,
surreale, impossibile, come solo la realtà sa essere in certi casi.
Jean-Claude Romand è un
medico di successo ricercatore presso l’OMS con sede a Ginevra. Vive da
frontaliero di lusso attraversando quotidianamente il confine e conducendo una
vita agiata ma un po’ appartata nella provincia francese; conosce e frequenta politici
e personaggi di spicco; manda i figli alle scuole private; è stimato da amici e
parenti e si permette persino un’amante che corteggia a suon di cene e doni
costosi. Il 9 gennaio 1993, “inspiegabilmente” uccide moglie, figli e genitori
tentando (senza convinzione) il suicidio. “Perché!”, si chiedono tutti? Perché la
vita di Jean-Claude per oltre quindici anni è stata una totale impostura; egli
non è nulla di ciò che sembra: non è medico (non è neppure laureato), non
lavora all’OMS e campa truffando gli ignari parenti e, nel momento in cui il
suo castello di menzogne ha cominciato a sgretolarsi, non ha retto alla
vergogna di vedersi svelato di fronte ai propri affetti.
Jean-Claude verrà
condannato all’ergastolo (per tranquillizzarvi, nel romanzo viene detto che dovrebbe
uscire quest’anno, nel 2015!) e l’Autore vorrà conoscerlo, intrattenere con lui
della corrispondenza e, soprattutto cercherà di “capirlo” (anche se, non di “giustificarlo”).
La lettura di questo
romanzo potrebbe apparire a molti un tantino fastidiosa, personalmente però, lo
definirei un caso “interessante” e quello che lo rende tale ai miei occhi non è
tanto l’impostura, che non è certo un fenomeno raro (nei fatti di cronaca si
legge spesso di falsi medici e avvocati e molti di noi conoscono persone che
hanno mentito per anni riguardo al loro curriculum universitario!), ma la
dicotomia fra quella che è la vera vita del protagonista contrapposta a quanto,
invece, viene creduto e percepito all’esterno anche dalle persone più intime. Il
più abissale e noiosissimo “nulla” (di quello che a me sembra il ritratto di un
perfetto “sfigato”) rivestito da una scintillante patina di successo.
Dietro a tutto ciò,
personalmente e da profano vedo solo della gran vigliaccheria, l’Autore, invece,
che a quel tempo doveva essere nella sua fase di fervore religioso, si sforza
di trovarci qualcosa di più, e finisce per scorgerci nientemeno che l’ombra
delle corna e degli zoccoli de l’”Adversaire”, in altre parole, il Diavolo.
Boh!
mercoledì 15 luglio 2015
Recensione: I Fratelli Karamazov
“I Fratelli Karamazov”, titolo
originale: “Brat'ja Karamazovy”, di Fëdor Dostoevskij, traduzione di Agostino
Villa, edizioni Einaudi, ISBN: 978-88-06-22033-4.
A mio avviso l’opera di Dostoevskij merita ancora la sua fama di
capolavoro, quanto meno per la rilevanza che ancora caratterizza alcuni dei
temi trattati e a causa della notorietà che lo circonda e che continua ad
alimentarne la critica.
A parte queste considerazioni ed anche un
po’ più modestamente, è bene aggiungere che il romanzo è bello al di là e nonostante
la sua fama un po’ ingombrante. Una volta cominciata l’opera e non appena ci si
sia abituati ad uno stile ormai un po’ superato, si arriva ad un punto dove,
come per ogni buon racconto, si desidera semplicemente sapere come andrà a
finire la faccenda e cosa succederà ai diversi comprimari. Da un altro punto di
vista, però, se si tiene conto che i personaggi e le situazioni descritte
cominciano a sentire il peso degli anni e ad apparire, di conseguenza, un po’
forzati, forse comincia ad essere legittimo ritenere di poter sottrarsi al
compito di digerirne la non modesta mole senza sentirsi per questo troppo in
colpa verso il nostro vecchio professore di letteratura del liceo.
Personalmente, dopo “Delitto e Castigo”
del medesimo Autore aspettavo l’occasione per leggere anche quest’opera e, in
particolare, ero interessato a inquadrare più esattamente all’interno della
stessa il famoso e forse abusato pezzo della “Leggenda del Grande Inquisitore”
che appare nel libro quinto del romanzo. L’occasione me l’ha data la recente
uscita di un saggio incentrato sul medesimo argomento “Liberi Servi – Il Grande
Inquisitore e l’enigma del Potere” di Gustavo Zagrebelsky (Einaudi ISBN
978-88-06-20458-7). A questo punto, ho sciolto gli indugi e le vele!
Ho
trovato che “La leggenda” regga ancora e pienamente la fama che la circonda;
per me si tratta di un pezzo di grande letteratura. Forse, però, se si è
interessati solo ad essa, non vale la pena di leggersi tutte le 1033 pagine che
costituiscono la presente edizione al solo scopo di inquadrarla al meglio.
A me, per altro, queste mille e passa
pagine non sono pesate e vorrei anche aggiungere che sarebbe assai limitativo
ridurre la bellezza e l’importanza di quest’opera alle poche decine di pagine attraverso
le quali si sviluppa “La leggenda”. Essa costituisce, infatti, sicuramente una
parte notissima ed importante del romanzo, ma non può comunque assumere una
tale evidenza da potersi sostituire ad esso e neppure per poterlo rappresentare
efficacemente e completamente.
lunedì 13 luglio 2015
Caso Grecia: Chi ha vinto? ... Un bilancio personale ...
Nel giorno dell’avvenuto accordo
far il Governo greco e Eurosummit faccio un po’ fatica a districarmi sulle
diverse versioni che sembrano emergere dai mezzi di informazione. Questo è
stato il tema costante di questi giorni, dove ho avuto l’impressione che il
giudizio dei mass media nei confronti della linea di resistenza greca e dell’iniziativa
referendaria prima, e delle varie fasi che hanno portato all’accordo dopo, fosse
quanto meno ondivago.
A questo punto, mi sgancio da
tutte queste chiacchere e provo a dare un giudizio personale, a pelle, sui
recenti avvenimenti senza tenere troppo conto dei cosiddetti dati oggettivi
che, a quanto pare “oggettivi” non sono per niente (ma insomma! I greci le riforme
negli ultimi anni le hanno fatte oppure no? Vanno in pensione a 50 anni oppure
no! Hanno un sacco di dipendenti pubblici sfaccendati si o no?)! … Possibile
che non ci sia la possibilità di ottenere una serie di dati comparati senza
dover passare le giornate sulla rete a vagliare dati inaffidabili? … ma
lasciamo perdere …
Tornando a noi:
-
Io penso innanzi tutto che il governo greco sia
stato coraggioso, tanto coraggioso da sfiorare l’imprudenza e l’impudenza.
Anche la scelta di indire un referendum è stata una scelta da capogiro, ma pure
coerente con il mandato che lo stesso esecutivo aveva ricevuto (devo ammettere
che io avrei votato “si”, non fosse altro che per codardia!). Hanno rischiato
veramente di finire fuori dall’euro a pedate, ma ci hanno dato anche una grande
lezione di democrazia (magari anche di populismo che, comunque con la
democrazia c’entra eccome!). Soprattutto, ci hanno ricordato, e sarebbe bene
non dimenticarlo subito, che l’Unione Europea deve diventare anche una
questione politica e non limitarsi a poco più di un’unione doganale con una politica
economica e monetaria lasciata in appannaggio alle banche e ai grandi gruppi
industriali. Per me non è mai stato così chiaro (e spero che lo sia anche a
molti altri) che è necessario impegnarsi maggiormente per potenziare il governo
UE. Sennò i grandi problemi che stanno alle porte (sicurezza e immigrazione) e
in seno (disparità economiche e sociali) all’Unione non verranno né affrontati
né risolti e finiranno per travolgerci.
-
Ora Syriza rischia di spaccarsi e Tsipras è
accusato di aver ceduto alle richieste delle autorità monetarie. Lo
scissionismo è la malattia endemica della sinistra, ci sono sempre duri e puri
disposti a resistere ad ogni cedimento e fisiologicamente portati al muro
contro muro (lungo il quale, spesso e volentieri vorrebbero allineare il loro
oppositori in modo da poter risolvere definitivamente e fisicamente il
problema), la politica però, è l’arte del compromesso e, a parer mio, mi sembra
che il governo greco non avesse troppi altri margini di manovra; posta la
questione di principio, toccava fare i “compiti a casa” o tornare alla dracma. Riguardo
a Tsipras, ammetto di non conoscere il suo curriculum personale e, pertanto,
non penso di poterlo giudicare, ma noto che alcuni dei provvedimenti che ha
posto in essere, parlo almeno dell’eliminazione delle agevolazioni sull’IVA per
le isole e delle tasse sugli armatori, vadano nella direzione che io ritengo
corretta per una maggior equità fiscale. L’omogeneizzazione dell’IVA (tassa che
normalmente non condivido e che, considero un po’ barbara per un sistema
fiscale evoluto) non solo ridistribuisce il costo delle riforme fra la Grecia
insulare (che ha patito di meno!) e quella metropolitana (che ha patito molto),
ma è anche l’unica possibile per garantire un minimo di gettito in una società
che è propensa, forse anche più dell’Italia, ad evadere il fisco in tutti i
modi. Per quanto riguarda gli armatori, invece, essi sono storicamente i “ricchi”
di Grecia, lobby potente e assai tutelata! Da dove quindi dovrebbe partire in
Grecia una politica fiscale redistributiva se non da loro? E che dovrebbe fare
un governo di sinistra se non tassare loro?
-
Si legge, infine, che i tedeschi avrebbero “umiliato”
i greci http://www.lastampa.it/2015/07/13/economia/il-premier-belga-c-laccordo-sulla-grecia-8m1EEnyt50Ie1JocvR9gfO/pagina.html).
Io, di nuovo, non credo neppure a questo! Alla fine si tratta di una partita
che, moralmente non ha visto né vinto né vincitori. I “nordici” (non solo i
tedeschi!) hanno tenuto duro ribadendo, con una certa ragione, che non si
possono usare “due pesi e due misure” e, stante le regole in vigore “ora”, non
ci sono alternative al rigore per quegli stati che non sono capaci di tenere i
loro conti in ordine. Soprattutto, non si può (e non è moralmente corretto!) costringere
alcuni paesi a dure politiche per risanare i conti pubblici e ad altri consentire
di continuare sulla strada delle mancate riforme (posto che per la Grecia sia
effettivamente così!). I greci, supportati dai giudizi di più di un economista,
(vedi ad esempio, Krugman, Stigliz e Piketty) hanno invece ricordato che una
maggior unione politica forse permetterebbe di mettere in atto politiche diverse
dalla semplice austerity. Ma per arrivare a ciò, aggiungo io, bisognerebbe avere
gli strumenti per poter decidere tutti insieme (e torniamo alla politica!), un
sistema di regole che permetta di mettere in atto un ciclo espansivo (magari un
po’ drogato da qualche intervento in stile Keynesiano) ma che, nel contempo, ci
metta al riparo dagli “sbracamenti”, dalle “promesse da marinaio” e dalle
ricette facilone (svalutazioni competitive, finanziamenti a pioggia ma, soprattutto
agli “amici”, spese pubbliche dissennate e programmi di costruzione faraonici
di cattedrali nel deserto …!) spesso proposte in passato dalla nostra, quasi
mai responsabile, classe politica. Bisogna poi dire, rimanendo sul pragmatico, che
per il futuro i greci continueranno ad avere dalla loro il “problema” del
debito (per le banche non vi è nulla di più spinoso di un grosso debito
inesigibile!) e, pertanto, se le riforme non funzioneranno, i creditori
perderanno i loro soldi, quelli già erogati fino ad ora e quelli di prossima
erogazione. Un conto salato per l’affermazione di un principio! Dunque, ai “tedeschi”
rimane il punto segnato in favore del rispetto delle regole ma anche (a loro e
a noi) il possibile aggravio di perdita se le cose non dovessero andare per il
verso giusto.
-
Infine, al di là delle ragioni e dei possibili
ragionamenti, per me, è un grosso sollievo poter pensare ai greci come facenti ancora
a pieno titolo della “famiglia”. A supporto di questa sensazione, non ho
particolari ragioni razionali da addurre, ma solo ragioni di “pancia”, solo la
sensazione che, senza di loro, l’idea di Europa sarebbe un po’ meno brillante.
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