“Uccideresti l’Uomo
Grasso? Il dilemma etico del male minore”, titolo originale: “Would You Kill
The Fat Man? The Trolley Problem
and What Your Answer Tells Us about Right and Wrong”, di David Edmonds,
tradotto da Gianbruno Guerrerio, edizioni Raffaello Cortina, ISBN: 978-88-6030-697-5.
Si tratta di uno dei
tanti casi estremi e paradossali prodotti dalla filosofia morale: “Un carrello ferroviario
fuori controllo corre verso cinque uomini che sono legati sui binari: se non
sarà fermato li ucciderà tutti e cinque. Vi trovate su un cavalcavia e
osservate la tragedia imminente. Tuttavia, un uomo molto grasso, un estraneo, è
in piedi accanto a voi: se lo spingete facendolo cadere sui binari, la notevole
stazza del suo corpo fermerà il carrello, salvando cinque vite, anche se lui
morirà. Voi uccidereste l’uomo grasso?”
Bella domanda!
Soprattutto quando si esplorano anche le diverse e divertenti varianti comprese
nel saggio che tendono a precisare lo scenario e a prevenire le diverse
scappatoie morali che l’interlocutore cerca di mettere rapidamente in atto per
“evitare” di uccidere l’uomo grasso!
Mentre per i filosofi
l’argomento appare così appassionante da aver dato origine a una vera e propria
branca della filosofia morale chiamata, appunto, “Trolleyology” (da “Trolley” =
Vagone o Carrello), per le persone comuni, lo scenario appare un po’ per quel
che è, cioè una forzatura un po’ troppo assurda o, al più, una storiella
accattivante buona per movimentare la conversazione di una serata fra amici.
Ciò non toglie nulla alla
bellezza di questo saggio che, nello svolgere le sue tesi, non solo riprende le
diverse posizioni filosofiche sull’argomento, aggiungendo anche qualche
considerazione in base ai risultati ottenuti dagli studi delle ormai sempre
presenti neuroscienze ma che, soprattutto, riporta qualche caso storico nel
quale il dilemma del “Male Minore” ha dovuto effettivamente essere soppesato
nelle scelte operate da chi doveva prendere delle decisioni che implicassero il
bene di alcuni a scapito di altri.
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A titolo di piccola
curiosità, per chi volesse riflettere su qualche altro caso reale, posso
segnalarne uno che, personalmente, ho trovato molto interessante. Potete
trovare una descrizione di questo fatto in un libro che ho molto apprezzato: “Giustizia,
il nostro bene comune” di Michael Sandel (ISBN 978-88-07-10454-1), l’episodio è
riportato nel capitolo “I caprai afghani”. Da questa vicenda è stato
recentemente tratto anche un film: “Lone Survivor” (2013) che, purtroppo, lascia
spazio solo all’azione e nulla lascia trapelare del dilemma morale e del caso umano
che l’ha reso famoso.
La storia in breve è la
seguente:
Nel giugno 2005 una piccola
squadra delle forze speciali della marina USA s’infiltra in territorio afghano con
l’intento di localizzare un capo talebano e il suo gruppo costituito da un
centinaio di combattenti. Durante l’operazione i militari vengono casualmente
in contatto con alcuni caprai del luogo che sono rapidamente catturati. Gli
afghani sono civili disarmati e vengono resi completamente innocui, ma gli
incursori non hanno la possibilità di immobilizzarli (sono privi di corde o
manette) per un tempo sufficiente a cambiare posizione e far perdere le loro
tracce. Lasciandoli liberi i militari si esporrebbero al rischio che i civili segnalino
la loro presenza ai guerriglieri talebani. Nasce una discussione fra gli elementi
della squadra, qualcuno suggerisce di eliminare i pastori inermi ma il caposquadra
Martin Luttrell si oppone e, alla fine, i civili sono liberati.
La storia purtroppo non
ha un lieto fine. Poco tempo dopo aver liberato i pastori, il piccolo gruppo si
trova braccato da una nutrita schiera di guerriglieri talebani. La maggior
parte dei fanti di marina perde la vita nello scontro e anche fra i
soccorritori, arrivati nel frattempo, si registrano perdite consistenti.
Martin Luttrell sopravvivrà al combattimento e
scriverà una biografia dove, secondo quanto riportato sul saggio di Sandel, affermerà
essersi pentito della decisione presa di liberare i civili anziché procedere a
sopprimerli.
Questo è un finale che
lascia nell’inquietudine ma che, personalmente, riesco ben a comprendere e, nel
frattempo mi rifiuto di giudicare e stigmatizzare.
Tutto ciò, in effetti,
appare molto più tragico, più pregnante e meno salottiero rispetto alle storie
di scambi da azionare, botole da aprire e spinte da assestare che attengono ai diversi scenari di ’“Uccideresti l’Uomo
Grasso”!
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