“Perché abbiamo bisogno
dell’Anima”, di Paolo Legrenzi e Carlo Umiltà, edizioni Il Mulino, ISBN: 978-88-15-25259-0.
Si tratta di un breve ma
interessante saggio riguardante un tema che ormai sembra piuttosto di moda,
quello delle neuroscienze. Contrariamente a quanto potrebbe lasciare intendere
il titolo assai fuorviante, non si tratta di un’opera che prende seriamente le
difese del cosiddetto “Dualismo”, l’interpretazione filosofica e scientifica
che, partendo dalle considerazioni del filosofo e matematico Cartesio e sulla
scia di una corrente di pensiero che può essere fatta risalire fino a Platone e
Aristotele, prevede una separazione fra i concetti di “io”, “mente” e
“coscienza” (l’anima?) da una parte e quello di “cervello” dall’altra, che, come
organo fisico, rimarrebbe l’unico ambito accessibile a uno studio scientifico.
Gli Autori, invece, si dichiarano comunque “Riduzionisti”, cioè seguaci di
quella corrente scientifica ormai prevalente che, all’opposto e in sintesi,
riconduce il “sé” e le manifestazioni profonde a esso legate, all’evoluzione e
all’attività della nostra “rete” neurale.
Quello che distingue,
però, l’approccio di questi Autori da altri che si sono cimentati
sull’argomento è l’esibizione di una certa cautela riguardo alla portata di
alcuni risultati conseguiti dagli studi delle neuroscienze negli ultimi decenni
e che, tra l’altro, hanno contribuito in modo rilevante all’affermazione della
corrente “Riduzionista” anche al di fuori dall’ambiente strettamente
scientifico. L’evoluzione tecnologica degli ultimi vent’anni ha permesso di
migliorare notevolmente i metodi d’indagine riguardanti le risposte cerebrali in
funzione di particolari stimoli indotti e a determinare più precisamente le
aree associate a una certa specializzazione e attività. Queste tecniche, soprattutto
quelle legate alle elaborazioni delle neuro immagini, hanno assunto una certa
notorietà suscitando non poche aspettative, ma, secondo gli Autori, non hanno
modificato significativamente un quadro di conoscenze che, per lo più, era già
noto almeno dalla seconda metà del ventesimo secolo. Anche per essi è chiaro
che le tecniche basate sullo studio delle neuro immagini siano appena agli
inizi e, pertanto, molte nuove scoperte potranno ancora seguire; ma nonostante
ciò, essi s’impegnano a raffreddare un po’ le eccessive attese riguardo alla
portata generale dei risultati che possono scaturire dall’approccio del cosiddetto
“Localismo” (lo studio finalizzato alla precisa determinazione delle aree
cerebrali e della loro funzionalità). Per gli Autori, gli studi inerenti alla
localizzazione, sono si utili a determinare com’è “organizzato” il cervello ma,
in fondo, queste metodologie non sembrano essere poi così decisive al fine di
fornire spiegazioni riguardo al “come” e al “perché” quest’organo funzioni in
un certo modo.
In particolare, le
attuali conoscenze riguardo al funzionamento “meccanico” del cervello non
riescono ancora a spiegare il perché, nella pratica, le persone continuino a
conformarsi a un “Dualismo” di fatto attribuendo categorie comportamentali molto
generiche e comportamenti intenzionali non solo agli uomini ma anche agli altri
esseri viventi e persino agli stessi oggetti inanimati (come hanno dimostrato gli
esperimenti di F. Heider e M. Simmel già nel 1946). Per altro, si tende ormai a
riconoscere che questa nostra caratteristica mentale, seppur possa portare a
seri errori di valutazione e possa alimentare i cosiddetti “pregiudizi”, sia ben
lungi dall’essere una semplice forma d’illusione o autoinganno, ma sembra invece
spiegarsi attraverso una precisa strategia evolutiva finalizzata alla
semplificazione della realtà osservabile tesa a facilitare l’analisi del
proprio comportamento e di quello altrui.
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