Ricorrono i trentacinque anni
dall’introduzione della legge 194, il provvedimento che ha legittimato l’aborto
in Italia. In un articolo pubblicato oggi su La Stampa: “A trentacinque anni
dalla legge gli aborti sono più che dimezzati”, è presentata una breve sintesi
dei risultati:
In sintesi, gli aborti praticati
ogni anno sono calati costantemente e la percentuale d’incidenza rispetto al
momento dell’introduzione del provvedimento segna un secco -54,9%, risultato
che sarebbe anche più indicativo se la statistica fosse depurata dall’incidenza
dei casi che riguardano la popolazione immigrata. I dati sono ancora più
significativi se si segmenta la casistica in funzione del livello di
scolarizzazione dei soggetti coinvolti: le donne laureate presentano un’incidenza
d’aborto pari al sei per mille, mentre per quelle con licenza elementare il
dato sale al venti per mille. Confortante il dato del tasso di aborto fra le
minorenni che si colloca al posto più basso nel mondo, il 4,5 per mille.
Questo per ciò che riguarda le
cifre relative, un po’ più impressionante si presentano i numeri assoluti; nel
2012 in Italia ci sono stati 105.968 casi d’interruzione di gravidanza …
comunque tanti!
La sintesi di questi dati
dovrebbe, a parer mio, fare emergere le seguenti considerazioni:
E’ la cultura in senso esteso,
intesa sia come conoscenza “tecnica” sia come consapevolezza etica o, se
vogliamo definirla così, una maggior “maturità”, la miglior fonte di prevenzione
verso questo fenomeno; il proibizionismo o il moralismo bigotto non paga.
Invece, una conoscenza precoce dei rudimenti dell’educazione sessuale e una
mentalità molto aperta e tollerante nei confronti dei metodi contraccettivi sono
strumenti fondamentali per abbattere il fenomeno.
Un aspetto inquietante che emerge
dall’articolo è quello dell’obiezione di coscienza far i medici. Il fenomeno presenta
un trend in crescita che, al Sud, raggiunge punte del 90%. Ora, è evidente che le
persone e, soprattutto, i seguaci di Ippocrate, abbiano il pieno diritto di
fare una scelta personale in favore della conservazione della vita umana nelle
sue accezioni più estese; bisogna però tenere conto anche del diritto dei
cittadini a poter usufruire “de facto” di quanto previsto da una legge e dal
servizio sanitario nazionale. Pertanto la soluzione del problema dovrebbe
essere tanto semplice quanto radicale: un medico ha diritto alla propria
coscienza ma non al posto fisso nel servizio sanitario nazionale qualora non
sia in grado di svolgere le funzioni alle quali è preposto. Di conseguenza, mi
sentirei di dire che il rifiuto di praticare un protocollo medico al quale il
cittadino ha diritto si qualifica come “giusta causa” per il licenziamento o
criterio discriminante per l’assunzione presso le strutture pubbliche, punto!
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.