mercoledì 13 novembre 2013

Legge 194: Un bilancio a 35 anni dall'introduzione del provvedimento


Ricorrono i trentacinque anni dall’introduzione della legge 194, il provvedimento che ha legittimato l’aborto in Italia. In un articolo pubblicato oggi su La Stampa: “A trentacinque anni dalla legge gli aborti sono più che dimezzati”, è presentata una breve sintesi dei risultati:
In sintesi, gli aborti praticati ogni anno sono calati costantemente e la percentuale d’incidenza rispetto al momento dell’introduzione del provvedimento segna un secco -54,9%, risultato che sarebbe anche più indicativo se la statistica fosse depurata dall’incidenza dei casi che riguardano la popolazione immigrata. I dati sono ancora più significativi se si segmenta la casistica in funzione del livello di scolarizzazione dei soggetti coinvolti: le donne laureate presentano un’incidenza d’aborto pari al sei per mille, mentre per quelle con licenza elementare il dato sale al venti per mille. Confortante il dato del tasso di aborto fra le minorenni che si colloca al posto più basso nel mondo, il 4,5 per mille.
Questo per ciò che riguarda le cifre relative, un po’ più impressionante si presentano i numeri assoluti; nel 2012 in Italia ci sono stati 105.968 casi d’interruzione di gravidanza … comunque tanti!
La sintesi di questi dati dovrebbe, a parer mio, fare emergere le seguenti considerazioni:
E’ la cultura in senso esteso, intesa sia come conoscenza “tecnica” sia come consapevolezza etica o, se vogliamo definirla così, una maggior “maturità”, la miglior fonte di prevenzione verso questo fenomeno; il proibizionismo o il moralismo bigotto non paga. Invece, una conoscenza precoce dei rudimenti dell’educazione sessuale e una mentalità molto aperta e tollerante nei confronti dei metodi contraccettivi sono strumenti fondamentali per abbattere il fenomeno.
Un aspetto inquietante che emerge dall’articolo è quello dell’obiezione di coscienza far i medici. Il fenomeno presenta un trend in crescita che, al Sud, raggiunge punte del 90%. Ora, è evidente che le persone e, soprattutto, i seguaci di Ippocrate, abbiano il pieno diritto di fare una scelta personale in favore della conservazione della vita umana nelle sue accezioni più estese; bisogna però tenere conto anche del diritto dei cittadini a poter usufruire “de facto” di quanto previsto da una legge e dal servizio sanitario nazionale. Pertanto la soluzione del problema dovrebbe essere tanto semplice quanto radicale: un medico ha diritto alla propria coscienza ma non al posto fisso nel servizio sanitario nazionale qualora non sia in grado di svolgere le funzioni alle quali è preposto. Di conseguenza, mi sentirei di dire che il rifiuto di praticare un protocollo medico al quale il cittadino ha diritto si qualifica come “giusta causa” per il licenziamento o criterio discriminante per l’assunzione presso le strutture pubbliche, punto!

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