L’esito presunto delle vicende
Telecom e Alitalia, cioè il passaggio del controllo in mani straniere non è
tanto preoccupante per finale annunciato; quello che invece inquieta è come il
tutto è stato gestito dalla nostra classe imprenditoriale e politica. Non c’è
nulla di intrinsecamente sbagliato, infatti, nel fatto che un’azienda nazionale
passi di mano e finisca sotto controllo estero, anzi, nel gioco della globalizzazione,
avviene spesso e gli esiti per l’occupazione locale e per lo sviluppo dell’attività
non sono sempre negativi. A questo proposito, basta guardare a un esempio
recente dove l’ottica dovrebbe apparire esattamente rovesciata, alludo a ciò
che sta succedendo nel caso dell’acquisizione di Chrysler da parte della FIAT
che è avvenuta con l’accordo del governo USA, dei sindacati e delle maestranze
e che, ben lungi dal mettere in crisi l’eccellenza locale rischia semmai di
mettere in pericolo la vocazione italiana della casa madre.
Dall’altra parte, accantonata per
un attimo la favoletta della libertà imprenditoriale e della globalizzazione, è
chiaro che uno Stato “come Dio comandi” cerca di darsi una politica industriale
che passa anche attraverso una strategia di supporto e di controllo di quelle
attività che esso ritenga “strategiche”.
Immancabilmente i governi
italiani mostrano, invece, di non avere nessuna visione strategica che non sia
la mera visione clientelare, pertanto, le operazioni gestite dalla nostra
classe politica, spesso condotte sotto l’ombrello e la partitura orchestrata da
Mediobanca, sono nel lungo termine (e spesso anche nel breve periodo)
fallimentari traducendosi nell’erosione della capacità di sviluppo e di sopravvivenza
delle realtà economiche oggetto di “ripartizione”.
Anche la nostra classe
imprenditoriale non è ovviamente priva di difetti e, normalmente partecipa
volentieri a queste operazioni di saccheggio purché non debba metterci soldi
propri e capitali di rischio.
L’Italia era una nazione che vantava una
preminenza assoluta nella tecnologia della telefonia ma il passaggio di Telecom
ai privati, compiuto senza nuovi apporti di capitali e sostanzialmente
basandosi esclusivamente sull’indebitamento ha impedito per decenni di
investire seriamente in ricerca e sviluppo facendo così perdere
progressivamente all’azienda quella preminenza tecnologica e quelle risorse che
potevano permettergli di essere agente aggregante anziché oggetto d’acquisizione.
Tra l’altro, proprio il passaggio del controllo di Telecom avvenuto alla fine
degli anni novanta ha comportato la vendita all’estero dell’Omnitel -
Infostrada alla tedesca Mannesmann. Dal punto di vista del sistema Italia il
danno è stato quindi duplice perché alla fine dell’operazione solo uno dei due
principali operatori nazionali rimaneva sotto il controllo d’imprenditori
nazionali che, invece, perdevano il controllo di un’azienda competitiva;
Telecom (o meglio, Telco) invece, usciva dall’operazione azzoppata poiché
zavorrata da una mole ingente di debiti. A peggiorare ulteriormente le cose vale
anche il giudizio corrente secondo il quale, il beneficio ricavato dallo Stato
per la privatizzazione fu largamente inferiore alle attese; in pratica, la
Telecom fu, di fatto, svenduta con grave danno all’erario e alle tasche del
contribuente. L’operazione riguardante Alitalia è pure stata peggiore, la
società, animale politico per definizione e, insieme a “mamma” RAI sovrano
ostello di nomine politiche e assunzioni per raccomandazione, non ha mai prodotto
grandi utili ma, più spesso, consistenti perdite da ripianare, tutto poi si
poteva definirla salvo che “strategica”. Venderla ad Air France per tempo non
sarebbe poi stato neanche troppo un cattivo affare, ma di nuovo, sono entrate
in gioco la nostra solita cordata raccogliticcia d’imprenditori nazionali e la
politica (ed anche, visti i tempi, la tipica demagogia da campagna elettorale).
Il risultato di tutto ciò sarà che, probabilmente, Alitalia sarà venduta al
pretendente di sempre ma a un prezzo sensibilmente inferiore.
Altri esempi di questo tipo non
sono difficili da trovare, basti pensare a com’è stato gestito il problema
delle privatizzazioni nel modo bancario che ha introdotto la stortura delle
fondazioni. Notevole anche l’esempio dell’ILVA che ci lascia il dilemma se
abbandonare il settore dell’acciaio, condannare un’intera popolazione alla
disoccupazione, oppure lasciarla al dissesto ambientale.
Alla fine i conti, dunque, li
pagano sempre i soliti noti: in primo luogo le maestranze, a seguire i
contribuenti, prima o poi, però, finiremo di avere anche solo qualcosa da privatizzare ... e a quel punto? ...
Nessun commento:
Posta un commento
Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.