L’imprenditore svizzero
Stephan Schmidheiny, proprietario della
Eternit è stato condannato a diciotto anni di carcere e al pagamento di
indennità per circa cento milioni di euro. Questo, l’esito finale del processo
intentato contro i due proprietari (uno dei quali mancato recentemente) della
multinazionale produttrice di prodotti a base di amianto, responsabile di una
lunga ecatombe di morti, sia fra gli operai, sia fra la popolazione che vive
attorno agli ex siti estrattivi e produttivi.
Il processo ha dimostrato la
piena consapevolezza della proprietà e del management rispetto alla
pericolosità delle lavorazioni, basti citare ciò che dice la Stampa di oggi
(04-06-13, pag.2) :” …Nel giugno 1976 Schmidheiny riunì a Neuss, in Germania,
una trentina di supermanager del gruppo Eternit: li sbalordì con il quadro
drammatico che fece dei danni alla salute provocati dall’amianto. Ma impartì
loro istruzioni per minimizzare i rischi con i lavoratori e popolazioni: l’amianto
non poteva essere sostituito efficacemente con altri materiali e si doveva
conti nuare ad utilizzarlo nella produzione di manufatti per l’edilizia e per l’industria.
Così è stato fino alle chiusure delle fabbriche senza che nemmeno l’amianto
blu, quello più micidiale per la salute, venisse accantonato. In tutti questi
anni la sola informazione data ai dipendenti italiani della Eternit è stata
contenuta in un foglio allegato alle buste paga di un mese. Vi si raccomandava
di non fumare: “Il tabacco uccide”. …”.Si tenga presente che: la pericolosità dell’amianto è nota a partire
almeno dai primi anni sessanta del novecento; la produzione nei siti piemontesi
della Eternit proseguì fino al 1986 (fonte: Wikipedia).
Uno dei pochi commenti rilasciato
dalla difesa (Fonte: La Stampa 04/06/13) è stato: “in questo modo non vi sarà
più un imprenditore che vorrà investire in Italia”.
Il commento risulta, ovviamente
irritante, ma, più concretamente, pensando al disastro ambientale dell’Ilva
oppure all’incendio alle Acciaierie di Terni a Torino il pensiero corre a
quello che, apparentemente, sembra un conflitto insanabile fra ragioni produttive, obiettivi di
profitto e tematiche sanitarie e ambientali. Di fronte ad un contesto
internazionale (si pensi, ad esempio, ai paesi in via di sviluppo) senza regole
è possibile coniugare produzione e un livello di profitti accettabili con la salute e il rispetto dell’ambiente?
Posto che, per un paese civile, la risposta non può che essere positiva, è
opportuno che si comincino a creare quelle condizioni normative e culturali che
permettano l’effettiva messa in pratica del principio.
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