“Keynes o Hayek
– Lo scontro che ha definito l’economia moderna”, di Nicholas Wapshott, titolo
originale: “Keynes Hayek, the Clash that Defined Modern Economics”, traduzione
di Giancarlo Carlotti, Edizioni Feltrinelli, ISBN: 978-88-07-11122-8.
John Maynard
Keynes (1883 – 1946) e Friedrich von Hayek (1899 – 1992) sono due degli economisti
che più hanno influenzato il pensiero economico moderno. Il primo, forse il più
grande economista del XX secolo, è il padre riconosciuto della macroeconomia,
la branca di studio che si occupa del funzionamento dell’economia nel suo
complesso, a lui si deve la cosiddetta “rivoluzione keynesiana”, corrente di
pensiero che sostiene la necessità dell’intervento pubblico in economia con
l’obiettivo di mitigare gli effetti delle crisi e ricercare la piena
occupazione. A lui si deve una pubblicazione di grande influenza, la “Teoria
generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta” (The General Theory
of Employment, Interest and Money) apparsa nel 1936 e che finì per rivoluzionare
il pensiero economico.
Il secondo,
strenuo difensore di un approccio microeconomico (la branca che studia i
comportamenti dei singoli operatori economici) e ferocemente contrario a ogni
intervento pubblico in economia, risulta meno conosciuto del primo nonostante
il nobel conseguito nel 1974. Seppure di grande competenza e di riconosciute
capacità, Hayek deve la sua fama soprattutto al fatto di aver condotto per
tutta la propria vita professionale una strenua lotta contro il pensiero
keynesiano. Deciso oppositore di ogni forma d’intervento statale in economia, nel
1944 Hayek scrisse la sua opera più nota e di maggiore influenza “La Via della
Schiavitù” (The Road to Serfdom), che divenne un’icona dei conservatori (dai
quali egli però ci teneva a distinguersi definendosi un liberale!) e dove
sosteneva la pericolosità di tali interferenze che, secondo lui, avrebbero
finito per favorire l’insorgenza del totalitarismo.
La lotta fra le
due opposte ideologie si è sviluppata attraverso tutto il novecento e continua
tutt’oggi. Il pensiero keynesiano visse il suo periodo di massimo splendore
fino alla fine degli anni sessanta del novecento contribuendo a portare
l’economia americana a un livello di prosperità che, con le dovute proporzioni,
non fu più eguagliato. Le politiche keynesiane ispirarono anche il piano
Marshall, attuato in Europa e Giappone con l’esplicito intendimento di favorire
la ripresa economica e rafforzare le istituzioni democratiche favorendo,
attraverso l’idea del “welfare state”, il benessere economico e sociale e, nello
stesso tempo, fornendo un’alternativa ideologica in grado di contrapporsi al
comunismo. Le politiche keynesiane finirono per essere messe in crisi
dall’insorgenza della “stagflazione” (stagnazione in presenza di alti tassi d’inflazione)
sviluppatasi a seguito della crisi economica susseguente all’innalzamento dei
prezzi petroliferi (decisione presa dall’OPEC nel 1973 a seguito della politica
americana filo israeliana) e dall’uscita dal sistema di cambi fissi fra le
valute del Gold Standard. In realtà, però, furono soprattutto gli eccessi
ideologici e gli abusi della classe politica, che cominciò presto a utilizzare le
tecniche di manipolazioni dell’economia in funzione dei cicli elettorali, a
svilirne la natura e ad avviare le teorie keynesiane a una profonda fase di
revisione.
Gli anni
ottanta del novecento, soprattutto attraverso le politiche messe in atto dal
presidente americano Ronald Reagan e da Margaret Thatcher in Gran Bretagna, si
vide un ritorno alle teorie liberiste ispirate a Hayek, del quale, la “lady di
ferro” si dichiarava grande ammiratrice. Nonostante che egli rimanesse l’icona
e il portavoce delle idee liberiste, queste vennero in parte contaminate dalle
teorie macroeconomiche e furono notevolmente innovate grazie agli apporti della
scuola “monetarista” della quale l’economista Milton Friedman fu il principale
teorico ed esponente.
Per tutti gli anni ottanta del novecento fino
alla crisi del 2008 lo scontro ideologico continuò a svilupparsi attraverso la
contrapposizione delle due principali scuole economiche: quella di “acqua
dolce”, orientata al pensiero liberista e quella di “acqua salata” più propensa
verso l’ideologia keynesiana, in realtà, però, nel corso del tempo le
differenze fra le due opposte ideologie si sono notevolmente attenuate; nessuno
oggigiorno mette più seriamente in dubbio il ruolo e l’importanza della
macroeconomia e, di fatto, un qualche genere d’intervento pubblico
nell’economia è dato per scontato. Semmai la contrapposizione si è spostata su
temi più specifici, ad esempio riguardo alla modalità di attuazione di tale
intervento, parlando quindi di diversi usi ruoli e pesi assegnati alla leva
monetaria, alla spesa pubblica o alla leva fiscale, mentre il ruolo centrale
della discussione continua a rimanere focalizzato sul ruolo e sull’ampiezza che
deve avere l’intervento pubblico e del suo eventuale rapporto con la libera
iniziativa privata. In aggiunta, in Europa, presa dai suoi problemi di
omogeneizzazione delle diverse economie dei paesi aderenti all’euro, rimane invece
centrale la riflessione riguardo all’eccessivo livello dei disavanzi statali e,
ancora, si è alla ricerca di una soluzione che bilanci le esigenze di crescita
con quelle del rigore.
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