Per chi ha letto il romanzo “Q”, il capolavoro di Luther Blisset, lo
pseudonimo dietro al quale si cela il collettivo di scrittori Wu Ming, le
attuali esternazioni di Grillo e dei parlamentari del M5S devono ricordare il
clima creatosi tra gli anabattisti della città di Münster. L’episodio ha
effettivamente un riscontro storico. Nel 1534 Münster fu occupata dagli
anabattisti che, in pieno fervore religioso e rivoluzionario diedero corso ad
un esperimento sociale di carattere “comunista”, sprofondando la cittadinanza
in una dittatura da incubo (persino rispetto ai parametri di quel periodo!). L’attuale
fase di dibattito interno, alla caccia di spie e di nemici interni ed esterni, richiama
fin troppo da vicino questo tipo di situazioni deliranti. Guardando ai
movimenti di matrice populista, ai quali, oltre a quelli religiosi possiamo
certamente assimilare sia il comunismo, sia il nazionalsocialismo, ma anche
alcune fasi della rivoluzione francese, non si fatica a trovare esempi in cui,
partendo da premesse condivisibili, si finisce per degenerare nella dittatura e
nel delirio paranoide che, in sintesi porta direttamente al “terrore”.
Consiglierei ai Grillini di riflettere su queste cose, ricordando, nel frattempo,
che la politica è l’arte del compromesso. Mi sento di aggiungere, infine, che c’è
solo una genia più pericolosa dei disonesti, ed è quella dei “troppo puri”, che
da altre parti, forse più esotiche, prendono il nome di Talebani.
giovedì 30 maggio 2013
martedì 28 maggio 2013
Elezioni amministrative 28-05-13: Qualche riflessione
I risultati delle recenti elezioni
amministrative, come un Giano bifronte, si prestano a una lettura in
chiaroscuro. A mio avviso, esse sono caratterizzate sostanzialmente da tre
aspetti: Il notevole il calo dei votanti che, per esempio a Roma si attestano
appena sopra al cinquanta percento; il sostanziale calo del Movimento 5 Stelle,
in molti comuni più che dimezzato rispetto al voto delle politiche; il recupero
dello schieramento del centrosinistra. Nessuno di questi aspetti sembra casuale,
tutt’altro. La progressiva crisi dell’adesione al voto è, secondo me, un chiaro
sintomo della crisi del modello democratico, da una parte adegua l’Italia alla situazione riscontrabile in molte delle democrazie “più mature” e, non per questo, meno malate, dall’altra,
anch’essa ne mostra ormai chiaramente i sintomi. Nessuno pensa più veramente
che votare serva, nessuno ritiene di poter contare veramente attraverso il
voto, mentre cresce la consapevolezza rispetto all’inadeguatezza del modello
rappresentativo. I nostri riti elettorali non servono né a supportare una vera
rappresentatività per quanto, magari, frammentata e caotica, né all’opposto,
sembrano riuscire a fungere come metodo per selezionare una classe politica che
rappresenti la parte migliore della società. All’opposto, sembra quasi che il
sistema attui una selezione in negativo che porta al vertice lobbisti,
portaborse e, più genericamente, sfaccendati o, in altre parole, tutti quelli
che, nella vita non hanno di meglio da fare. Anche le recenti scelte politiche,
per quanto responsabili e comprensibili, a partire dal governo Monti per
passare a quello delle larghe intese di Letta, non fanno che dimostrare che la
politica è solo una mascherata e, nel momento in cui non ci si può più
permettere lo spettacolo, subentra qualche potentato economico a svolgere il
ruolo di tutore, allora perché agitarsi? Perché perdersi un week end
soleggiato? Cominciano a pensare in molti.
Il crollo dei Grillini, insieme
al rafforzamento del centrosinistra, sembra, invece, indicare sentimenti più
fluidi, tipici di una società in fermento dove rassegnazione e speranza sono
ancora in lotta per prevalere. Il M5S ha suscitato prima entusiasmo e poi
cocente delusione, è sembrato a molti un contenitore trasversale, una via
nuova, basata sul consenso verificato attraverso il canale multimediale,
lontano dal verticismo dei partiti e, pertanto, per definizione, pulito.
Anch’esso però ha fallito, in parte per la sua improvvisazione, ma soprattutto
per la sua impostazione populista e, se vogliamo, improntata a un manicheismo
ottuso, quasi da setta religiosa. Soprattutto, è emerso il limite di una
struttura per nulla democratica e anzi, completamente accentrata sulle persone
di Grillo e Casaleggio. Appena chiamato a condividere i doveri della politica,
il Movimento ha chiaramente messo in luce le scarse capacità pratiche della
leadership che, nel passare dal “dire” al “fare” è apparsa totalmente
inadeguata, come, per altro, sono apparsi incapaci di agire e trovare soluzioni
autonome i parlamentari M5S eletti nelle recenti politiche. Essi, non solo si
sono dimostrati, a dir poco, inesperti e digiuni di ogni pratica e ritualità
politica (il che sarebbe stato anche scusabile agli occhi degli elettori), ma,
ignorando completamente la grave situazione di emergenza economica e sociale
del Paese, si sono messi di traverso osteggiando la realizzazione di ogni
proposta ragionevole. Infine, mostrandosi completamente succubi del loro
leader, hanno spaventato non poco l’opinione pubblica dilapidato all’istante,
il patrimonio di fiducia che il Movimento aveva accumulato fino a quel momento.
Specularmente, si spiega la resurrezione del centrosinistra; nonostante il
danno d’immagine provocato dal flop alle elezioni, dallo scandalo MPS e dalle
lotte fra le varie correnti, fra giovani “turchi” e, fin troppo vecchi “dinosauri”,
il centrosinistra sembra effettivamente l’unica componente “viva”
nell’orizzonte politico italiano, l’unico laboratorio che dia l’impressione non
solo di distruggere e disfare, ma anche di produrre qualche soluzione nuova. In
qualche modo, seppur faticosamente, laggiù il nuovo avanza. Rimane da vedere
dove andranno gli orfani di Grillo, se realizzeranno un’auspicabile riforma del
Movimento, oppure se contribuiranno a dare vita a qualche nuova creatura
politica della quale ci sarebbe estremamente bisogno. Tutto ciò, nell’attesa
che la destra, soprattutto quella moderata, si smarchi definitivamente dal
ricatto e dall’impresentabile onnipresenza del Cavaliere.
giovedì 23 maggio 2013
Recensione: L’ultima Avventura del Pirata Long John Silver
"L’ultima
Avventura del Pirata Long John Silver”, di Björn Larsson, traduzione di Katia
De Marco, Edizioni Iperborea, ISBN: 978-88-7091-521-1.
Questo sembra un ulteriore e, forse, l’ultimo “colpo
di coda” del famosissimo antieroe Long John Silver detto Barbecue, incallito
pirata e coprotagonista, insieme al giovane Jim Hawkins, de “L’isola del Tesoro”, il noto romanzo
ottocentesco dello scrittore Robert Louis Stevenson.
Egli aveva già
vissuto una seconda e, a parer mio, splendida nuova vita per opera del
precedente romanzo di Björn Larsson: “La Storia del Pirata Long John Silver”
(iperborea, ISBN 978-88-7091-075-9), conclusosi rocambolescamente, lasciando ai
tanti ammiratori come il sottoscritto, almeno la speranza di saperlo
tranquillamente in pensione. Evidentemente, invece, anche l’Autore non ha
resistito al fascino del personaggio e non ha voluto lasciare dubbi rispetto
alla sorte di questo simpatico, anarchico guascone che, ancora una volta, torna
a farsi beffa di tutti, se stesso incluso.
La storia è breve ma, per chi ha amato questo
personaggio, conserva il fascino del romanzo originale. Non ha però senso
leggerla indipendentemente e fuori da quel contesto perché, questo sequel da tutto per noto e scontato e contiene
continui riferimenti all’opera precedente.
Detto schiettamente, i più maligni sono assolutamente
autorizzati a pensare che "L’ultima Avventura del Pirata Long John Silver”
sia una semplice e non faticosissima speculazione commerciale dell’Autore. Personalmente,
sono convinto che sia così, tuttavia, come fan, sono contento della ricomparsa
del vecchio Silver che riabbraccio volentieri come un vecchio amico.
venerdì 17 maggio 2013
Recensione: Europa Tedesca – La nuova geografia del potere
"Europa
Tedesca – La nuova geografia del potere”, titolo originale: “ Das deutsche Europa. Neus Machtlandschaften im Zeichen
der Krise” di Ulrich Beck, traduzione di Michele Sampaolo, Edizioni Laterza,
ISBN: 978-88-581-0736-2.
L’Autore offre una descrizione di come e perché, a
seguito della crisi economica, la Germania abbia acquisito un ruolo sempre
maggiore come arbitro politico ed economico nell’ambito dell’Unione Europea.
L’indispensabile capacità tedesca di fungere da creditore per tutti quei paesi
europei che risultano gravati da un disavanzo pubblico rilevante, la volontà di
imporre una politica finanziaria paneuropea improntata al rigore e la necessità
di rassicurare l’opinione pubblica interna attraverso una politica comunitaria
basata, apparentemente, sulla salvaguardia degli equilibri di bilancio e sulla
lotta all’inflazione, hanno determinato un forte accentramento di potere in
favore della cancelleria tedesca, la quale, è riuscita a porre in atto una
politica vincente sia sul tavolo della politica europea che su quello della
politica interna forzando più di una volta la mano sia ai partner europei sia
al parlamento tedesco attraverso una politica che subordina l’erogazione di
crediti ai paesi a rischio alla realizzazione di pesanti tagli e
ristrutturazioni e, nel contempo, sventola in ambito nazionale lo spauracchio
del fallimento dell’euro. Questa formula di successo si basa su un’accorta dose
di “soft power” caratterizzato da una certa ambivalenza sia in politica estera
dove, verso i partner europei si cerca di combinare il rispetto formale di facciata
dell’indipendenza degli stessi con l’ingerenza sostanziale nelle loro politiche
di bilancio, sia sul fronte interno, dove
attraverso l’idea dell’applicazione agli stati UE della formula del rigore, si sponsorizza,
in teoria, la difesa degli interessi e dello stile di vita tedesco, ma in
realtà, spesso, in nome dell’emergenza, si impone ai tedeschi lo sforzo
finanziario di stabilizzazione dell’euro e di finanziare i crescenti disavanzi
di alcuni dei partner UE. Tale formula di pragmatismo politico, fino ad adesso
pagante, comincia a mostrare aspetti di squilibrio e, “de facto”, rischia di minare
alla base alcune caratteristiche dell’Unione che, fino ad ora, si è aggregata
attorno a ideali di libertà e uguaglianza e si è sorretta su basi associative
volontarie non gerarchiche. Crescono intanto le contraddizioni intorno al
modello attuale dell’Unione che, ormai, ha rivelato una serie di linee di
fascia fra “Nord” e “Sud”, oppure fra i paesi che aderiscono all’euro o che
mantengono ancora la moneta nazionale. Sembra dunque avvicinarsi il momento in
cui bisognerà scegliere più chiaramente se ripiegare verso istanze nazionali oppure
rilanciare quelle unitarie rivitalizzando il progetto d’integrazione politica. L’Autore
mette in guardia rispetto a un programma d’integrazione che parta dall’alto,
che sia sostanzialmente frutto solo di scelte istituzionali e che si occupi principalmente
solo di aspetti amministrativi, fisco, finanza ed economia. Egli, invece, intravvede
la possibilità di attuare un processo che parta dal basso, da promuovere,
soprattutto, attraverso le istituzioni politiche e democratiche. Esso dovrebbe fare
perno, ad esempio, sulla rete di scambi culturali intereuropei e coinvolgere in
primis le persone e, in particolare, le nuove generazioni; avendo l’obiettivo
di far acquisire una maggior coscienza della propria qualità di ”europei”,
sensibilizzando l’opinione pubblica rispetto al bagaglio di valori comuni che
caratterizzano la cultura “Europea”, seppur nel rispetto delle nostre diverse
tradizioni culturali. Ciò, con lo scopo di far emergere chiaramente nella
percezione degli europei la consapevolezza di quei vantaggi che, spesso, diamo
per scontati e che rischiamo inconsapevolmente di perdere nel caso fallisse il
progetto unitario.
giovedì 9 maggio 2013
Recensione: Omero, Iliade
"Omero, Iliade”,
di Alessandro Baricco, Edizioni Feltrinelli, ISBN: 978-88-07-88143-5.
L’Autore
ripropone l’Iliade del poeta Omero, l’epica cronaca che narra la guerra di Troia
(avvenuta fra il 1300 e il 1200 a.C.).
L’opera è stata adattata per una lettura in pubblico, pertanto, il testo è stato arrangiato, tagliato e trasposto in prima persona perché, secondo Baricco, con il ricorso alla soggettività si sarebbe creato nell’auditorio un maggior coinvolgimento emotivo. L’Autore ha aggiunto alcune parti evidenziate in corsivo per distinguerle dal contenuto originale. Tale intervento, forse si poteva evitare e, a parer mio, queste intrusioni tradiscono un eccesso di protagonismo del narratore e non aggiungono molto a un lavoro che, comunque, risulta assai valido.
L’opera è stata adattata per una lettura in pubblico, pertanto, il testo è stato arrangiato, tagliato e trasposto in prima persona perché, secondo Baricco, con il ricorso alla soggettività si sarebbe creato nell’auditorio un maggior coinvolgimento emotivo. L’Autore ha aggiunto alcune parti evidenziate in corsivo per distinguerle dal contenuto originale. Tale intervento, forse si poteva evitare e, a parer mio, queste intrusioni tradiscono un eccesso di protagonismo del narratore e non aggiungono molto a un lavoro che, comunque, risulta assai valido.
Dal mio punto
di vista, la rielaborazione di Baricco è da considerarsi un successo, il testo,
agevole e coinvolgente, si divora in pochissimo tempo. L’Autore riesce perfettamente
a ricreare realisticamente la vicenda umana, obiettivo esplicito della sua rivisitazione;
i caratteri dei personaggi mi sono sembrati ben descritti e le vicende sono
narrate con la giusta carica di pathos, splendide e terrificanti le scene di battaglia.
Non ho termini
di paragone con l’opera originale che, come tanti studenti, ho studiato a
scuola senza, poi, riavvicinarmi più a essa. Forse, proprio questa lettura riuscirà a
riportarmi sui miei passi perché, l’opera di Omero merita sicuramente maggiore
attenzione.
martedì 7 maggio 2013
Recensione: Keynes o Hayek – Lo scontro che ha definito l’economia moderna
“Keynes o Hayek
– Lo scontro che ha definito l’economia moderna”, di Nicholas Wapshott, titolo
originale: “Keynes Hayek, the Clash that Defined Modern Economics”, traduzione
di Giancarlo Carlotti, Edizioni Feltrinelli, ISBN: 978-88-07-11122-8.
John Maynard
Keynes (1883 – 1946) e Friedrich von Hayek (1899 – 1992) sono due degli economisti
che più hanno influenzato il pensiero economico moderno. Il primo, forse il più
grande economista del XX secolo, è il padre riconosciuto della macroeconomia,
la branca di studio che si occupa del funzionamento dell’economia nel suo
complesso, a lui si deve la cosiddetta “rivoluzione keynesiana”, corrente di
pensiero che sostiene la necessità dell’intervento pubblico in economia con
l’obiettivo di mitigare gli effetti delle crisi e ricercare la piena
occupazione. A lui si deve una pubblicazione di grande influenza, la “Teoria
generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta” (The General Theory
of Employment, Interest and Money) apparsa nel 1936 e che finì per rivoluzionare
il pensiero economico.
Il secondo,
strenuo difensore di un approccio microeconomico (la branca che studia i
comportamenti dei singoli operatori economici) e ferocemente contrario a ogni
intervento pubblico in economia, risulta meno conosciuto del primo nonostante
il nobel conseguito nel 1974. Seppure di grande competenza e di riconosciute
capacità, Hayek deve la sua fama soprattutto al fatto di aver condotto per
tutta la propria vita professionale una strenua lotta contro il pensiero
keynesiano. Deciso oppositore di ogni forma d’intervento statale in economia, nel
1944 Hayek scrisse la sua opera più nota e di maggiore influenza “La Via della
Schiavitù” (The Road to Serfdom), che divenne un’icona dei conservatori (dai
quali egli però ci teneva a distinguersi definendosi un liberale!) e dove
sosteneva la pericolosità di tali interferenze che, secondo lui, avrebbero
finito per favorire l’insorgenza del totalitarismo.
La lotta fra le
due opposte ideologie si è sviluppata attraverso tutto il novecento e continua
tutt’oggi. Il pensiero keynesiano visse il suo periodo di massimo splendore
fino alla fine degli anni sessanta del novecento contribuendo a portare
l’economia americana a un livello di prosperità che, con le dovute proporzioni,
non fu più eguagliato. Le politiche keynesiane ispirarono anche il piano
Marshall, attuato in Europa e Giappone con l’esplicito intendimento di favorire
la ripresa economica e rafforzare le istituzioni democratiche favorendo,
attraverso l’idea del “welfare state”, il benessere economico e sociale e, nello
stesso tempo, fornendo un’alternativa ideologica in grado di contrapporsi al
comunismo. Le politiche keynesiane finirono per essere messe in crisi
dall’insorgenza della “stagflazione” (stagnazione in presenza di alti tassi d’inflazione)
sviluppatasi a seguito della crisi economica susseguente all’innalzamento dei
prezzi petroliferi (decisione presa dall’OPEC nel 1973 a seguito della politica
americana filo israeliana) e dall’uscita dal sistema di cambi fissi fra le
valute del Gold Standard. In realtà, però, furono soprattutto gli eccessi
ideologici e gli abusi della classe politica, che cominciò presto a utilizzare le
tecniche di manipolazioni dell’economia in funzione dei cicli elettorali, a
svilirne la natura e ad avviare le teorie keynesiane a una profonda fase di
revisione.
Gli anni
ottanta del novecento, soprattutto attraverso le politiche messe in atto dal
presidente americano Ronald Reagan e da Margaret Thatcher in Gran Bretagna, si
vide un ritorno alle teorie liberiste ispirate a Hayek, del quale, la “lady di
ferro” si dichiarava grande ammiratrice. Nonostante che egli rimanesse l’icona
e il portavoce delle idee liberiste, queste vennero in parte contaminate dalle
teorie macroeconomiche e furono notevolmente innovate grazie agli apporti della
scuola “monetarista” della quale l’economista Milton Friedman fu il principale
teorico ed esponente.
Per tutti gli anni ottanta del novecento fino
alla crisi del 2008 lo scontro ideologico continuò a svilupparsi attraverso la
contrapposizione delle due principali scuole economiche: quella di “acqua
dolce”, orientata al pensiero liberista e quella di “acqua salata” più propensa
verso l’ideologia keynesiana, in realtà, però, nel corso del tempo le
differenze fra le due opposte ideologie si sono notevolmente attenuate; nessuno
oggigiorno mette più seriamente in dubbio il ruolo e l’importanza della
macroeconomia e, di fatto, un qualche genere d’intervento pubblico
nell’economia è dato per scontato. Semmai la contrapposizione si è spostata su
temi più specifici, ad esempio riguardo alla modalità di attuazione di tale
intervento, parlando quindi di diversi usi ruoli e pesi assegnati alla leva
monetaria, alla spesa pubblica o alla leva fiscale, mentre il ruolo centrale
della discussione continua a rimanere focalizzato sul ruolo e sull’ampiezza che
deve avere l’intervento pubblico e del suo eventuale rapporto con la libera
iniziativa privata. In aggiunta, in Europa, presa dai suoi problemi di
omogeneizzazione delle diverse economie dei paesi aderenti all’euro, rimane invece
centrale la riflessione riguardo all’eccessivo livello dei disavanzi statali e,
ancora, si è alla ricerca di una soluzione che bilanci le esigenze di crescita
con quelle del rigore.
sabato 4 maggio 2013
Recensione: Occidente: Ascesa e Crisi di una Civiltà
“Occidente: Ascesa e Crisi di una Civiltà”, di
Nial Ferguson, titolo originale: “Civilization, the West and the Rest”,
traduzione di Aldo Piccato, Edizioni Mondadori, ISBN: 978-88-04-62527-8.
Nel XV secolo l’Occidente, in particolare
l’Europa, erano luoghi remoti, sottosviluppati e relativamente poco importanti
se messi in paragone con lo splendore dell’impero Ming, di quello ottomano o
anche solo con i regni del subcontinente indiano; da lì a poco però, la civiltà
occidentale avrebbe cominciato a crescere in termini di potenza, influenza e
importanza finendo per dominare il globo nel corso del XX secolo. Dalla seconda
metà del novecento, invece, qualcosa sembra essere cambiato e, dopo secoli di
predominio, l’Occidente appare progressivamente sempre più in affanno rispetto
all’affermazione di altre grandi civiltà, in particolar modo quella cinese e quell’indiana. In
quest’ottica l’Autore si pone sostanzialmente due interrogativi: il primo
riguarda la determinazione di quegli elementi che, nel corso dei secoli, hanno
permesso alle nazioni occidentali di prevalere sulle altre per tanto tempo a
discapito di una situazione di partenza apparentemente non ideale; il secondo e
forse per noi più importante, s’interroga sulla perdita di potere relativo
dell’Occidente sia in campo militare, sia in termini culturali ed economici. Di
fronte alla tumultuosa ascesa della Cina e a quella più silenziosa ma forse per
certi versi più insidiosa di altre nazioni (es. India e Brasile), i paesi occidentali
sono destinati a tornare nella periferia del mondo e a scivolare
nell’irrilevanza?
Rispetto alle ragioni che hanno determinato
l’affermazione delle nazioni occidentali, sono stati scritti fiumi d’inchiostro
e, sotto questo punto di vista, il libro di Ferguson espone un’analisi molto
interessante ma non del tutto innovativa che introduce solo alcuni interessanti
elementi di novità rispetto a quanto è già stato evidenziato da altri autori.
Tutto ciò però non deve spaventare il lettore perché questo libro, come altri
dello stesso studioso è tutt’altro che scontato o noioso e, il fatto che i
fattori di successo siano grossomodo già noti in quanto già da tempo
individuati e analizzati e che siano già stati citati e sviluppati in altre
opere non toglie nulla al piacere della lettura. Il testo è scorrevole,
l’esposizione è ben organizzata e ogni pagina è ricca di aneddoti e storie
interessanti.
Per tornare alle ragioni del successo
occidentale, Ferguson individua principalmente i seguenti fattori: la
competizione, la scienza, i diritti di proprietà, la medicina, il consumismo e
infine l’etica e l’organizzazione del lavoro.
Ecco quindi emergere dei fatti già noti ma anche
degli elementi di originalità perché, mentre è già stato rimarcato ampiamente
il ruolo della scienza e della medicina occidentali ed è anche stato rammentato
più volte come la relativa frammentazione geografica delle nazioni europee
abbia favorito fra esse una forte dinamica competitiva che le ha portate a
eccellere sia in campo bellico sia commerciale, pochi autori si sono soffermati
su alcuni aspetti peculiari che hanno fortemente differenziato la cultura
occidentale dalle altre. Ecco quindi che vengono citati dei fattori di successo
meno scontati rispetto ad altri. L’Autore evidenzia l’importanza che ha assunto
il tema del diritto di proprietà che, a ben vedere, costituisce uno dei
principi cardine dei nostri sistemi giuridici e legali e che, effettivamente,
ha contribuito in maniera determinante a definire il grado di separatezza e d’intervento
fra la sfera pubblica e privata e che forse, un po’ inaspettatamente, si rivela
come fondamentale per promuovere l’evoluzione verso sistemi politici largamente
rappresentativi e democratici. Sorprendente e illuminante è anche il ruolo che
l’Autore attribuisce al fenomeno del consumismo; questo concetto è spesso è un
po’ ambiguo anche per noi occidentali e, difficilmente, nel nostro vivere
quotidiano, ci soffermiamo a pensare a quanto esso sia stato invece fondamentale
ai fini dello sviluppo del modo di vivere occidentale. L’Autore riserva anche
una certa attenzione all’etica e all’organizzazione del lavoro e alle sue
ricadute in termini sociali e tecnologici, ma anche rispetto al rapporto con i
mutamenti ambientali e al fenomeno dell’urbanizzazione. Viene anche
enfatizzato, per certi versi inaspettatamente, il ruolo della religione
cristiana, soprattutto nella sua versione riformata, come fattore motivazionale
dell’attività imprenditoriale e come elemento promotore dell’etica del lavoro.
Riguardo alle domande sul ruolo futuro
dell’occidente, nel momento in cui altre culture sono in procinto di
raggiungere i nostri stessi standard in termini di conoscenze tecnologiche, scientifiche
e di potere militare, sono proprio i particolari fattori di successo enfatizzati da
Ferguson nel corso dell’opera che permettono una lettura non per forza
pessimistica del nostro ruolo e del nostro futuro. L’Autore ci fa notare che i
nostri “competitors”, nel tentativo di insidiare il primato occidentale hanno
finito per assomigliarci. Le masse cinesi e indiane aspirano agli stessi beni e
alle stesse opportunità che sono ormai uno standard in occidente, i loro
sistemi giuridici ricalcano largamente i nostri, il loro modo di vivere, di
mangiare e persino di vestirsi è sempre più simile al nostro e, persino le
religioni occidentali spopolano in Cina. E’ possibile che, nel corso del
prossimo secolo si riduca sensibilmente il ruolo e l’importanza dei paesi
occidentali ma nel frattempo, difficilmente risulta immaginabile che sorgano
degli elementi che mettano in seria discussione gli aspetti caratterizzanti della
cultura occidentale che, oramai, sono diventati uno standard globalizzato.
Dunque, la nostra cultura non sembra correre sostanziali pericoli, forse ci dobbiamo solo abituare all’idea che, in futuro anche altri
contribuiranno a farla evolvere e plasmare.
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