venerdì 2 maggio 2014

Recensione: La trappola dell’austerity – Perché lì ideologia del rigore blocca la ripresa


“La trappola dell’austerity – Perché lì ideologia del rigore blocca la ripresa”, di Federico Rampini editrice Laterza-La Repubblica, ISBN: 978-88-581-1163-5.
L’Autore parte costatando che le economie mondiali, ad eccezione della zona euro, godono di ottima salute. Gli Usa sembrano ormai fuori dalla crisi e navigano su tassi di crescita del PIL intorno al 4%, mentre ogni mese l’occupazione cresce di centinaia di migliaia d’unità (178.000 è la media mensile per i primi tre mesi del 2014). Pure il Giappone, afflitto da una stagnazione più che ventennale sembra essere uscito dal letargo con tassi di crescita superiori all’1,5% (in realtà per il 2014 le previsioni del FMI sono, però, orientate al ribasso, intorno all’1,4%!). Non parliamo, invece, delle altre economie; Cina e India, ma anche Corea, Indonesia e Brasile, continuano a snocciolare tassi di crescita impressionanti, ed è previsto che seguano lo stesso trend anche nel 2014. Solo l’Europa resta al palo, in bilico fra stagnazione, crisi e una stentata ripresa che, al meglio delle previsioni dovrebbe attestarsi intorno al + 1,2% nella zona euro per il 2014 (fonte: European Commision IP/14/188 del 25/02/14) contro una media del 4% a livello mondiale. Come mai, si chiede Rampini, l’Europa arranca e fatica a uscire dalla crisi in un contesto mondiale sostanzialmente roseo dal punto di vista della crescita?
Secondo l’Autore, molte delle responsabilità sono da ricercare nella politica di rigore perseguita dai governi europei e ispirata dai diktat tedeschi. Imputata principale, la politica dell’austerity incentrata sui tagli ai bilanci cui fa seguito una politica monetaria della BCE considerata, da alcuni, conservatrice e non sufficientemente “aggressiva”. Proprio riguardo alla politica monetaria, oggigiorno si sta rapidamente diffondendo un nuovo “Verbo” incentrato su una particolare interpretazione dei modelli keynesiani e che prevede un uso poco ortodosso (secondo gli schemi correnti) della leva monetaria abbinata a una marcata politica di disavanzo pubblico. La nuova tendenza passa sotto il nome di “Teoria Monetaria Moderna” (MMT- Modern Monetary Theory) e, i suoi sostenitori, ritengono che sia soprattutto grazie alla sua applicazione che USA e Giappone siano usciti rapidamente dalle secche. La MMT supera da sinistra la visione delle colombe neokeynesiane, già favorevoli a una visione meno rigorosa dei vincoli sul disavanzo (es. Paul Krugman e Joseph Stigliz), affermando senza mezzi termini che non ci sono tetti e limiti razionali al deficit e al debito pubblico sostenibile da uno Stato. Le banche centrali, infatti, avrebbero la possibilità illimitata di finanziarlo stampando moneta e anzi, avrebbero il dovere di farlo per garantire la piena occupazione.
Queste affermazioni che, secondo il pensiero economico europeo di orientamento rigorista, suonano come perniciose eresie, stanno facendo proseliti non solo fra gli economisti ma anche fra gente comune e capi-popolo e, di conseguenza, cresce il malcontento e la disaffezione verso l’Unione, l’euro e le sue regole.
Di là dalla propria opinione nei confronti della MMT (io personalmente sono un po’ scettico al riguardo!), il saggio è utile per comprendere che, effettivamente, e soprattutto in economia, non bisogna essere dogmatici, né in un senso, né nell’altro. Le politiche economiche, in ultima analisi, sono scelte e, i mezzi per portarle a termine, sono strumenti; nulla è sacro, nulla è immutabile e, soprattutto, non esiste una ricetta assoluta valida per tutte le stagioni, ma solo misure che sono buone o cattive in funzione del tempo e della situazione per la quale sono attuate. Molti sono gli accenni che Rampini, in poche pagine, ci elargisce spingendoci a qualche approfondimento e, sarà un caso, ma ormai, sono parecchie le voci autorevoli che chiedono di imitare la politica monetaria della FED o che s’ispirano alle iniziative economiche messe in atto del primo ministro giapponese Shinzo Abe per far uscire il paese dalle secche della “Trappola della liquidità”. Cresce, nel frattempo, la consapevolezza riguardo ai conglomerati bancari, spesso ormai troppo grandi perché possano essere lasciati fallire (“Too big to fail”) e che, secondo alcuni, andrebbero smembrati; mentre ormai sembra avviarsi al tramonto l’autorevolezza dei “Signori del Rating” e, nello stesso tempo, cresce l’importanza dei grandi fondi d’investimento e di quelli sovrani, sempre più protagonisti della grande finanza internazionale (e non solo di questa!).
Un bel libro davvero, semplice, scorrevole e decisamente pieno di fatti curiosi e interessanti.

lunedì 28 aprile 2014

Recensione: Il Demone della Paura


“Il Demone della Paura”, di Zygmunt Bauman, editrice Laterza-La Repubblica, ISBN: 978-88-581-1195-6.
Il saggio è incentrato sulle paure dell’uomo moderno e sulla loro evoluzione in funzione dell’importanza che esse assumono nella percezione dei singoli e nell’immaginario collettivo.
 Il timore è da sempre presente nell’uomo e, fin dagli albori ne ha condizionato la spinta evolutiva e l’organizzazione sociale. Spesso, le paure sono diffuse, alimentate e amplificate attraverso l’opera, più o meno consapevole, dei mass media e, non di rado, esse si prestano a essere manipolate o sfruttate da parte di alcune istituzioni politiche ed economiche che trovano la propria funzione, giustificazione e/o il loro tornaconto nel sopperire a esse. Dall’altra parte, altrettanto frequentemente, sono proprio gli organi sociali e politici a farsi condizionare da timori reali e astratti e a contribuire al diffondersi si ansie, fobie e timori generalizzati.
Nel corso dell’opera l’Autore esegue una breve ricognizione dei nostri principali timori tracciando una mappa della loro evoluzione recente, ecco quindi che essi, in alcuni casi s’incarnano in forme umana in conformità a stereotipi, per esempio attraverso la figura del terrorista e/o del criminale; spesso, a loro volta, associati all’immagine dell’immigrato, personaggio alieno per definizione e, pertanto, automaticamente sospetto agli occhi degli autoctoni. Altre volte, emergono e prevalgono altre forme di ansia, ad esempio legate alla globalizzazione e a tutti i suoi effetti negativi sulla sfera economica e occupazionale e, ancora, tutti i timori legati alla salute originati, dal terrore della diffusione di malattie e contagi (es. Sars, Aids, pandemia pseudo “spagnola”) o, dal nostro modo di vivere (es. tumori, prione di “mucca pazza”, obesità, bulimia e anoressia) o, all’opposto, dal diffondersi di pseudoscienze o di cattiva informazione (es. i timori, spesso ingiustificati nei confronti dei vaccini) o, ancora, le fobie legate alla contaminazione di cibi e bevande.
L’evoluzione nel modo di sentire la paura si riflette ed anche si genera dal diverso approccio che l’essere umano ha nei confronti di sé e degli altri. Il ripiegamento verso forme sempre più evidenti d’individualismo non fa che aumentare la nostra propensione a sviluppare forme sempre più diffuse di ansia legate alla percezione della nostra fragilità e insicurezza e che trova un riscontro nelle mode, produce un forte impatto sulla politica e, secondo l’Autore, si avverte anche attraverso l’evoluzione dell’urbanistica. Riguardo a questo aspetto particolare Bauman ci fa notare quanto sia cambiata la nostra percezione della città vista come insieme. L’agglomerato urbano nasce spesso ed essenzialmente come risorsa difensiva nei confronti dell’ambiente esterno, per definizione, selvaggio e quindi pericoloso. Con il crescere dell’urbanizzazione, della congestione e della fluidità delle città, aumenta, invece, la sensazione che il pericolo ormai provenga soprattutto dall’interno e, di conseguenza, la città non viene più considerata come un luogo sicuro, mentre, nel frattempo, s’innalza il senso di mutua alienazione fra i cittadini. Questo si riflette nel trend in espansione che sopperisce alla crescita della domanda di sicurezza individuale che, ormai è sfruttata e reclamizzata attivamente attraverso la creazione di dotazioni atte a garantire la privacy, l’inviolabilità e l’impermeabilità dei luoghi.
Un saggio piacevole da leggere e con spunti interessanti, ma che, a causa del ridotto numero di pagine, non approfondisce abbastanza gli argomenti trattati.

venerdì 18 aprile 2014

Recensione: Destra e Sinistra - Significati di una distinzione politica


“Destra e Sinistra”, di Norberto Bobbio, editrice Donzelli, ISBN: 978-88-6843-039-9.
Si tratta della re-edizione pubblicata in occasione del ventennale della prima uscita del saggio, apparso, appunto, per la prima volta nel 1994 (e ripubblicato con varie aggiunte già nel 1999 e nel 2004, visto il grande successo avuto presso il pubblico).
 Le riflessioni del filosofo torinese uscirono in prossimità delle elezioni politiche, le prime tenute secondo quanto previsto dal “Mattarellum” che modificava il sistema puramente proporzionale introducendo il maggioritario. Com’è noto, le elezioni segnarono la discesa in campo e l’affermazione di Silvio Berlusconi e della sua nuova creatura politica, il movimento/partito di Forza Italia, che vinse le elezioni.
In questo contesto storico e politico di grande trasformazione dove, dentro e fuori dal nostro Paese, ci si confrontava con gli effetti della caduta della “Cortina di ferro” e con il collasso dell’”Arci-nemico” dell’Occidente, l’Unione Sovietica e dei principali regimi comunisti a essa alleati, l’Autore risponde alle obiezioni di chi ritiene superata la storica contrapposizione fra destra e sinistra. Questi sono anni che vedono una grande trasformazione dei partiti ex-comunisti che, salvo piccole frange estreme, danno l’impressione di voler convergere sempre di più verso il “Centro”, nel tentativo di adeguarsi al clima apparentemente vittorioso di un sistema capitalistico che sembra destinato a rimanere l’unico arbitro della situazione sociale. Sono gli anni in cui appaiono opere di saggistica di grande successo che tendono a negare la ragione per mantenere un focus sulle differenze fra ”Destra – Sinistra”; ad esempio, nel 1992 è pubblicata “La fine della Storia” di Francis Fukuyama, (all’interno del saggio è contenuto un commento di Bobbio riguardo a questa pubblicazione); mentre nel 1996 uscirà una delle opere più rappresentative del nuovo ciclo interpretativo della storia: “Lo Scontro delle Civiltà” di Samuel P. Huntington che sminuirà l’importanza dell’economia e delle ideologie come cause dei conflitti futuri e che, invece, enfatizzerà più le ragioni di differenza culturale lungo quelle aree geografiche che egli chiama “linee di faglia”.
Bobbio non nega il cambiamento dei tempi, ma ritiene che la differenza fra destra e sinistra continuerà ad avere senso e a essere presa come riferimento in politica. Egli spiega le sue motivazioni cercando nel frattempo di definire oggettivamente le ragioni della distinzione che contrappongono i due termini della diade. Secondo la sua opinione, detta distinzione va ricercata soprattutto sul diverso significato e sull’importanza che, i soggetti proclamatisi di una o dell’altra fazione, danno ai termini “Libertà” e, soprattutto “Eguaglianza”.
Come il solito, la dissertazione si svolge in tono rigoroso, pacato e, se vogliamo, anche un po’ pedante, cioè secondo lo stile tipico del filosofo, sempre estremamente preciso, mai aggressivo né, tantomeno esaltato.
Veramente una buona lettura.

mercoledì 2 aprile 2014

Recensione: Nebbia


“Nebbia”, di Ivano Mingotti, editrice Ded’a, ISBN: 9788896121917.
La storia si svolge a Beaumont, un piccolo villaggio semi isolato fra le montagne, poche decine di case, una sola strada che lo collega a una vallata. La vita a Beaumont è quella tipica dei paesini, tutti si conoscono, tutti sanno tutto di tutti e le giornate tirano avanti una dietro l’altra, lente, noiose e ripetitive. Pure il clima non aiuta, Beaumont sembra sempre avvolta nella nebbia. Eppure in questo paese qualcosa non quadra tutto appare un po’ sfuocato e nello stesso tempo soffocante. Soprattutto, a Beaumont la gente sparisce nel nulla senza fare più ritorno, senza lasciare tracce e, stranamente, senza destare particolari emozioni nei compaesani a parte un certo rassegnato fatalismo.
Ci vorrà un evento straordinario per spingere alcuni dei protagonisti a cercare di chiarire il mistero di queste strane sparizioni e nel frattempo per spiegare la strana atmosfera surreale che aleggia sul paese e sui suoi abitanti.
Ho ricevuto questo romanzo in maniera un po’ casuale attraverso il network di Anobii; tra l’altro, devo ammettere che non sono particolarmente amante del genere thriller e, soprattutto, ultimamente leggo quasi esclusivamente opere di saggistica alternate a qualche classico della letteratura. Non mi ritengo quindi il soggetto più adatto per esprimere giudizi riguardo alla validità di questo romanzo che, probabilmente, non avrebbe attratto la mia attenzione in libreria. Fatta questa lunga e doverosa premessa, penso che l’Autore sia partito da un’ottima idea e che l’abbia poi sviluppata abbastanza bene. Alla fine il romanzo mi è piaciuto abbastanza, soprattutto perché mi è apparsa curiosa almeno quanto mi abbia lasciato perplesso, la scelta stilistica dell’Autore, coraggiosa ma, infine anche abusata. Il romanzo si svolge attraverso una serie di anafore senza fine, tanto da diventare fastidiose, frasi corte, ritmo sincopato, clima claustrofobico e ossessivo. Penso che questo tipo di effetto fosse desiderato dall’Autore ma, per me, ha esagerato e avrebbe dovuto alternare queste parti che, a piccole dosi sarebbero state molto efficaci, con altre di stile più classico dove, tra l’altro, egli avrebbe potuto dimostrare di saper descrivere davvero sia i luoghi sia i personaggi, entrambi lasciati, forse volutamente, senza spessore.

martedì 1 aprile 2014

Cronache di Torino: La caduta del "cittadino" Mussolini


Martedì 01 aprile 2014, a Torino Benito Mussolini non è più di casa, la sua cittadinanza onoraria datata 1924 è stata “cerimoniosamente” stralciata dal registro dei cittadini onorari per opera del nostro governo cittadino. La popolazione finalmente può dormire sonni tranquilli!
Si potrebbe affrontare il discorso nei confronti di quest’operazione politica da molti punti di vista, il primo, istintivo e forse qualunquistico sarebbe sicuramente porre la fatidica domanda: “Ma non avevano nulla di più urgente da fare?”, a me interessa però un altro aspetto, quello della Storia.
Tutti sanno, o dovrebbero sapere, chi fu Benito Mussolini; la Storia l’ha già abbondantemente giudicato mostrandone i tanti, terribili, errori compiuti ed anche, se uno si documenta abbastanza bene, rilevando quello che egli fece di buono. Alla fine, è noto come la bilancia del giudizio globale pesi notevolmente a sfavore delle opere e delle ideologie messe in atto da questo personaggio. Tutto però si può dire contro o a favore di lui tranne una cosa, e cioè, non si può negare che egli abbia occupato un posto rilevante nella storia mondiale e, in particolare, in quella del nostro Paese.
Proprio per questa ragione non ritengo giusto cercare di cancellare il suo ricordo in nessun modo. Semmai, la sua figura va spiegata alle nuove generazioni e, pertanto, più si lasciano inalterati i segni del suo passaggio più ci saranno occasioni per poterne parlare, sperando che il passato non sia obliato ma che, al contrario ci rimanga da monito per il nostro agire futuro.
Non penso quindi che né Torino, né tantomeno gli attuali torinesi debbano preoccuparsi o vergognarsi del conferimento a Mussolini della cittadinanza onoraria; alla fine, se vogliamo fare un parallelo, le nostre strade portano spesso i nomi di una casa reale che non fu sempre irreprensibile; anche questa, però, è la nostra storia, non abbiamo il diritto di rinnegarla, solo di spiegarla.
La decisione di insignire della cittadinanza onoraria l’allora versione incarnata del sempiterno “Salvatore della Patria” fu opera della solita élite compiacente e ossequiosa verso il potere. Oggigiorno, tutto ciò si configura come un semplice dato di fatto, un evento storico che, come altri rimane da capire e inquadrare nel giusto contesto. Oggigiorno più che altro, questi fatti costituiscono semplici curiosità. Sarebbe bene però che queste azioni non fossero cancellate o nascoste, semmai esse dovrebbero essere commentate, in modo che in futuro rimanga una traccia, un monito a non compiere i medesimi errori, a frenare eventuali entusiasmi e infatuazioni del momento, magari verso altri personaggi apparentemente ammantati di luce ma destinati a cadere anch’essi in disgrazia.
Dormi in pace cittadino Mussolini, la macchia che hai lasciato sul nostro libro emerito non è la peggiore che ti porti sulla coscienza, per me anzi, eri più utile in quell’elenco che fuori da esso.
Che rimanga memoria di tutto questo, che sia salvato tutto, che si restaurino persino le scritte che ancora si ostinano ad apparire attraverso gli intonaci dei muri delle case agli ingressi dei nostri paesi; in modo che i nostri figli s’interroghino e ci interroghino nel vederle, perché sappiano cosa avvenne e quale fu il vero epilogo di “sparate” come “Vincere o Morire!”.

lunedì 24 marzo 2014

Recensione: Ammazziamo il Gattopardo


“Ammazziamo il Gattopardo”, di Alan Friedman, edizioni Rizzoli, ISBN 978-88-17- 07216-8.
L’Autore, giornalista economico è un americano che ha svolto lungamente l’attività di corrispondente estero dal nostro Paese, che conosce fin dagli anni ottanta. Ed è proprio da quei “meravigliosi anni ottanta” che Friedman parte per svelarci gli ultimi trent’anni delle sue osservazioni; era il tempo gaudente della “Milano da bere”, del socialismo craxiano e rampante, dell’Italia consacrata quinta potenza economica mondiale che un po’ stupiva per quel curioso mescolamento di vecchio e (supposto) nuovo ma che, secondo l’Autore, dietro la facciata di una modernizzazione e di un dinamismo solo apparente nascondeva una rigida struttura corporativa e di poteri forti che ha continuato a perpetuarsi fino ai giorni nostri, ingessando il Paese e portandolo allo stato di prolungata decadenza che è quello che ha caratterizzato l’ultimo ventennio. Freidmann racconta dunque di una grande occasione perduta nel passato per modernizzarsi davvero, causata soprattutto da una mancata applicazione da parte delle nostre elite politiche ed economiche di un vero processo di liberalizzazione e di democratizzazione che si sostituisse alla politica dei “salotti buoni” e delle lobby di potere. Una storia condita di confitti d’interesse, populismo, corporativismo di destra e di sinistra, mancanza di volontà, trasparenza e immaturità politica che denunciava l’incapacità della nostra leadership nell’attuare riforme sociali ed economiche necessarie ma impopolari.
Pensando invece al presente e al futuro, l’Autore lancia un chiaro avvertimento: O si cambia o si muore! Secondo lui, gli italiani non devono illudersi, o accetteranno una serie di profonde trasformazioni per rinnovare il Paese e la sua mentalità, oppure la crisi continuerà inesorabile a soffocare lentamente la nostra economia e a sprofondarci nell’irrilevanza.
La seconda parte del libro è dedicata alla descrizione di una serie di riforme che Friedmann suggerisce di attuare, una cura da cavalli che prevede una riforma profonda che interessi vari ambiti insieme. Fra i vari ingredienti figurano: una riforma profonda del diritto del lavoro che preveda il superamento dello Statuto dei Lavoratori in senso liberista; un serio approccio teso alla riduzione del debito pubblico da attuarsi attraverso un programma incisivo di dismissioni e di razionalizzazione della spesa; una revisione dell’autonomia e della capacità di spesa delle Regioni (vere responsabili di gran parte del dissesto dei conti pubblici); un vero e proprio programma di demolizione delle barriere corporative allo scopo di vivificare la concorrenza e l’efficienza; una profonda riforma dell’amministrazione pubblica; una politica a tutto campo di valorizzazione del lavoro femminile; una revisione della spesa pensionistica e una “piccola” patrimoniale. A tutto ciò, l’Autore aggiunge una serie di contrappesi sociali che permettano di rendere le riforme effettivamente attuabili e, soprattutto, sopportabili dalle fasce più povere della popolazione.
Ne viene fuori un bel libro, sincero e condivisibile in molte delle sue parti anche se, forse viziato da una visione un po’ troppo anglosassone (e darwinista) della vita; (sarò forse anch’io un po’ gattopardo?!). Quest’ultima mia riserva e considerazione non cambia dunque il giudizio generale su quest’opera; questo libro vale sicuramente la pena di leggerlo, chiedendoci in tutta onestà quante delle soluzioni proposte siano effettivamente da prendere in considerazione anche a onta dei nostri interessi personali per arrivare a quell’inversione di tendenza, unica reale precondizione che assicuri un nuovo futuro di sviluppo per i nostri figli.

 

mercoledì 5 marzo 2014

Recensione: Alamo – Per la Storia non fidatevi di Hollywood

“Alamo – Per la Storia non fidatevi di Hollywood”, titolo originale: “El Alamo”, di Paco Ignacio Taibo II, Traduzione di Pino Cacucci, edizioni Tropea, ISBN 978-88-558-0227-7.

L’Autore ricostruisce la vicenda dell’assedio di Alamo e dei principali scontri della guerra d’indipendenza texana del 1836, la battaglia di Coleto e la definitiva vittoria texana di San Jacinto. Gli scopi dell’opera sembrano plurimi perché PITII si pone sia l’obiettivo di dimostrare l’importanza di questi fatti nella costruzione del mito, della cultura ed anche di una certa retorica nord-americana, sia di rendere evidente quanta distanza esista fra l’ambiente storico e i fatti reali rispetto a quanto sia stato invece riproposto nell’ampia produzione letteraria e, soprattutto, cinematografica, riguardo questi avvenimenti.
L’opera si sviluppa attraverso una dettagliata descrizione dei principali protagonisti e un’attenta ricostruzione della situazione fisica e politica nella quale avvennero i fatti, inframmezzando però molti personaggi, aneddoti e siparietti minori e condendo il tutto con uno stile velato da una dissacrante quanto giustificata ironia.
Personalmente, non sono molto esperto di queste vicende storiche ma, a mio parere, PITII riesce a ricondurre i fatti e i personaggi a quello che erano, senza risparmiare nessuno, né i messicani, né i texani.
La guerra d’indipendenza è dunque presentata per quello che doveva essere, cioè una serie di moti promossi da immigrati dell’ultima ora, ma soprattutto, da schiavisti, avventurieri e speculatori di ogni risma contro un governo centrale che, effettivamente era lontano, assente e corrotto, ma pur sempre meno incivile rispetto agli standard morali dei cosiddetti padri fondatori dell’indipendenza texana. Tutti i personaggi principali della vicenda di parte texana: William Travis, Jim Bowie, Davy Crocket, James Fannin e Sam Huston vengono ridotti a quel che erano, una manica di falliti, vagabondi, fuggitivi, farabutti, violenti, truffatori e alcolizzati che nessuno vorrebbe come vicini di casa; e, ovviamente, ma questo già lo sapevamo, anche il generale Antonio Lòpez de Santa Anna non ci fa una migliore figura. Altro che cappello di castoro e indomito coraggio in nome della libertà!