“La trappola dell’austerity –
Perché lì ideologia del rigore blocca la ripresa”, di Federico Rampini editrice
Laterza-La Repubblica, ISBN: 978-88-581-1163-5.
L’Autore parte costatando che le
economie mondiali, ad eccezione della zona euro, godono di ottima salute. Gli
Usa sembrano ormai fuori dalla crisi e navigano su tassi di crescita del PIL
intorno al 4%, mentre ogni mese l’occupazione cresce di centinaia di migliaia
d’unità (178.000 è la media mensile per i primi tre mesi del 2014). Pure il
Giappone, afflitto da una stagnazione più che ventennale sembra essere uscito
dal letargo con tassi di crescita superiori all’1,5% (in realtà per il 2014 le
previsioni del FMI sono, però, orientate al ribasso, intorno all’1,4%!). Non
parliamo, invece, delle altre economie; Cina e India, ma anche Corea, Indonesia
e Brasile, continuano a snocciolare tassi di crescita impressionanti, ed è
previsto che seguano lo stesso trend anche nel 2014. Solo l’Europa resta al
palo, in bilico fra stagnazione, crisi e una stentata ripresa che, al meglio
delle previsioni dovrebbe attestarsi intorno al + 1,2% nella zona euro per il
2014 (fonte: European Commision IP/14/188 del 25/02/14) contro una media del 4%
a livello mondiale. Come mai, si chiede Rampini, l’Europa arranca e fatica a
uscire dalla crisi in un contesto mondiale sostanzialmente roseo dal punto di
vista della crescita?
Secondo l’Autore, molte delle
responsabilità sono da ricercare nella politica di rigore perseguita dai
governi europei e ispirata dai diktat tedeschi. Imputata principale, la
politica dell’austerity incentrata sui tagli ai bilanci cui fa seguito una
politica monetaria della BCE considerata, da alcuni, conservatrice e non
sufficientemente “aggressiva”. Proprio riguardo alla politica monetaria,
oggigiorno si sta rapidamente diffondendo un nuovo “Verbo” incentrato su una
particolare interpretazione dei modelli keynesiani e che prevede un uso poco
ortodosso (secondo gli schemi correnti) della leva monetaria abbinata a una
marcata politica di disavanzo pubblico. La nuova tendenza passa sotto il nome
di “Teoria Monetaria Moderna” (MMT- Modern Monetary Theory) e, i suoi
sostenitori, ritengono che sia soprattutto grazie alla sua applicazione che USA
e Giappone siano usciti rapidamente dalle secche. La MMT supera da sinistra la
visione delle colombe neokeynesiane, già favorevoli a una visione meno rigorosa
dei vincoli sul disavanzo (es. Paul Krugman e Joseph Stigliz), affermando senza
mezzi termini che non ci sono tetti e limiti razionali al deficit e al debito
pubblico sostenibile da uno Stato. Le banche centrali, infatti, avrebbero la
possibilità illimitata di finanziarlo stampando moneta e anzi, avrebbero il
dovere di farlo per garantire la piena occupazione.
Queste affermazioni che, secondo
il pensiero economico europeo di orientamento rigorista, suonano come
perniciose eresie, stanno facendo proseliti non solo fra gli economisti ma
anche fra gente comune e capi-popolo e, di conseguenza, cresce il malcontento e
la disaffezione verso l’Unione, l’euro e le sue regole.
Di là dalla propria opinione nei
confronti della MMT (io personalmente sono un po’ scettico al riguardo!), il
saggio è utile per comprendere che, effettivamente, e soprattutto in economia, non
bisogna essere dogmatici, né in un senso, né nell’altro. Le politiche
economiche, in ultima analisi, sono scelte e, i mezzi per portarle a termine,
sono strumenti; nulla è sacro, nulla è immutabile e, soprattutto, non esiste
una ricetta assoluta valida per tutte le stagioni, ma solo misure che sono
buone o cattive in funzione del tempo e della situazione per la quale sono
attuate. Molti sono gli accenni che Rampini, in poche pagine, ci elargisce
spingendoci a qualche approfondimento e, sarà un caso, ma ormai, sono parecchie
le voci autorevoli che chiedono di imitare la politica monetaria della FED o
che s’ispirano alle iniziative economiche messe in atto del primo ministro
giapponese Shinzo Abe per far uscire il paese dalle secche della “Trappola della
liquidità”. Cresce, nel frattempo, la consapevolezza riguardo ai conglomerati
bancari, spesso ormai troppo grandi perché possano essere lasciati fallire (“Too
big to fail”) e che, secondo alcuni, andrebbero smembrati; mentre ormai sembra
avviarsi al tramonto l’autorevolezza dei “Signori del Rating” e, nello stesso
tempo, cresce l’importanza dei grandi fondi d’investimento e di quelli sovrani,
sempre più protagonisti della grande finanza internazionale (e non solo di
questa!).
Un bel libro davvero, semplice,
scorrevole e decisamente pieno di fatti curiosi e interessanti.
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