venerdì 9 marzo 2012

Recensione: Sulla Paura – Fragilità, aggressività, potere

“Sulla Paura – Fragilità, aggressività, potere”, di Danilo Zolo, editrice Feltrinelli, iSBN 978-88-07-10476-3.
Il saggio svolge un’indagine incentrata sul sentimento della paura e mi è apparso interessante fin dall’introduzione curiosa, inusuale, un po’ inquietante e dal vago sentore nichilista.
L’Autore riprende una serie di argomentazioni dell’antropologia filosofica. Essa, anche avvalendosi di osservazioni biologiche ed etnologiche, cerca di dimostrare che la paura, in particolare il timore della morte, sia sostanzialmente un esclusivo appannaggio del solo genere umano. Non si parla dunque della paura nel senso d’istinto di conservazione, cioè di quella somma di stimoli che spinge gli esseri viventi a una rapida reazione di fronte ad una certa minaccia da essi percepita, quanto del permanente senso d’insicurezza di se, d’insoddisfazione rispetto alla propria condizione e d’inadeguatezza di fronte all’ambiente e al destino, che sembra essere invece, caratteristica tipica dell’essere umano. Secondo la sintesi presentata dall’Autore, gli animali sarebbero perfettamente adattati ai rispettivi ambienti che ne garantiscono le condizioni di sopravvivenza ed anche i loro strumenti sensoriali sarebbero esattamente dimensionati per cogliere tutte le tipiche minacce e opportunità che provengono da questo quadro di riferimento. Da ciò deriva l’ipotesi che essi vivano perfettamente a loro agio nel proprio habitat e non siano soggetti a effettivo timore, ansia o paura, ma che al più, reagiscano istintivamente a stimoli conosciuti, ivi compresi quelli attribuibili alle loro minacce naturali. L’essere umano invece non è specializzato per vivere in nessun ambiente particolare e per giunta, contrariamente alla maggior parte dei viventi, nasce bisognoso di cure, in uno stato di carenza e dipendenza. Anche in fase matura l’uomo non appare particolarmente dotato fisicamente rispetto ad altri suoi competitori e persino rispetto a creature a esso simili come i mammiferi e pur anche agli altri primati, per far fronte con successo alle avversità di nessun particolare ambiente fisico specifico. Egli per sua natura è adattabile ma anche singolarmente molto vulnerabile e, solo attraverso l’uso dell’intelletto ha imparato a sopperire alle proprie innate mancanze biologiche. Da questa particolare coscienza dei propri limiti nascerebbe la specificità del genere umano, unico essere vivente ad avere piena consapevolezza della propria vulnerabilità, e del proprio destino mortale. Di qui lo stato di paura, ansia, angoscia e di patologica insicurezza psicologica che determinerebbe uno stato d insoddisfazione permanente: “La previsione della fame futura rende l’uomo già affamato”, ricorda l’Autore citando i filosofi Gehlen e Hobbes! Dalla coscienza della propria vulnerabilità, dalla paura quindi, nascerebbero moltissime degli aspetti caratterizzanti (sia positivi sia negativi!) il comportamento individuale e sociale dell’essere umano, quali ad esempio: l’aggressività individuale e collettiva, la necessità di sentimenti aggreganti quali l’amore, l’amicizia e il senso di appartenenza, ma anche l’alienazione, l’esclusione, la competizione e la contrapposizione fra i diversi gruppi umani. In particolare verrebbero anche spiegate alcune caratteristiche non esclusive, ma particolarmente diffuse fra gli uomini, quali la propensione all’uccisione dei propri simili, anche se inermi o sconfitti, la relativamente alta propensione al suicidio e l’alto livello di conflittualità. In sostanza, e come anche il buon senso suggerisce, paura, insicurezza e aggressività procedono di pari passo. Per me comunque gli aspetti più interessanti dell’opera sono quelli relativi all’analisi della paura come elemento fondante delle società umane e, conseguentemente, come strumento di controllo sociale e di potere. Le società umane nascono e si strutturano per far fronte alle minacce alla nostra sopravvivenza; per sopperire a tali necessità possono assumere forme particolarmente elaborate arrivando a occuparsi di una parte preponderante dei bisogni individuali dei propri elementi. Un esempio di questo tipo di organizzazioni sono le collettività orientate verso il “Welfare”, le cosiddette “Società dei Diritti”, ora messe in crisi dalle modificazioni socio-economiche indotte dalla globalizzazione. E’ poi rilevante notare che, se da una parte le società nascono per sopperire al bisogno di sicurezza degli individui che ne fanno parte, dall’altra, la necessaria fonte di potere intorno alla quale la comunità si coagula è essa stesso fonte di paura e coercizione per tutti i membri che ne fanno parte e per le altre collettività con le quali essa viene in contatto. L’elite al potere, allo scopo di aumentare il proprio consenso, ha spesso interesse a fomentare varie forme di paura enfatizzandole attraverso il ricorso a forme d’informazione mirata che sconfinano non raramente nella disinformazione se non nella vera e propria propaganda. Questo succede ad esempio in molti casi quando sono eccessivamente stigmatizzati i rischi dell’immigrazione, della microcriminalità o vengono alimentate forme di razzismo e di ostracismo legati ad aspetti religiosi, sessuali o razziali. Tra l’altro, altrettanto spesso, questi spauracchi sono usati per nascondere e spostare l’attenzione della collettività da altri aspetti più rilevanti e da forme di criminalità più dannose, ma per loro natura più subdole perché meno efferate e che, ovviamente, sono tipicamente riscontrabili proprio fra le elite al potere; ad esempio: la corruzione, la malversazione, l’abuso di potere, la criminalità economica ed ecologica. E’ quindi tipico l’uso della paura in campo sociale come strumento coercitivo e di controllo, per rafforzare le proprie posizioni di potere e di ricchezza e per giustificare le forme di aggressione verso altre culture e collettività.
Le conclusioni dell’opera tendono a lasciare spazio a un certo pessimismo nichilista, appena mascherato da un rinnovato impegno morale. L’Autore cita esplicitamente Albert Camus parlando del senso della vita come “Senso dell’assurdo” e dell’esistenza stessa come “Eroica inutilità”. Anche se comprendo le ragioni che spingono l’Autore a queste conclusioni, finisco per non condividerle in pieno, ritenendo che lo sforzo “Eroico” descritto da Camus finisca per risultare tutt’altro che inutile!

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