mercoledì 13 ottobre 2010

Missione in Afghanistan fra impegno e disimpegno

L’Afghanistan continua a fare vittime nel contingente italiano e nel frattempo la situazione sembra ben lungi dallo stabilizzarsi; sarebbe quindi doveroso ripensare seriamente al ruolo e agli obiettivi del nostro corpo di spedizione. Nel farlo però sarebbe anche necessario rivedere un po’ tutto il processo che ha portato alla degenerazione della situazione afghana. Penso che si possa sostenere che tutto sia iniziato con l’invasione sovietica nell’ormai lontano 1979; in risposta a questa mossa dell’allora URSS l’amministrazione americana infine decise un massiccio piano di aiuti militari ai ribelli avvalendosi della collaborazione dei servizi segreti pakistani, appoggiandosi pertanto ad un Paese lungamente governato da un succedersi di dittature militari fortemente orientate anch’esse al fondamentalismo islamico, impegnate in un vasto programma di destabilizzazione dell’area e costantemente coinvolte in un cruento confronto con la vicina India finalizzato al controllo del Kashmir. L’influenza dell’ISI (i servizi segreti pakistani), il ricorso ai finanziamenti Sauditi che implicavano però come contropartita una crescente penetrazione delle dottrine fondamentaliste orientate al Wahabismo e l’acquiescenza e gli errori di valutazione della CIA, permisero il radicamento dell’estremismo di matrice religiosa in un area dove tutto sommato questo fenomeno era storicamente non molto rilevante. Tutto ciò, non solo presso i ribelli e la popolazione afghana, ma in tutta l’area circostante e proprio nel momento in cui, anche nel vicino Iran veniva ad insediarsi la repubblica islamica. Dopo il ritiro sovietico, avvenuto nel 1989 e una breve resistenza del regime filocomunista del presidente Najibullah, l’Afghanistan rimase sotto il controllo della cosiddetta Alleanza del nord, che raccoglieva sotto un’unica etichetta, un gruppo eterogeneo di organizzazioni guidate da una serie di capi partigiani e signori della guerra di etnie, moralità e ideologie diverse ma in genere accomunati dalla propensione alla ricerca del potere e dell’arricchimento personale. Dopo l’esito positivo della guerra, l’amministrazione americana si è defilata rapidamente tagliando drasticamente i finanziamenti che invece avrebbero dovuto essere dirottati allo scopo di ricostruire il Paese ormai completamente devastato; nel frattempo le tensioni fra i signori della guerra vincitori esplodeva in guerra civile e dal caos risultante emerse il movimento talebano, sempre supportato dall’ingerenza straniera di Pakistan ed Arabia Saudita, ma anche originato dalla genuina disperazione della popolazione di fronte alla prospettiva degli scontri senza fine fra i vari signori della guerra. Gli studenti coranici (per altro figli essi stessi dell’Afghanistan!), almeno in primo tempo, furono accettati se non proprio con simpatia almeno con un certo sollievo poiché portatori di un qualche tipo di ordine. Essi si ponevano a salvaguardia della morale islamica e delle tradizioni e agivano per lo più in rappresentaza dell’etnia Pashtun, storicamente dominante ma sottorappresentata all’interno delle forze dell’Alleanza del nord e per altro, profondamente legata alle aree tribali presenti anche in territorio pakistano. Il Paese, nell’indifferenza dell’occidente, ha continuato la sua progressiva deriva fondamentalista accentuando la sua caratteristica di stato fallito o “canaglia” accogliendo le basi di addestramento del terrorismo islamico in funzione anti occidentale e anti indiana e portando al collasso la già provata economia sempre più isolata e comunque orientata verso i traffici illeciti come il contrabbando o la produzione l’esportazione di oppio e di eroina. Dopo l’episodio delle torri gemelle, il regime talebano viene rovesciato ma la vittoria è di nuovo incompleta infatti, da una parte il ruolo doppiogiochista del Pakistan impedisce di sferrare il colpo mortale sia contro il movimento talebano che contro Al-Qaida perché i ribelli trovano riparo ed appoggio in territorio pakistano, dall’altra parte l’impegno militare viene diluito a seguito del discutibile intervento in Iraq contro Saddam Hussein. Il destino dell’Afghanistan è messo nelle mani del presidente Karzai, attualmente in carica, il cui regime “democratico” viene attualmente puntellato dal contingente NATO. Fino ad adesso non sembra che il presidente Karzai sia riuscito a raggiungere i risultati auspicati e anzi, in più di un episodio anch’esso si è invischiato con una politica tollerante verso la corruzione e orientata verso il familismo (si veda ad esempio le ultime vicende riguardanti le fallimentari speculazioni della famiglia Karzai in Dubai) impedendo per giunta fino ad ora la nascita e lo sviluppo di partiti politici realmente rappresentativi. Soprattutto, almeno fino a pochi giorni fa, si è trascurato di tentare di cooptare i talebani nel governo del Paese, cosa che difficilmente può essere impedita indefinitamente se realmente ci si pone l’obiettivo di instaurare un regime realmente rappresentativo. Nel frattempo il Pakistan si sta disintegrando a causa delle sue stesse politiche e tensioni etniche e deve fronteggiare una pesante situazione umanitaria a seguito delle recenti disastrose inondazioni.
A questo punto viene veramente da domandarsi perché dobbiamo correre dei rischi dopo tutti gli errori delle varie amministrazioni americane che si sono via via succedute e dei loro servizi di sicurezza e tenendo conto altresì che ci sono parecchie ragioni per diffidare delle capacità dell’attuale esecutivo afghano. Immagino che ai normali cittadini italiani non sia per niente chiaro quale sia il nostro ruolo la nostra funzione e i nostri interessi in questo ginepraio. Non è neppure certo se il nostro governo (e quelli che l’hanno preceduto) abbia formulato dei chiari obiettivi, limiti temporali e condizioni per l’appoggio all’attuale governo afghano, nonché per l’intervento l’impiego operativo e ancora meglio per il ritiro del nostro contingente. A me infatti sembra evidente che i tempi per vincere (o meglio non perdere) la guerra saranno ancora lunghi, ma nel contempo è altrettanto evidente che per stroncare la resistenza talebana è senza dubbio necessario combattere duramente smettendo di fare finta di essere solo un contingente di peacekeeping (ma questo più o meno segretamente lo stiamo già facendo) , ma soprattutto è necessario spingere l’attuale governo afghano e magari anche l’amministrazione americana ad accettare un accordo con i talebani tenendone almeno in conto parte delle istanze sociali e politiche. Nel migliore dei casi quindi è probabile che non assisteremo alla nascita di una pacifica democrazia perfetta (ne abbiamo forse da qualche parte?) e ciò, perché buona parte della popolazione semplicemente non la vuole e noi evidentemente non siamo in grado di imporla, sarà quindi necessario scendere in qualche modo a compromessi con la profonda e ormai esasperata cultura islamica del Paese e del sempre più turbolento e instabile vicino, il Pakistan. Se però non siamo veramente intenzionati o come più probabile, abbastanza autorevoli e forti per poter portare avanti questo doppio obiettivo necessario alla stabilizzazione dell’intera area, sarebbe forse meglio che ammettessimo la sconfitta e levassimo le tende, limitando il più possibile i danni e le nostre perdite umane, con buona pace dei nostri alleati americani, per i quali deve essere chiaro che non possono contare su di noi alla stregua di mera forza militare per procura e che venga posta allo stesso livello dei loro contractors.

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