“Il Capitale nel XXI° Secolo”, titolo originale: “le Capital au XXIe siècle”, di Thomas Piketty,
traduzione di Sergio Arecco, edizioni Bompiani, ISBN: 978-88-452-7773-3.
Il saggio di Piketty si concentra su alcuni punti essenziali
riguardanti l’importanza economica, politica e sociale del ruolo del capitale.
A parer mio, l’autore ha svolto un lavoro di ricerca e di
raccolta statistica notevole che permette di supportare le tesi esposte in modo
convincente. Dal punto di vista dello stile di scrittura, il saggio si presenta
come impegnativo (almeno rispetto al numero di pagine) ma finisce per essere
abbastanza scorrevole. Soprattutto, l’Autore adotta un linguaggio divulgativo
semplice e chiaro e il testo è piacevolmente inframmezzato da una serie di
rappresentazioni grafiche sintetiche ed efficaci. L’insieme ha il pregio di
rendere i concetti esposti accessibili e comprensibili a tutte le tipologie di
lettori, ancorché relativamente “digiuni” di questioni economiche. L’unico
aspetto un po’ fastidioso che caratterizza quest’opera è, a parer mio, il ripetersi
di alcuni concetti di base che appesantiscono eccessivamente una narrazione che
avrebbe potuto essere più concisa.
Le tesi di Piketty hanno lo scopo di dimostrare come esista il
ragionevole sospetto che il nostro modello economico sia fortemente influenzato
da fattori che tendano ad accentuare, anziché attenuare le differenze fra i
redditi e fra i diversi patrimoni e che vede progressivamente aumentare il peso
e il ruolo del capitale in rapporto alla produzione dell’intero reddito
nazionale.
Tali affermazioni, sebbene anche intuitivamente, possano
accordarsi con quanto sia possibile costatare osservando l’evoluzione degli
eventi negli ultimi decenni (si pensi, ad esempio, ai “super stipendi” che
caratterizzano l’alto management delle multinazionali o alle statistiche sui patrimoni
dei miliardari redatta dalle riviste di “gossip”), sarebbe in contraddizione
con quanto previsto più ottimisticamente dall’economista Simon Kuznets negli
anni cinquanta del novecento, che prevedeva una progressiva diminuzione delle
disparità nei redditi al crescere dello sviluppo economico. Le previsioni di
Kuznets si sono accordate abbastanza bene con quanto è effettivamente accaduto
nei principali paesi industrializzati nei primi ottant’anni del novecento; dopo
la fine della Seconda Guerra Mondiale, infatti, i principali paesi occidentali
hanno assistito per circa trent’anni sia a una lunga fase di sviluppo, sia a
una riduzione delle diseguaglianze sociali, resa percepibile dalla crescita sostanziale
della cosiddetta “Classe media”. Poi, però, dagli anni ottanta del novecento le
diseguaglianze hanno ricominciato a crescere, sia nei paesi sviluppati, sia in
quelli in corso di sviluppo.
L’aspetto importante sottolineato da Piketty è che, in un’ottica
di lungo periodo che preveda tassi di crescita economica e della popolazione
non particolarmente sostenuti, le diseguaglianze tenderanno a crescere in
maniera strutturale poiché il tasso di rendimento del capitale è costantemente
superiore al tasso di crescita media dell’economia reale. Uno scenario di
questo tipo sarebbe, secondo l’Autore quello caratteristico del nostro “Lungo
periodo”, caratterizzato da tassi di crescita molto lenti e solo episodicamente
inframmezzato da periodi di rapida accelerazione economica. In pratica, sarebbe
una pura e semplice chimera il prospettare lunghi periodi di crescita sostenuta
e tali da ridurre “naturalmente” le diseguaglianze. Invece, un tipo di trend come
quello di lungo periodo descritto dall’Autore, andrebbe a tutto vantaggio di
chi ha a disposizione delle rendite e, soprattutto, tenderebbe a premiare la
trasmissione dei patrimoni da una generazione all’altra rispetto a quanto,
invece, favorisca il reddito da lavoro e il risparmio che si possa conseguire
attraverso la propria attività di una vita.
Va rilevato che, normalmente è riconosciuto come le società di “rentier”
o, comunque molto polarizzate rispetto al possesso della ricchezza, tendano a ingenerare
contrasti e resistenze nei confronti dell’idea di “Democrazia”, qual è
normalmente concepita e che, in linea di principio, si accorda con il concetto
di “Classe media” e si sviluppa in conformità d’idee e ideali che mettono in
risalto il merito, la mobilità sociale e le pari opportunità, contrapponendole
al concetto di status ereditato per diritto di nascita.
L’Autore pensa che il periodo storico che ha visto la caduta
dell’importanza della rendita del capitale dopo la “Belle Epoque” cui è seguita
l’impetuosa crescita economica dei paesi occidentali dopo la seconda guerra
mondiale per i successivi trent’anni (“the fabulous thirties”) sia, stata, sostanzialmente,
un’eccezione alla regola dovuta alla combinazione di eventi traumatici ed eccezionali:
le due guerre mondiali, intervallate dalla Grande Depressione, e la successiva
lunga fase di sviluppo economico. Durante questo periodo eccezionalmente “volatile”
si sono rese necessarie ampie riforme politiche e fiscali in senso redistributivo
e ha preso forma l’insieme di ammortizzatori sociali che rientrano sotto il
termine di “welfare”. Dalla metà degli anni ottanta del novecento, però, è cominciata,
un po’ in tutti paesi sviluppati, una fase di riflusso, determinata, sia da un rallentamento
della crescita, sia da una serie di riforme politiche tese a erodere in senso
liberista il ruolo centrale dello Stato, i forse eccessivi disavanzi, ma anche
finalizzate a ridurre il peso del welfare. Nel frattempo è cambiata anche la
politica fiscale che, per una serie complessa di combinazione di fattori, ha
finito per involvere in senso sostanzialmente regressivo e a tutto danno del “Ceto
Medio”. Si è assistito al nascere di teorie fiscali liberiste un po’ dubbie o,
quanto meno, poco intuitive, che hanno avuto un certo successo almeno durante l’ultimo
ventennio del novecento, cito ad esempio quella basata sul concetto di “Trickle
Down” (letteralmente “Sgocciolamento”) che ha avuto un certo successo negli USA
e nel Regno Unito e che si basa(va) sul concetto che detassando i redditi più
elevati si sarebbero favoriti i consumi delle classi agiate e, di conseguenza,
la ripresa economica (!!!). In ogni caso, e questo già a partire dagli anni
cinquanta, ci si è progressivamente allontanati dalle politiche, sicuramente in
odore di populismo, ma certamente punitive nei confronti degli alti livelli di
reddito (anche con aliquote fiscali superiori al 90% per certi scaglioni) e di
capitale, inaugurate durante la Grande Depressione e, a volte, messe in atto al
termine della seconda guerra mondiale (Piketty, ad esempio, cita il caso
francese della tassa straordinaria sul capitale, escussa nell’immediato
dopoguerra) con il proposito di colpire i sovra profitti, i livelli di reddito
eccessivamente alti, oppure le posizioni dominanti. A ciò bisogna aggiungere
che la concorrenza fra Stati, al fine di attrarre investimenti produttivi, ha
notevolmente diminuito la tassazione reale sulle imprese (soprattutto se si
tiene conto anche dell’effetto di contributi e incentivi) e la progressiva
liberalizzazione nella circolazione dei capitali ha favorito la fuoriuscita e l’occultamento
di enormi masse finanziarie sottraendole a ogni possibilità reale di imposizione
equa. Aggiungiamo, infine, che le tasse di successione hanno perso anche quella
poca importanza relativa che avevano assunto in passato e, soprattutto, è
facile costatare come i grandi patrimoni (intestati a fondazioni, trust e
società anonime …), di fatto, non vengono pressoché più toccati da esse.
Per sintetizzare, a me sembra che il cuore del messaggio dell’Autore
possa essere così riassunto:
1)
Il trend di lungo periodo che caratterizza il nostro contesto
macroeconomico si basa su una situazione che vede costantemente prevalere la
rendita del capitale rispetto al tasso di crescita generale. Questo porta
inesorabilmente a favorire l’accentramento della ricchezza e, di conseguenza,
ad accrescere il potere di chi detiene il controllo dei grandi patrimoni (fondi
sovrani, fondazioni, privati, ecc.).
2)
Il momento relativamente redistributivo che si è verificato
durante “the fabulous thirties” è stato un’eccezione alla regola e, sulla base
delle rilevazioni statistiche attuali, ci sono segnali che indicano il
progressivo ristabilirsi della tendenza dominante di lungo periodo che premia i
detentori di patrimoni importanti.
3)
Tale situazione è vista come potenzialmente pericolosa in
funzione di un ideale democratico che, in sintesi, si basi su delle società
civili orientate verso principi redistributivi e assicurativi fra gli individui
e che prevedano un modello meritocratico e uno schema egualitario almeno sotto
il punto di vista delle “pari opportunità”.
4)
Qualora si abbia interesse a sfavorire gli effetti del trend di
lungo periodo che favorisce l’accumulo e la concentrazione del capitale, non si
può far ricorso al “laissez faire” ma, al contrario, è necessario mettere in
atto politiche fiscali che contrastino attivamente il fenomeno.
Se effettivamente ho interpretato correttamente il pensiero dell’Autore,
ritengo di poter condividere sia le sue analisi, sia i suoi timori. Per me il
saggio di Piketty andrebbe letto assolutamente.
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