giovedì 12 febbraio 2015

Recensione: Il Capitale nel XXI° Secolo


“Il Capitale nel XXI° Secolo”, titolo originale: “le Capital au XXIe siècle”, di Thomas Piketty, traduzione di Sergio Arecco, edizioni Bompiani, ISBN: 978-88-452-7773-3.
 
Il saggio di Piketty si concentra su alcuni punti essenziali riguardanti l’importanza economica, politica e sociale del ruolo del capitale.

A parer mio, l’autore ha svolto un lavoro di ricerca e di raccolta statistica notevole che permette di supportare le tesi esposte in modo convincente. Dal punto di vista dello stile di scrittura, il saggio si presenta come impegnativo (almeno rispetto al numero di pagine) ma finisce per essere abbastanza scorrevole. Soprattutto, l’Autore adotta un linguaggio divulgativo semplice e chiaro e il testo è piacevolmente inframmezzato da una serie di rappresentazioni grafiche sintetiche ed efficaci. L’insieme ha il pregio di rendere i concetti esposti accessibili e comprensibili a tutte le tipologie di lettori, ancorché relativamente “digiuni” di questioni economiche. L’unico aspetto un po’ fastidioso che caratterizza quest’opera è, a parer mio, il ripetersi di alcuni concetti di base che appesantiscono eccessivamente una narrazione che avrebbe potuto essere più concisa.
 
Le tesi di Piketty hanno lo scopo di dimostrare come esista il ragionevole sospetto che il nostro modello economico sia fortemente influenzato da fattori che tendano ad accentuare, anziché attenuare le differenze fra i redditi e fra i diversi patrimoni e che vede progressivamente aumentare il peso e il ruolo del capitale in rapporto alla produzione dell’intero reddito nazionale.

Tali affermazioni, sebbene anche intuitivamente, possano accordarsi con quanto sia possibile costatare osservando l’evoluzione degli eventi negli ultimi decenni (si pensi, ad esempio, ai “super stipendi” che caratterizzano l’alto management delle multinazionali o alle statistiche sui patrimoni dei miliardari redatta dalle riviste di “gossip”), sarebbe in contraddizione con quanto previsto più ottimisticamente dall’economista Simon Kuznets negli anni cinquanta del novecento, che prevedeva una progressiva diminuzione delle disparità nei redditi al crescere dello sviluppo economico. Le previsioni di Kuznets si sono accordate abbastanza bene con quanto è effettivamente accaduto nei principali paesi industrializzati nei primi ottant’anni del novecento; dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, infatti, i principali paesi occidentali hanno assistito per circa trent’anni sia a una lunga fase di sviluppo, sia a una riduzione delle diseguaglianze sociali, resa percepibile dalla crescita sostanziale della cosiddetta “Classe media”. Poi, però, dagli anni ottanta del novecento le diseguaglianze hanno ricominciato a crescere, sia nei paesi sviluppati, sia in quelli in corso di sviluppo.

L’aspetto importante sottolineato da Piketty è che, in un’ottica di lungo periodo che preveda tassi di crescita economica e della popolazione non particolarmente sostenuti, le diseguaglianze tenderanno a crescere in maniera strutturale poiché il tasso di rendimento del capitale è costantemente superiore al tasso di crescita media dell’economia reale. Uno scenario di questo tipo sarebbe, secondo l’Autore quello caratteristico del nostro “Lungo periodo”, caratterizzato da tassi di crescita molto lenti e solo episodicamente inframmezzato da periodi di rapida accelerazione economica. In pratica, sarebbe una pura e semplice chimera il prospettare lunghi periodi di crescita sostenuta e tali da ridurre “naturalmente” le diseguaglianze. Invece, un tipo di trend come quello di lungo periodo descritto dall’Autore, andrebbe a tutto vantaggio di chi ha a disposizione delle rendite e, soprattutto, tenderebbe a premiare la trasmissione dei patrimoni da una generazione all’altra rispetto a quanto, invece, favorisca il reddito da lavoro e il risparmio che si possa conseguire attraverso la propria attività di una vita.

Va rilevato che, normalmente è riconosciuto come le società di “rentier” o, comunque molto polarizzate rispetto al possesso della ricchezza, tendano a ingenerare contrasti e resistenze nei confronti dell’idea di “Democrazia”, qual è normalmente concepita e che, in linea di principio, si accorda con il concetto di “Classe media” e si sviluppa in conformità d’idee e ideali che mettono in risalto il merito, la mobilità sociale e le pari opportunità, contrapponendole al concetto di status ereditato per diritto di nascita.

L’Autore pensa che il periodo storico che ha visto la caduta dell’importanza della rendita del capitale dopo la “Belle Epoque” cui è seguita l’impetuosa crescita economica dei paesi occidentali dopo la seconda guerra mondiale per i successivi trent’anni (“the fabulous thirties”) sia, stata, sostanzialmente, un’eccezione alla regola dovuta alla combinazione di eventi traumatici ed eccezionali: le due guerre mondiali, intervallate dalla Grande Depressione, e la successiva lunga fase di sviluppo economico. Durante questo periodo eccezionalmente “volatile” si sono rese necessarie ampie riforme politiche e fiscali in senso redistributivo e ha preso forma l’insieme di ammortizzatori sociali che rientrano sotto il termine di “welfare”. Dalla metà degli anni ottanta del novecento, però, è cominciata, un po’ in tutti paesi sviluppati, una fase di riflusso, determinata, sia da un rallentamento della crescita, sia da una serie di riforme politiche tese a erodere in senso liberista il ruolo centrale dello Stato, i forse eccessivi disavanzi, ma anche finalizzate a ridurre il peso del welfare. Nel frattempo è cambiata anche la politica fiscale che, per una serie complessa di combinazione di fattori, ha finito per involvere in senso sostanzialmente regressivo e a tutto danno del “Ceto Medio”. Si è assistito al nascere di teorie fiscali liberiste un po’ dubbie o, quanto meno, poco intuitive, che hanno avuto un certo successo almeno durante l’ultimo ventennio del novecento, cito ad esempio quella basata sul concetto di “Trickle Down” (letteralmente “Sgocciolamento”) che ha avuto un certo successo negli USA e nel Regno Unito e che si basa(va) sul concetto che detassando i redditi più elevati si sarebbero favoriti i consumi delle classi agiate e, di conseguenza, la ripresa economica (!!!). In ogni caso, e questo già a partire dagli anni cinquanta, ci si è progressivamente allontanati dalle politiche, sicuramente in odore di populismo, ma certamente punitive nei confronti degli alti livelli di reddito (anche con aliquote fiscali superiori al 90% per certi scaglioni) e di capitale, inaugurate durante la Grande Depressione e, a volte, messe in atto al termine della seconda guerra mondiale (Piketty, ad esempio, cita il caso francese della tassa straordinaria sul capitale, escussa nell’immediato dopoguerra) con il proposito di colpire i sovra profitti, i livelli di reddito eccessivamente alti, oppure le posizioni dominanti. A ciò bisogna aggiungere che la concorrenza fra Stati, al fine di attrarre investimenti produttivi, ha notevolmente diminuito la tassazione reale sulle imprese (soprattutto se si tiene conto anche dell’effetto di contributi e incentivi) e la progressiva liberalizzazione nella circolazione dei capitali ha favorito la fuoriuscita e l’occultamento di enormi masse finanziarie sottraendole a ogni possibilità reale di imposizione equa. Aggiungiamo, infine, che le tasse di successione hanno perso anche quella poca importanza relativa che avevano assunto in passato e, soprattutto, è facile costatare come i grandi patrimoni (intestati a fondazioni, trust e società anonime …), di fatto, non vengono pressoché più toccati da esse.

Per sintetizzare, a me sembra che il cuore del messaggio dell’Autore possa essere così riassunto:

1)      Il trend di lungo periodo che caratterizza il nostro contesto macroeconomico si basa su una situazione che vede costantemente prevalere la rendita del capitale rispetto al tasso di crescita generale. Questo porta inesorabilmente a favorire l’accentramento della ricchezza e, di conseguenza, ad accrescere il potere di chi detiene il controllo dei grandi patrimoni (fondi sovrani, fondazioni, privati, ecc.).

2)      Il momento relativamente redistributivo che si è verificato durante “the fabulous thirties” è stato un’eccezione alla regola e, sulla base delle rilevazioni statistiche attuali, ci sono segnali che indicano il progressivo ristabilirsi della tendenza dominante di lungo periodo che premia i detentori di patrimoni importanti.

3)      Tale situazione è vista come potenzialmente pericolosa in funzione di un ideale democratico che, in sintesi, si basi su delle società civili orientate verso principi redistributivi e assicurativi fra gli individui e che prevedano un modello meritocratico e uno schema egualitario almeno sotto il punto di vista delle “pari opportunità”.

4)      Qualora si abbia interesse a sfavorire gli effetti del trend di lungo periodo che favorisce l’accumulo e la concentrazione del capitale, non si può far ricorso al “laissez faire” ma, al contrario, è necessario mettere in atto politiche fiscali che contrastino attivamente il fenomeno.

Se effettivamente ho interpretato correttamente il pensiero dell’Autore, ritengo di poter condividere sia le sue analisi, sia i suoi timori. Per me il saggio di Piketty andrebbe letto assolutamente.

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